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Premio Nonino 2014 a Peppe Dell’Acqua

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di Anita Eusebi.

Psichiatra e scrittore ha combattuto sin dai primi accanto a Franco Basaglia la lunga e perigliosa battaglia che ha portato, prima alla trasformazione e quindi alla chiusura degli ospedali psichiatrici, riforma fondamentale per la difesa di elementari diritti umani di persone per molto tempo ignorate o respinte nella loro sofferenza. Autore di numerosi testi sul disagio mentale che spaziano da rigorosi saggi scientifici a veri e propri racconti insieme documento clinico e romanzo di vite difficili.

MAX_0561In poche righe una vita intera, spesa accanto alle persone che vivono la sofferenza del disagio mentale, lottando ogni giorno affinché non si smetta mai di restituire loro dignità, diritti e piena cittadinanza.  Un impegno e una scelta di campo che si riflettono nelle porte aperte della presa in carico e della cura sul territorio. E ancora, in un’intensa attività di comunicazione sul tema della salute mentale. “La società stessa, attraverso una varietà di fattori, può concorrere a innescare la malattia mentale o può contribuire in maniera importante al suo aggravarsi o al suo risolversi. Ci vuole qualcosa di simile a una rivoluzione per mettere fine alla segregazione e allo stigma, per trasformare la cura psichiatrica da un sistema carcerario speciale in un sistema sanitario aperto, per dire no al pregiudizio” afferma il neuroscienziato portoghese Antonio R. Damasio, membro della Giuria del Premio Nonino, presieduta da V. S. Naipaul premio Nobel per la Letteratura 2001. “La giuria ha premiato Peppe Dell’Acqua per il suo fondamentale contributo a questa trasformazione, – prosegue Damasio – per aver richiamato l’attenzione sulla tragedia dell’ingiustizia e sulla necessità di cambiamento. Ha avuto un ruolo chiave in una rivoluzione che è ancora in atto. Il premio è per il lavoro di una vita.” Ed è un premio strameritato, perché la libertà è terapeutica, perché guarire si può, e dunque è necessario continuare a “basagliare”.

(Nella foto in basso Peppe Dell’Acqua e Gianola Nonino)


C’era una volta la città dei matti – Peppe Dell’Acqua racconta

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locandina Urbinodi Alessandro Siciliano, socio-fondatore dell’Associazione Culturale Rizoma

1971, Franco Basaglia è direttore del manicomio di Trieste. 1978, il Parlamento approva la Legge 180 sulla riforma psichiatrica. In 7 anni, concepimento, gestazione e nascita di una buona idea, di buone pratiche. Riforma epocale, rivoluzione. Basaglia a Trieste rappresenta per molti il punto d’origine, a partire da qui possiamo cominciare a pensare, a parlare, a respirare. Accanto a lui c’era, c’è, un giovane psichiatra, si chiama Peppe Dell’Acqua. Dal ‘78 ad oggi, Peppe Dell’Acqua è uno dei maggiori elementi derivati da quel Big Bang. Sì, Big Bang, perché non è facile farsi un’idea, avere una rappresentazione della storia senza il sostegno della narrazione. Cos’è successo? Qual è lo stato di salute della Legge 180 ad oggi? Cos’è un OPG? Come funziona un SPDC? E ancora: cosa è stato e cos’è il DSM di Trieste? Che cos’è Marco Cavallo? E il Forum Salute Mentale? E la Collana180? Giovedì 27 febbraio, Peppe Dell’Acqua ci racconterà questa storia e ci dirà del perché la libertà è terapeutica.

La mia prima volta …

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09ERN003Le prime volte che mi avvicinai col cuore a Basaglia, leggendo una biografia, mi colpì la frase con cui aprì il Corriere il 30 Agosto 1980, il giorno dopo la sua morte: “Basaglia è morto, Forse Ora non ha più Nemici”. Chiesi uno dei miei tanti perché a chi lo amava da sempre e mi lasciai trascinare nel racconto degli interessi delle istituzioni, le accuse dinanzi all’imprevedibile umano, l’incapacità di misurarsi con la paura, il bisogno di segregare, fare scienza, controllare le pulsioni altrui per rassicurare se stessi e lasciare tutto com’è. Capii perché avesse avuto tanti nemici mentre rischiava, senza sapere mai fin dove. Quello che non mi colpì allora fu la parola “FORSE” ora non ha più nemici. Oggi, solo oggi e troppo tardi, capisco che non è andata così. Avverto i nemici quando si fanno grandi elogi alla sua umanità evitando così di Parlarne davvero. Nella difficoltà che incontro io, ora che ne voglio parlare, a farmi dare ascolto. E, soprattutto, nel fatto che io stessa sia dovuta andare in crisi rispetto alle certezze infuse, misurare le distanze e l’affettività e solo dopo essermi Persa in tante strade, sentirne parlare davvero… per capire il senso di quella rivoluzione e l’infinito cambiamento a cui ci avrebbe dovuto naturalmente condurre se i nemici di Basaglia fossero morti con lui.

di Eloisa Castaldo

Legato, sedato e infine ucciso. L’assurda morte di Giuseppe Casu.

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imageSi chiamava Giuseppe Casu. Faceva l’ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d’ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d’appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall’evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra.

La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d’ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell’ordine a causa dell’ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l’ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia, «Era addormentato, faceva fatica a parlare».

Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L’unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d’alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato – quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d’astinenza.

«Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto.

La prima autopsia parla di una tromboembolia all’arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato “Verità e giustizia per Giuseppe Casu “, e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l’accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all’origine di quell’embolia.

Ma qui inizia “l’incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d’appello di Cagliari. Perché parallelente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L’accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l’ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti.

Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell’autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di “morte improvvisa”, una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello.

Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo».

«Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l’arco di tempo», scrive la corte d’appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse».

È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante».

Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d’astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato».

«Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per “mancanza di personale”.

(di Francesca Sironi, Legato, sedato e infine ucciso. L’assurda morte di Giuseppe Casu per trattamento sanitario obbligatorio, da L’Espresso)

Gli ospedali psichiatrici giudiziari diventano rems: solo questione di nome?

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eusebi_-_Copiadi Anita Eusebi (pubblicato su StradeOnline)

Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), nati in Italia nell’Ottocento in epoca lombrosiana, oggi come allora racchiudono in sé il peggio del peggio dell’istituzione manicomiale e di quella carceraria. Si tratta di strutture giudiziarie, note anche come manicomi criminali, che sono sopravvissute alla chiusura dei manicomi civili, sancita ormai oltre 35 anni fa dalla Legge 180. In nome della pericolosità sociale e della non imputabilità del reato al malato di mente (artt. 88 e 89 del Codice Penale) accade che “il reo non viene inviato in carcere perché non può comprendere ciò che significa pena e rieducazione; viene allora inviato in manicomio giudiziario, dove sotto forma di cura espia in realtà una pena che capisce ancora meno“, scriveva Franco Basaglia in Conferenze Brasiliane. Nonostante sentenze della Corte Costituzionale (139/1982, 253/2003 e 367/2004) abbiano stabilito che la pericolosità sociale non è un attributo naturale di quella persona o di quella malattia e abbiano dichiarato incostituzionale la non applicazione di misure alternative all’internamento in OPG, l’impianto normativo resta quello del Codice Rocco del 1930, residuo del regime fascista, coerente con la mentalità segregazionista in materia di malattia mentale. Continua Basaglia, “sono vere e proprie fosse dei serpenti con persone legate ai letti o chiuse in isolamento per mesi. […] Il governo promise di chiuderli, ma naturalmente sono rimasti aperti e funzionanti“.

Nel 2010 la Commissione parlamentare d’inchiesta SSN del Senato della Repubblica, presieduta da Ignazio Marino, ha monitorato ciascuno dei sei OPG presenti in Italia (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere), irrompendo senza alcun preavviso per indagare sulle condizioni igienico-sanitarie, sui sistemi di “cura e custodia” e sul numero degli internati, in particolare di quelli dimissibili, ma dimenticati lì da anni. Le testimonianze emerse sono terribilmente drammatiche, come denunciano i documentari OPG. Dove vive l’uomo (vedi Presa Diretta) e Lo Stato della follia di Francesco Cordio.

L’inferno di questi ‘non luoghi’, dove sono internate ancora oggi 890 persone (al 10 gennaio 2014) in condizioni a dir poco disumane, costituisce una pagina vergognosa della nostra Repubblica. Sono i lager dei tempi odierni, lontani quanto basta dagli occhi affinché non disturbino il quieto vivere e non rechino imbarazzo al pubblico pudore. L’internamento e la custodia, secondo la vecchia logica manicomiale, ne sono il fondamento, insieme alla violenza delle porte chiuse e delle cattive pratiche, intrise di contenzione, dell’abuso del trattamento farmacologico, della privazione di ogni elementare diritto di esseri umani. È dunque a dir poco paradossale parlare di cura e riabilitazione in una dimensione di annichilimento e tortura, che rimanda ai manicomi della prima metà del ‘900.

L’orrore degli OPG non è però solo quello visibile della situazione estrema in cui le persone sono crocifisse ai letti di contenzione senza materasso e con il buco al centro. L’aspetto atroce è anche nella continuità che, prescindendo dalle persone, è strutturale di luoghi che portano con sé un’eredità di inumanità e di miseria che possiamo rifiutare solamente chiudendoli. Eppure chiuderli non basta, occorre lavorare al superamento dell’istituzione totale dell’OPG, dei meccanismi giuridici e pseudoscientifici che tengono ancora in piedi i suoi muri, passando per la de-stigmatizzazione culturale di luoghi comuni e pregiudizi che abbondano in ogni dove. Lo squallore degli ambienti è indescrivibile, ma sarebbe pericoloso fermarsi lì e pensare di risolvere la bruttura dell’arretratezza investendo in strutture moderne, tirate a lucido e con bagni idonei, ossia nella falsa modernizzazione.

IL VIAGGIO DI MARCO CAVALLO NEGLI OPG

Lo scorso novembre l’iniziativa Il viaggio di Marco Cavallo nel mondo di fuori per incontrare gli internati, promossa dal cartello di associazioni StopOPG, portavoce nazionale Stefano Cecconi, e sostenuta da Collana 180 – Archivio Critico della Salute Mentale, direttore lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, ha riportato gli OPG all’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità di governo, e ha ricevuto da Napolitano la Medaglia del Presidente della Repubblica in segno di personale apprezzamento. Protagonista Marco Cavallo, con il suo carico simbolico di sogni di libertà, uguaglianza, dignità e inclusione sociale. Il cavallo azzurro di legno e cartapesta, che nel 1973 ruppe i muri del manicomio San Giovanni di Trieste insieme a Basaglia, è tornato così a “invadere le strade” e a far sua la battaglia degli ultimi.

Il messaggio di denuncia, la chiusura degli OPG. Ma soprattutto un no chiaro e forte alle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (rems), in costruzione in tutta Italia. “I manicomi criminali? È da criminali continuare a tenerli aperti. Ma non saranno i fiori alle finestre e le stanze pulite e ordinate a restituire i diritti e i doveri di una piena e reale cittadinanza alle persone ora internate negli OPG, se si continueranno a perpetuare gli stessi meccanismi ideologici di esclusione, isolamento e custodia”, commenta Dell’Acqua. “Il problema è che non si stanno costruendo rems per coloro che abbiamo il dovere di trattare in modo adeguato, ma piuttosto tanti mini OPG con posti letto in numero maggiore delle persone oggi internate”, spiega Cecconi. Infine, la necessità di fornire ai servizi territoriali di salute mentale adeguate risorse economiche e umane, per garantire la presa in carico, con progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati, dei tanti internati dimissibili per reati di poco conto, cosiddetti “bagatellari”, in nome del diritto alle cure e al recupero, nonché al reinserimento sociale, pur nel rispetto di quelle che sono le misure di sicurezza.

LA BEFFA DELL’ENNESIMO RINVIO

Sulla base del lavoro della Commissione Marino e delle parole dello stesso Presidente della Repubblica Napolitano che ha definito gli OPG “indegni per un Paese appena civile”, la legge 17 febbraio 2012, n. 9 art 3-ter ne prevedeva il definitivo superamento per febbraio 2013. Ma il rinvio poi al 1° aprile 2014, e ora il rischio di un nuovo impantanamento nell’ulteriore proroga al 2017 richiesta di recente dalle Regioni, sono un segno evidente di come (mal)funzionano le cose. Nella motivazione ufficiale dell’emendamento al decreto Milleproroghe si legge “Nonostante le Regioni abbiano presentato, entro i termini assegnati, i programmi per la realizzazione delle strutture sanitarie alternative agli OPG, le stesse non saranno in grado di poter nemmeno avviare nei pochi mesi rimasti, le procedure di gara per la scelta del progettista e dell’impresa esecutrice dei lavori.” La preoccupazione delle Regioni è dunque che non sono pronte le rems.

Si tratta di una motivazione inaccettabile per StopOPG. “Il problema non è il ritardo nella costruzione delle rems, ma la chiusura degli attuali OPG in funzione della ‘regionalizzazione’ degli stessi – afferma Cecconi – il problema va affrontato con il rafforzamento di una cultura di responsabilità, il potenziamento dei finanziamenti, la presa in carico degli internati da parte dei servizi e l’applicazione da parte della magistratura delle sentenze della Corte Costituzionale”. Analogo il commento e lo sconcerto di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone: “La proroga è grave, si fa carta straccia delle parole del Capo dello Stato. È un fallimento delle istituzioni. Le risorse vanno spese per progetti terapeutici di inclusione sociale, non per la costruzione di piccole comunità psichiatriche custodiali”.

Sulla scia degli incontri avuti a novembre con il Presidente del Senato Pietro Grasso e la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, e a dicembre con il Sottosegretario alla Salute Paolo Fadda e la Ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri, lo scorso 18 febbraio una delegazione del comitato StopOPG ha presentato in Senato dei precisi vincoli di legge per favorire le dimissioni e le misure alternative alla detenzione, frenare gli ingressi impropri e porre fine alle proroghe, dovute in gran parte non alla pericolosità della persona ma all’incuria delle istituzioni che dovrebbero farsi carico di costruire un credibile progetto terapeutico riabilitativo individuale.

La nave del manicomio è affondata, altre navi, solo in apparenza meno minacciose, si stagliano all’orizzonte“, scriveva Basaglia in La nave che affonda. E il 2017 corre il serio pericolo di essere un orizzonte affollato di neostrutture manicomiali, di problemi logistici ed economici (residenze, numero posti letto, camici bianchi), dove gli internati in quanto persone rischiano di passare tristemente in secondo piano. E con loro la dimensione umana, etica, civile e politica della questione degli OPG, una realtà che rende l’Italia indegna della Costituzione, e della stessa legge 180.

La foto del padre

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(la foto di Harald Bischoff)

(la foto di Harald Bischoff)

di Giovanni Rossi.

C’è una radio, una web radio, si chiama Rete 180. Centottanta non è il numero della frequenza con cui trasmette (è una web radio) ma quello della legge che ha decretato la fine dei manicomi. Rete 180 è, infatti, la voce di chi sente le voci. Un radio fatta da persone che hanno o hanno avuto problemi di salute mentle.

C’è una foto, una bella foto di Franco Basaglia. E’ una delle più presenti in internet. Ad esempio viene utilizzata dalla pagina di wikipedia dedicata al grande psichiatra veneziano http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Basaglia . Fu scattata nel 1979 alla Ludwig Maximilians Universität München dal fotografo Harald Bischoff.

C’è una notizia. In Egitto si è aperto il primo centro di salute mentale. Si trova a Kobania Abu Keer, Distretto di Kafr El Dawar, Regione di Beheira. Nel nord del Paese, delta del Nilo, a 15 Km da Alessandria e dal suo Manicomio di Maamura. Il Centro si chiama “Franco Basaglia”.

La nostra storia inizia nel gennaio del 2011 quando i redattori di Rete 180 si imbattono con la notizia del centro “Basaglia”. Siamo nel pieno della “primavera araba”. L’Egitto è al centro dell’attenzione mediterranea e mondiale. Rete 180 decide di dare la notizia. La mette sulla home page del suo sito e la accompagna con la foto di Franco Basaglia, riprendendola dal sito di wikipedia.

Poi Rete 180 entra in un lungo letargo. Il sito viene abbandonato, ma rimane accessibile nel web. La notizia del CSM Basaglia, oramai vecchia di anni, continua ad essere l’ultima notizia data.

Solo alla fine del 2013, grazie ad un neonato circolo ARCI, alla disponibilità del centro servizi del volontariato, alla caparbietà di alcuni redattori è possibile far ripartire in una nuova sede la radio. Si inizia allestendo uno studio, seppur minimale, e facendo partire un corso di formazione. Il sito web, intanto, rimane intatto ed obsoleto in attesa di essere rifatto, quando sarà possibile.

Il 16 gennaio 2014 a Rete 180 scrive un avvocato di Monaco di Baviera, che chiede i danni (più di 2000 euro) perchè sono anni che Rete 180 pubblica sul sito la foto di Basaglia, senza citarne l’autore, il signor Harald Bischoff.

Da non crederci. Ed infatti a Rete 180, passato lo stupore, si passa alle verifiche. E purtroppo si scopre che è tutto vero. L’avvocato esiste, il fotografo esiste, la foto è stata pubblicata senza citare l’autore.

A questo punto si chiede aiuto ad un avvocato amico, che scrive al collega tedesco facendo presente la natura di Rete 180 e l’assoluta buona fede dei suoi redattori. Intanto, per cautela, il sito viene messe in manutenzione ed oscurato.

La risposta non tarda. Il signor Bischoff accetta di ridimensionare la sua richiesta purchè Rete 180 paghi entro la scadenza del 13 marzo 2014. L’avvocato del fotografo non manca di accompagnare la proposta con il testo di una sentenza nella quale il tribunale di Monaco ha riconosciuto al fotografo un danno di oltre 5000 euro.

A questo punto a Rete 180 si decide di chiudere la vicenda e viene accettata la proposta di transazione. Vengono versati 600 euro. Quasi tutto quello che c’è in cassa.

Ma al di là dell’aspetto economico, e oltre al problema attualissimo del diritto di proprietà nel tempo di internet e dei selfies, quello che maggiormente colpisce in questa vicenda è il fatto che Rete 180 che evidentemente è una radio dedicata a Franco Basaglia, debba pagare per pubblicare sul sito una foto di quello che è di fatto suo ispiratore. E’ come se un figlio per tenere in casa la foto di suo padre, dovesse pagare un affitto per ogni giorno di esposizione, al fotografo che l’ha scattata.

La libertà è terapeutica

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lalibertaterapeuticada Piazza Grande, il giornale di strada

La libertà è terapeutica è una frase che continua a starci a cuore ed è la ragione per cui in tanti continuiamo a lavorare per buttare giù quest’ultimo muro che sono gli Opg”. A parlare è Giuseppe Dell’Acqua, psichiatra, classe ’47, salernitano d’origine ma friulano d’adozione. Allievo di Franco Basaglia e iniziatore, assieme a lui e a un ristretto gruppo di menti illuminate, di quel modello triestino che ha ridato dignità ai malati psichiatrici. Quella frase era scritta a caratteri cubitali sui muri dell’ex manicomio di Trieste ed è l’essenza dell’idea che i percorsi terapeutici non possono essere efficaci se coercitivi. “Per libertà bisogna intendere restituzione di diritto, ritorno o comunque ingresso nella cornice costituzionale per le persone che soffrono di disturbi mentali e a maggior ragione, per quelli che soffrono di disturbo mentale e hanno commesso un reato – dice Dell’Acqua – Ricordo anni fa un convegno aperto dal Cardinal Martini che partiva da uno slogan che faceva il verso al nostro, ovvero: ‘La cittadinanza è terapeutica’. Sono questi i punti fondamentali: libertà e cittadinanza, i diritti ed i bisogni primari, la libertà e quindi i bisogni radicali, restituire dignità, possibilità di innamorarsi, di sognare, tutto questo è terapeutico”.

Gli Opg saranno sostituiti dalle Rems, Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria. Quali differenze ci sono?

Queste strutture, come pensate dal legislatore, non sono diverse dagli Opg, dovrebbero essere soltanto più piccole e, nella fantasia di chi ha scritto quella legge, più belle, meglio arredate e più ‘sanitarizzate’. Anche se fosse così non cambierebbe molto. Allora mi domanderà, qual è la soluzione? Il problema è l’insensatezza colossale dell’Opg, di come vi si entra, di come si perdono i diritti, di come non si esce e di come si esce, forse, un giorno. È un meccanismo insensato che nasce da una preposizione ideologica, quella di dire che il malato di mente non è in grado di intendere e di volere, non ha responsabilità. Quando togliamo responsabilità a una persona la riduciamo all’inesistenza. Anche con le Rems. Il problema è capire se siamo in grado di spostare le risorse per rafforzare i Servizi di salute mentale territoriali, per garantire la presa in carico dei cittadini che hanno commesso un reato e hanno bisogno di cura, come di quelli che non hanno commesso reati.

E le Residenze sanitarie psichiatriche?

In realtà quel cambiamento di 35 anni fa presupponeva e presuppone, come il “modello triestino”, lo spostamento della cura e della riabilitazione nei luoghi di vita e non in luoghi speciali. Tutto questo ridurrebbe drasticamente o azzererebbe la necessità di un Opg. Oggi a Trieste negli Opg non c’è nessuno, nel Friuli che più o meno attua questo modello, c’è il numero più basso di presenze rispetto all’intera realtà nazionale. Le Residenze protette stanno alle Rems come quest’ultime agli Opg: rotto il grande istituto manicomiale ne abbiamo creati tanti altri, più piccoli e belli, ma sempre troppo strutturati. Le strutture non sono né terapeutiche né riabilitative. Oggi dopo 35 anni le persone nella maggior parte dei casi permangono negli Opg per periodi indefiniti, siamo arrivati a 25-30 anni. Non vi è una reale attività terapeutica, è delegata dal pubblico ai privati che, se va bene, sono buone cooperative, ma se va male non hanno le necessarie competenze. E poi queste residenze costano tantissimo, coprono il 70-80% dei bilanci per la salute mentale delle Regioni. Si spendono 5-6 mila euro al mese a posto letto per negare l’esistenza delle persone. Spendendo gli stessi soldi si potrebbero fare progetti differenti, far lavorare queste persone in cooperative con percorsi assistenziali e riabilitativi di tutt’altra natura, con un Dipartimento di salute mentale forte e capace di tenere la regia di tutti gli interventi e senza il pubblico debba delegare.

Quindi una soluzione è lasciare il paziente nella sua quotidianità?

Non solo a casa sua, ma anche in un gruppo di convivenza. Restituire i diritti significa restituire a una persona il diritto a essere processato e a essere punito. Siamo noi a dover capire se questa pena è il carcere. Questo non è scandaloso, perché si possono curare le persone in carcere, non è che negli Opg si curano meglio le persone anzi sono i Servizi di salute mentale che dovrebbero entrare nelle carceri. In questo modo le persone potrebbero essere titolari di un progetto terapeutico sotto forma per esempio di una misura di sicurezza come la libertà vigilata, lavorare alla mattina, al centro di salute mentale al pomeriggio, al gruppo teatrale o agli allenamenti di calcio e seguire le indicazioni terapeutiche del medico del centro. Per quale ragione i detenuti comuni vengono curati come le persone non detenute, mentre chi ha commesso un reato e ha un disturbo mentale, deve essere curato con uno strumento e all’interno di un luogo non terapeutico e dannoso come l’Opg? Fermo restando che il progetto terapeutico deve prevedere le cure e la riabilitazione ma anche la garanzia della sicurezza sociale.

Non si rischia così di creare sezioni speciali e ritornare al concetto dei vecchi manicomi?

Rimanere in carcere e aver bisogno di cure psichiatriche è qualcosa di diverso che andare nei manicomi criminali anche nel caso si facesse una sezione speciale. In carcere io continuo a essere una persona, ho il diritto a essere un cittadino, ho diritto alla certezza della pena anche se sono all’interno di un percorso terapeutico mirato. Il concetto è questo: chi commette un reato va in carcere dove, se necessario, viene curato sino a che non esce o va in una Rems. Queste devono essere poche e specializzate e offrire un programma riabilitativo: la permanenza nelle Rems sarà temporanea, da 18 a 33 mesi al massimo. Con la certezza della pena e delle terapie si ridà dignità alla persona.

a cura di Maurizio Tonellotto

redazione@piazzagrande.it    www.piazzagrande.it/giornale/

Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari alla prova del voto, e della civiltà

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Opg_votodi Anita Eusebi, da StradeOnline

Dopo aver superato l’esame delle commissioni Giustizia e Sanità del Senato lo scorso 17 aprile, il testo del decreto con le modifiche richieste è stato discusso e approvato in Senato il 24 aprile, e pur non risolvendo tutte le criticità, costituisce certamente un miglioramento dell’attuale normativa. L’esame del provvedimento è stato quindi inviato in commissione alla Camera, dove il dibattito iniziato lo scorso 12 maggio (resoconto) è stato ora rinviato ad altra seduta. Tra le principali novità apportate dagli emendamenti al decreto: la possibilità per le regioni di rivedere i programmi sulle rems, riducendo i posti letto e reinvestendo i finanziamenti a favore dei servizi di salute mentale; l’obbligo dei programmi di dimissione; l’adozione di norma di misure alternative all’internamento; le condizioni socio-economiche di una persona e la mancanza di un progetto terapeutico non devono più giustificare pericolosità sociale, internamento e proroghe; la misura di sicurezza non può avere durata superiore a quella della pena, dunque un no chiaro ai cosiddetti ‘ergastoli bianchi’.

“Così il faticoso processo del superamento degli OPG può rientrare nei binari della legge 180, che chiudendo i manicomi restituì dignità, diritti e speranze a tante persone – ha dichiarato Cecconi –, anche se c’è naturalmente un grande lavoro da fare, nel solco sempre della legge 180, per dare forza ai servizi socio-sanitari e di salute mentale e rendere quantomeno residuale la necessità di regionalizzazione tramite le rems”. La 180, una legge che, approvata dal Parlamento il 13 maggio del 1978, solo pochi giorni fa ha festeggiato i suoi 36 anni. “Oggi di nuovo i parlamentari sono chiamati come allora a rispondere alla stessa domanda: ma questi internati, queste persone con disturbo mentale che hanno commesso un reato, sono o non sono cittadini? Valgono per loro i diritti della Costituzione? – ha commentato lo psichiatra Peppe Dell’Acqua – E malgrado tutto, questa legge comincia ad aprire degli spiragli e gli internati stanno diventando cittadini”.

Malgrado soprattutto un’accesa polemica dell’ultimo minuto: alcuni emendamenti sembrano infatti prestare il fianco a difficoltà interpretative e perplessità, emerse in particolare nelle prese di posizione da un lato dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) e del Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza (CONAMS) in un comunicato congiunto, e dall’altro di alcune società scientifiche di psichiatria ed epidemiologia firmatarie di una lettera aperta al ministro Lorenzin. Tra tutti, l’emendamento più contestato è quello secondo cui l’attribuzione della pericolosità sociale deve basarsi solo su criteri soggettivi e non socio-economici: le condizioni di vita individuale, familiare e sociale, sostengono i firmatari, “da sempre assumono importanza fondamentale nelle valutazioni della pericolosità sociale di tutti i soggetti siano o non siano essi infermi di mente”.

L’Unione delle Camere Penali Italiane risponde alle critiche avanzate da ANM e CONAMS e puntualizza che questo provvedimento serve a fare in modo che la legge sia uguale per tutti, per i ricchi e per i poveri. E non tornare al celebre “chi non ha non è”. D’altro canto le società scientifiche rimproverano che l’utilizzo esclusivo di criteri soggettivi per determinare la pericolosità sociale di un individuo prefigurino il ritorno di un certo ‘lombrosianesimo’. “È un’accusa che non sta in piedi – replica Dell’Acqua –, l’emendamento dice semplicemente che le condizioni sociali ed economiche non devono portare con disinvoltura all’etichetta di socialmente pericoloso”.

Se alcune preoccupazioni sono certamente comprensibili e una seria riflessione comunque non guasta, altre lo sono davvero molto meno: l’accostamento da parte delle società scientifiche della lotta per il superamento degli OPG alle vicende ‘Di Bella’ e ‘Stamina’, tristemente note, resta assolutamente di cattivo gusto.

Leggi qui l’articolo completo:

stradeonline.it/scienza-e-razionalita/621-gli-ospedali-psichiatrici-giudiziari-alla-prova-del-voto-e-della-civilta


Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e il ruolo dell’informazione

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di Anita Eusebi

Giovedì scorso 19 giugno si è tenuto a Trieste un incontro organizzato dall’Ordine dei Giornalisti FVG, in collaborazione con l’Assostampa regionale e il Circolo della stampa, e intitolato “La normativa sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: una legge inattuale e da superare. Il ruolo dell’informazione in questo auspicabile cambiamento”. Ospite d’occasione lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, insieme ai giornalisti Carlo Muscatello e Gianni Martellozzo.

Con il suo intervento Dell’Acqua ha ripercorso innanzitutto le principali tappe della storia dei manicomi criminali, a partire da una psichiatria figlia della Rivoluzione francese quando lo psichiatra Philippe Pinel inizia a distinguere la malattia dalla colpa, la cura dalla punizione, i malati dai delinquenti. Si direbbe che nasce in quell’occasione la psichiatria come atto di liberazione. Ma da cosa veramente libera Pinel? «Da un bel nulla», dirà più avanti il filosofo Michel Foucault. «Comincia da qui una storia veramente ambigua – racconta Dell’Acqua – poiché Pinel non fa altro che costruire un altro muro, di allontanamento e di contenzione. La malattia mentale diventa essa stessa una catena, con buona pace della scienza e della legge». In altre parole, «la malattia mentale si sovrappone alla follia – prosegue Dell’Acqua – la condanna, la circoscrive. E i folli non sono più folli, ma “malati di mente”, e in quanto tali gestibili, governabili, inseriti in una dimensione che da lì in avanti rende lecita ogni cosa, perché scientificamente giustificata. In nome della ragione, che deve contenere la s-ragione». «La follia è vita, tragedia, tensione. È una cosa estremamente seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, il ridicolo», scriveva Franco Basaglia. E ancora, «la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere».

In questa situazione storica e scientifico-culturale, in cui la psichiatria si pone al servizio dello stato di diritto a garanzia dell’ordine sociale, si arriva a parlare di manicomi criminali. «Per la prima volta si definisce in qualche modo che esistono malati di mente che devo stare negli ospedali psichiatrici e malati di mente che hanno in sé qualcosa che cominciamo a definire rischio, pericolosità» spiega Dell’Acqua. « Fino alla seconda metà dell’Ottocento non si è mai fatta questa distinzione. Negli ospedali psichiatrici sono internati anche i folli rei, secondo la dizione ottocentesca, cioè i malati di mente che si sono resi colpevoli di un reato, mentre nelle carceri ci sono i rei folli, ossia coloro che sono diventati matti in carcere. È a questo punto che nasce l’OPG». Accade infatti che quelli che stanno in carcere sono di grande disturbo, ingestibili, costituiscono “una spina irritativa”, e contemporaneamente i folli rei, che sono nei manicomi civili, danno altrettanto fastidio, soprattutto agli psichiatri che si lamentano «Ma questo è pericoloso, ha ucciso, è un delinquente, perché deve stare qui? Mette a rischio la nostra possibilità di curare gli altri…». Sono gli anni dell’apertura di una prima sezione ad Aversa, dei primi regolamenti normativi col Codice Zanardelli, e a seguire ancora con il Codice Rocco. Insomma, dal 1930 l’OPG è un dato di fatto, sta lì come una pietra miliare, che nessuno sa, ma sta lì. E il manicomio civile anche.

Ma quali le culture che ci sono dietro? «Il modello biologico, positivista, quello che definisce la malattia mentale come malattia del cervello, che spiega ogni cosa in nome dell’organico, del patrimonio genetico, dei tratti somatici, e via dicendo», risponde Dell’Acqua. «Segni rilevabili che per la scienza dell’epoca alludono a qualcosa che è rischio, pericolosità. Con tutti i pregiudizi che ne conseguono, come la triangolazione micidiale tra malattia mentale, pericolosità e istituzione». O meglio, quelli che oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato essere “pregiudizi”, in riferimento alla malattia mentale, come l’inguaribilità e la pericolosità. Certo, probabilmente lo psichiatra Cesare Lombroso non sarebbe molto d’accordo. «Ma non lo conosco, non è amico mio», scherza Dell’Acqua.

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Ma cosa vuol dire pericolosità sociale connessa con malattia mentale? « Vuol dire che tu non sei più tu, sei soltanto malattia. E aggiungo, sei soltanto pericolosità. Vuol dire che le persone che vengono internate in OPG da un certo momento in poi non sono più soltanto i folli che hanno commesso un reato, ma anche coloro che pur non avendo commesso alcun reato si può “ragionevolmente e scientificamente” supporre che lo commetteranno. Come dire, si opera via via una sorta di bonifica umana, secondo una visione di ordine e pulizia che poggia sul senso di onnipotenza della ragione». Una visione che sarebbe forse sconvolgente oggi. O forse no. Sono cambiati termini, modi, tempi, luoghi e parole ma non si può negare che spesso accadono cose alquanto sovrapponibili.

E la psichiatria continua a porsi a supporto del giudice per confermare o meno con le sue perizie la capacità di intendere e di volere di un individuo. «Ma è necessario uscire da questo ingorgo impossibile, dall’inconsistenza spesso delle stesse perizie, da un tempo definito nei minimi e non nei massimi, da diagnosi che pretendono di avere connotazione oggettive», puntualizza Dell’Acqua. «Sono convenzioni quelle di cui si sta parlando. Lo psichiatra mente sapendo di mentire. Sfido qualsiasi psichiatra a dire che la scienza sulla quale lui basa le sue perizie è una scienza esatta, uno strumento di misura certo e oggettivo con cui poter decidere tranquillamente del destino di una persona. Una scienza che scienza non è, ma piuttosto qualcosa di estremamente fragile e incerto, un continuo operare proprio nella fatica dell’incertezza».

Il lavoro stesso di Basaglia poggia su riflessioni di questo tipo, su un mettersi in discussione continuo. «E passando per la splendida carta costituzionale del 1948 si arriva nel 1978 alla Legge 180 che finalmente riconosce tutti i diritti costituzionali a chi ha un disturbo mentale. I malati di mente diventano persone, entrano in una dimensione etica fino ad allora sconosciuta. Legare, chiudere, svestire non ha più nulla a che vedere con la scienza. Al contrario, ha a che vedere con qualcosa che va contro il diritto costituzionale». E nel momento in cui accade questo l’ordinamento dell’OPG viene posto sotto giudizio, non ha più ragion d’essere. Ma si fa un’accusa alla 180, quella di non aver toccato il manicomio giudiziario. «Ma è successo perché l’istituto dell’OPG è nel codice Rocco», precisa Dell’Acqua. Negli anni a seguire si passa poi per sentenze della Corte Costituzionale che cominciano i filtrare gli ingressi in manicomio giudiziario, alcune proposte di legge, la commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, la campagna StopOPG, i progetti delle rems, le innumerevoli proroghe, il viaggio di Marco Cavallo nei sei manicomi criminali. E la legge approvata lo scorso maggio, che fa ben sperare si arriverà presto alla chiusura definitiva degli OPG.

E l’informazione in tutta questa terribile e affascinante storia che ruolo ha? Quanto bene e quanti danni ha fatto finora? «Beh per quello che ho potuto leggere negli ultimi quarant’anni sulla stampa di danni ne ha fatti», commenta Dell’Acqua. «A proposito del folle reo e dell’infermità di mente la maggior parte degli articoli purtroppo sono proprio spazzatura. Non entrano mai davvero nella questione, ma alimentano luoghi comuni infiniti. Si deve tenere bene a mente che ogni cosa che accade nel mondo, anche il fatto più estremo, ci appartiene e lo possiamo e dobbiamo cercare di comprendere, ossia dobbiamo cercare di riportarlo nella dimensione della possibile umana comprensibilità, infelicità, sofferenza, contraddizione. Mi auguro sinceramente che il giornalista faccia sempre più un lavoro di avvicinamento all’accaduto, e non si lasci prendere appunto da luoghi comuni, né buonisti né giustizialisti».

«La stampa e i giornalisti ha fatto anche tante cose belle. Se solo penso a Sergio Zavoli, al meraviglioso documentario I giardini di Abele… – prosegue Dell’Acqua – Per fare una corretta informazione in tema di salute mentale, occorre fare un passo indietro. Per scrivere una notizia di cronaca ragionata è bene cercare di cogliere una dimensione altra, interrogarsi sempre, documentarsi, approfondire. E fare in qualche modo anche una scelta di campo. I giornalisti non sono solo una penna che scrive». C’è qualcuno che chiede, rispetto al tema della malattia mentale o agli eventi terribili che accadono purtroppo quasi ogni giorno e toccano la pancia della gente, come è bene che il giornalista si ponga. In altre parole, come e dove collocare l’eventuale fatto terribile? Dentro l’anima, il corpo, la società, o la malattia? «Questioni di pancia? Ma perché avere tanto in considerazione la pancia della gente, e non il cervello piuttosto, e il cuore?», risponde sorridendo Dell’Acqua.

Fuori dal manicomio ancora il manicomio

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2341923318di Anita Eusebi

[uscito su L'Unità il 1 giugno 2014]

Nello scorso mese di maggio la legge 180 ha compiuto 36 anni, il decreto legge 52/2014 per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, approvato lo scorso aprile in Senato, è divenuto legge con il voto finale della Camera e il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa d’un tempo, festeggia il suo centenario. Ne parliamo con Ascanio Celestini.

Il 31 maggio ricorreva il centenario dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma che, inaugurato nel 1914 da Vittorio Emanuele III, ha visto l’inizio del suo smantellamento negli anni della rivoluzione basagliana, ma la sua chiusura definitiva è arrivata soltanto nel 1999. Che significato può avere festeggiare i cento anni dall’inaugurazione di un manicomio?

Un infermiere di Perugia in un’intervista di qualche anno fa mi disse che per i perugini il manicomio era un numero civico. Dietro quel numero non era importante che ci fossero poche o molte persone, che soffrissero o che venissero curate. Quel numero difendeva i cittadini sani dalla pazzia come certi amuleti apotropaici dagli spiriti maligni. La chiusura di queste istituzioni alle volte è coincisa con l’apertura dei suoi cancelli e la restituzione di un luogo per la cittadinanza, ma spesso le storie vissute all’interno hanno lasciato tracce flebili e poco comprensibili. In fondo chi non le ha conosciute prima della chiusura fa difficoltà ad avvicinarvisi dopo. E forse dovremmo anche chiederci perché dovrebbe farlo. Queste celebrazioni rischiano di diventare una nuova istituzionalizzazione, stavolta anti-manicomiale, ma altrettanto istituzionale e retorica. Basta guardare cosa sono spesso le varie giornate della memoria. La battaglia che è stata combattuta contro il manicomio non era semplicemente una lotta per liberare i reclusi, ma contro tutte le istituzioni repressive. Le istituzioni che Basaglia considerava sorelle del manicomio («famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale» e a queste potremmo aggiungerne altre: chiesa, caserma, tribunale, carcere…) sono uscite rafforzate dalla fine del ‘900. Più che celebrare la fine del manicomio dovremmo constatare quanto ce ne sia ancora attorno a noi.

Scrive Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, “giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro”. E “entrare fuori, uscire dentro” è il motto con cui nasce nel 2000 il Museo Laboratorio della Mente. Secondo te le persone che sono uscite in seguito alla chiusura del Santa Maria della Pietà, dopo anni e anni di internamento, sono riuscite poi a “entrare fuori”? E il mondo fuori, analogamente, è davvero riuscito a “uscire dentro”?

Gli individui che sono usciti dal manicomio sono tanti e le loro storie non sono catalogabili. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro no. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta comunque, qualcun altro ha avuto fortuna ed è stato accolto. Ma non c’era alternativa: i manicomi erano lager e dovevano essere chiusi. Davanti ai sopravvissuti di Aushwitz non ci si è chiesti se non fosse opportuno umanizzare i campi di sterminio mettendo le docce al posto delle camere a gas. Quando ci poniamo la questione in merito all’entrare fuori automaticamente ci troviamo a ragionare su “quale fuori” sia quello intorno alle mura abbattute del manicomio. Fuori dal manicomio c’è ancora il manicomio. C’è nel disagio psichico e sociale, nei rapporti di potere. Un’infermiera di Padova mi racconta della chiusura dell’ospedale psichiatrico nel quale lavorava e mi parla del suo lavoro sul territorio. Mi parla di quegli operatori che si comportano come gli infermieri peggiori nei manicomi più chiusi trattando i pazienti come bambini buffi e un po’ stupidi. Li chiamano “matterelli” e “pazzerelli” e quando diventano meno governabili li gestiscono con i farmaci. Mi dice «una volta c’era il manicomio, oggi c’è il terricomio».

La pecora nera è stato girato nel padiglione 18 del Santa Maria della Pietà. È un film che racconta una storia tipica di abbandono, violenza e pregiudizio, per cui un bambino viene internato in manicomio, e lì rimane per 35 anni. Una presenza emblematica in tal senso è Alberto Paolini, con il suo pesante bagaglio di vita reale di 42 anni di manicomio al Santa Maria della Pietà, con le sue peggiori brutture, andando dall’elettroshock alle camere di contenzione. Quanto resta delle sofferenze del manicomio negli occhi di una persona la cui casa è stata il manicomio quasi per tutta la vita?

La storia di Alberto Paolini è un esempio straordinario per raccontare l’insensatezza dell’istituzione psichiatrica. Nonostante l’internamento, gli psicofarmaci e l’elettroshock è riuscito a difendersi e a non perdere la propria lucidità. Mi raccontava Adriano Pallotta, storico infermiere del Santa Maria della Pietà e animatore del Museo Laboratorio della Mente, che tra infermieri non ci si stupiva davanti al peggioramento di un internato e che, anzi, era motivo di stupore vedere che dopo un po’ che stava dentro rimaneva più o meno nelle stesse condizioni. Il peggioramento era la norma e la cura era inesistente.

L’altro volto del manicomio, gli infermieri. Internati loro stessi in un certo senso, ma con in mano il potere, e il mazzo delle chiavi. E in La pecora nera ritroviamo Adriano Pallotta, infermiere al Santa Maria della Pietà per oltre 40 anni, che nel film interpreta un paziente, “il professore”. Quanto è stato importante il confronto con il vissuto di Adriano, come di altri infermieri, nel ricostruire la memoria storica del Santa Maria della Pietà?

Ho intervistato Adriano una decina di anni fa durante un laboratorio con gli studenti di Roma Tre. Mi ha stupito per la chiarezza della narrazione oltre che per la lunghezza del suo intervento: ha incominciato a raccontare appena arrivato, prima che iniziasse l’intervista e ha continuato quando era già finita e stavamo andando via. Nei suoi racconti è fondamentale l’esperienza che ha vissuto, ma tante persone hanno avuto una vita altrettanto interessante e forse anche più avvincente. La differenza tra lui e molti altri è che sa raccontare. Dice il professor Gerardo Guccini che ci sono attori che raccontano storie, ma non sono narratori. Ci sono attori che sono arrivati al teatro perché erano narratori. E poi ci sono quelli che non fanno teatro, ma narrano magnificamente. Questi ultimi, dice Guccini, hanno delle storie da raccontare, sanno come farlo e vanno in cerca di un pubblico. Pallotta è così. Tant’è vero che in quella prima intervista non ha iniziato la sua storia parlando di manicomio, bensì della sua esperienza personale inquadrata in una condizione sociale. Lui era il secondo di sei fratelli e la sua era una famiglia che faticava ad andare avanti. Un giorno rientrando in casa ha sentito i genitori che parlavano di lui. Erano andati a colloquio con l’insegnante che gli aveva detto di spingere Adriano a studiare perché era portato. Ha sentito i genitori che dicevano «Bisogna cerca’ a tutti i modi di farlo studiare. Faremo i sacrifici, faremo i sacrifici, dobbiamo fare i sacrifici… ». Adriano ha pensato che «già ce n’erano tanti di sacrifici. Ma quali sacrifici! Io, zitto zitto so’ andato a Piazza Risorgimento, c’era ’na libreria, andetti lì e me so’ venduto i libri. Ai genitori ho detto: Non voglio anna’ più a scuola!» e così ha incominciato a lavorare. Tutti gli infermieri che ho incontrato hanno portato degli elementi interessanti, ma lui è stato il più prezioso perché è anche un narratore. A me servono dati concreti, ma anche narrazioni perché non sono un giornalista, uno storico o un sociologo. Io racconto storie.

Manicomi sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove la maggior parte degli internati ha commesso reati di poco conto, o peggio ha solo la colpa della povertà, della solitudine, della mancata assistenza e dell’abbandono. Lo scorso 28 maggio è stata approvata la legge per il superamento degli OPG, ma parte dell’opinione pubblica ha paura dei ‘pazzi criminali’ e i servizi territoriali hanno bisogno di risorse per farsi carico dei ‘fratelli scomodi’. Pensi si riuscirà davvero a buttare definitivamente giù le mura dell’istituto dell’OPG?

Indubbiamente gli OPG sono un’istituzione vergognosa che va superata. Ma la sua chiusura pone un problema che è difficilmente risolvibile se ci si limita a guardare solo questi istituti. La maggior parte degli internati sono stati schiacciati e probabilmente la loro pericolosità (se mai c’è stata) si è azzerata insieme a una parte consistente della loro identità. Ma mettiamo il caso dell’ipotetico internato pericoloso. Lui tornerà in prigione in “repartini” fatti a posta? E chi lo seguirà in carcere? Parlando con uno psicologo in un istituto di pena marchigiano m’ha detto “riusciamo a seguire i detenuti per una media di 25 minuti al mese”. Ma anche un carcere migliore di quello italiano, meno affollato, con più spazi alternativi alla cella, eccetera il problema si pone alla stessa maniera anche se in modo meno evidente. L’istituzione carceraria è più vecchia e datata del manicomio. Si è sviluppata in un’epoca nella quale lo stato paternalista considerava i cittadini come tanti bambini da educare e, quando la situazione diventava complessa, li infilava tutti insieme in un casermone per nasconderli agli occhi della società. Oggi dovremmo pensarla in modo diverso. La complessità non va isolata e ghettizzata (col risultato di complicarla ulteriormente), ma tenuta all’interno della comunità. In più il caso italiano è disastroso, spesso parificabile alla tortura e nella maggior parte dei casi va a coprire un buco che spetterebbe allo stato sociale. Il superamento del manicomio criminale deve andare di pari passo col superamento del carcere.

Dove va la psichiatria?

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basagliadi Pier Aldo Rovatti

[uscito su "la Repubblica", il 24 giugno 2014 con il titolo "Se gli psichiatri si rimettono il camice bianco"]

Dove sta andando la psichiatria è una domanda ricorrente: essa risuona nei luoghi deputati (se ne è anche discusso di recente a Roma in un convegno sul Centenario del Santa Maria della Pietà), ma rimbalza a tutti i livelli, dalla politica al territorio diffuso del disagio mentale. La psichiatria (quella ufficiale) sta andando avanti oppure – in un modo più o meno esplicito – sta tornando indietro? Avanti o indietro rispetto a che cosa?

A quest’ultimo interrogativo è facile dare una risposta perché il giro di boa è avvenuto nel 1978 con la legge Basaglia (la “180”) che chiudeva i manicomi e restituiva agli ex internati quei diritti che erano già scritti, nero su bianco, nella nostra Costituzione. Un punto fermo, dunque? Non precisamente ed è proprio su questo che si è scatenata la battaglia che arriva fino a oggi. Per averne una conferma, basta solo ripercorrere l’acceso dibattito che ha preceduto e accompagnato (anche in Parlamento) il decreto approvato a fine maggio, con il quale si è spostata di un anno la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) che ancora sopravvivono in Italia, nonostante tutto. In tale decreto sono stati introdotti decisi miglioramenti con l’obiettivo di evitare la riproduzione di molti piccoli manicomi criminali, di costruire percorsi di cura personalizzati nel territorio e di valorizzare il più possibile i Dipartimenti di salute mentale. E soprattutto si è stabilito un tetto temporale non oltrepassabile che sanasse lo scandalo di veri e propri “ergastoli bianchi” (uno scandalo evidenziato solo recentemente e che ha turbato profondamente il nostro stesso Presidente della Repubblica).

Non è qui la sede per scendere in ulteriori dettagli, voglio soltanto ricordare come si è fatta sentire in questo contesto la voce della psichiatria ufficiale attraverso una lettera inviata alla ministra Lorenzin dalla più potente delle sue associazioni. Facciamo molta attenzione – vi si legge – perché c’è il pericolo di essere trascinati dall’onda dell’emotività e di confondere coloro che rientrano in una diagnosi psichiatrica e devono quindi essere terapeutizzati, da coloro che sono “infermi di mente” e anche da coloro che sono socialmente anomali per via delle loro dipendenze e delle loro incapacità di integrarsi con gli altri. Traduzione: la psichiatria deve occuparsi solo di quelli il cui disturbo rientra nei canoni specialistici della disciplina (e i Dipartimenti di salute mentale non devono fare un lavoro di recupero che non li riguarda).

Ecco dunque la risposta. La psichiatria procede spedita verso una restaurazione del suo mandato puramente medico e tecnico-scientifico, manuali diagnostici alla mano e con l’occhio rivolto soprattutto alle neuroscienze. Medici del cervello che – per dir così – tornano finalmente a indossare il camice bianco e non vogliono più saperne di mandati sociali o politici. Allora si capisce bene perché le lodi di rito rivolte a Basaglia e alla sua legge siano perlopiù delle finzioni retoriche: Basaglia aveva infatti sconquassato la logica della psichiatria ufficiale non solo mettendo fuori gioco (e fuorilegge) ogni strumento di contenzione ma anche togliendo il camice agli psichiatri, denudandone il potere di controllo e riconfigurando in positivo il loro ruolo sociale e politico.

Nessuno, oggi, potrebbe negare il progresso scientifico (per esempio, nell’ambito dei farmaci), ma non si può neppure nascondere un regresso della psichiatria rispetto al cambio di passo sancito dalla “180”, grazie al quale coloro che sono affetti da disturbi psichici sono diventati “soggetti” nel senso pieno della parola e il compito della psichiatria si è trasformato in un ruolo sociale di rilevante responsabilità. “Si nascondono dietro un dito”, mi dice Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra triestino che, portando da un capo all’altro della penisola il famoso “cavallo azzurro” di Basaglia, è stato uno dei maggiori protagonisti della lotta contro gli OPG. E aggiunge: “Tutto ciò che toccano diventa terapia”.

È molto difficile dargli torto. Aggiungo che il nodo da sciogliere resta sempre quello della “pericolosità sociale”, blindato nei vecchi codici penali e che buona parte della psichiatria ritiene – ma solo a parole – ormai obsoleto. Nei fatti, tutto rimane fermo su questo nodo, che forse è proprio ciò che permette agli psichiatri di nascondersi dietro a un dito e impedisce alla società in cui viviamo di diventare davvero civile, perché civile sarà quella società – come ha detto Basaglia – che riuscirà a ospitare effettivamente la follia. Il che significherebbe anche espellere finalmente dalle nostre menti l’idea di manicomio come recinto in cui rinchiudere i diversi e “difendere” la società stessa. Siamo purtroppo ben lontani da simile traguardo, come gli eventi ci confermano ogni giorno.

Marco Cavallo incontra il teatro di comunità di Jesi

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di Anita Eusebi

Lo scorso 16 luglio a Serra San Quirico, piccolo e suggestivo centro medioevale dell’entroterra marchigiano in provincia di Ancona, ha preso il via l’edizione 2014 del Festival di Teatro Educazione Scena e Pedagogia in Italia (TESPI), in collaborazione con l’Associazione Teatro Giovani, la Rete del Sollievo e la Rassegna Malati di niente di Jesi. Lo staff organizzativo dell’evento ha voluto per l’occasione un ospite d’eccezione: Marco Cavallo. Un ospite di quelli che irrompono nelle strade e nelle coscienze, che portano aria di festa, di libertà e di speranza in un’atmosfera di bandierine colorate, laboratori artistici e musica, ma al tempo stesso costringono a fermarsi a riflettere, invitano a rimboccarsi le maniche e a sporcarsi le mani per poter continuare a credere in un mondo migliore. Non è una favola messa in scena in un teatro una serata tra tante quella di cui parliamo, ma un simbolo dal significato profondo, una storia che va ricordata, raccontata, compresa e reinventata ogni giorno, una lotta ai diritti che ha il colore del cielo della primavera triestina del 1973. Azzurro appunto, come Marco Cavallo.

“Marco Cavallo, come simbolo di libertà da contrapporre alla miseria della psichiatria, fu un’esperienza unica”, scrive Franco Basaglia. E continua, “Ancor oggi, a distanza di tanti anni, fornisce materiale per accese dispute sul senso e la convenienza di utilizzare un simbolo quale elemento rappresentativo del cambiamento, un simbolo intorno al quale possano riunirsi uomini che vogliano e siano in grado di riconoscersi in una speranza.” E ad accogliere Marco Cavallo a Serra San Quirico è stato l’abbraccio festoso dei bambini che guardavano con innocente meraviglia l’enorme cavallo di legno e cartapesta, lo hanno accompagnato nella piazza attraverso i vicoli stretti del paese e chiedevano curiosi quale fosse la sua storia agli operatori teatrali, provenienti dell’Accademia delle Belle Arti di Macerata e di Brera.

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Quale il significato di laboratori creativi che mettono insieme il teatro e il tema della salute mentale? Quale il ruolo di Marco Cavallo? «Per me è molto importante sottolineare il percorso artistico e la forza di Marco Cavallo, di un’arte come canale sociale – afferma Salvatore Guadagnuolo, direttore artistico dell’Associazione Teatro Giovani – intesa non tanto come aiuto per il sociale quanto come parte essa stessa di un cambiamento, non solo per l’estetica ma anche e soprattutto per il grande valore comunicativo che ha nella società. E i bambini, che sono lo specchio più autentico di questa società, hanno recepito in pieno la forza del grande sogno che la macchina teatrale di legno e cartapesta di Marco Cavallo rappresenta».

E come nasce l’idea di coinvolgere Marco Cavallo al Festival TESPI quale rassegna nazionale del teatro sociale? «Da diversi anni collaboriamo come Rassegna Malati di niente con l’Associazione Teatro Giovani, e abbiamo sempre portato all’interno del teatro di comunità i nostri temi di promozione alla salute mentale e di lotta allo stigma e al pregiudizio verso il disagio psichico», spiega Gilberto Maiolatesi, responsabile della struttura residenziale terapeutica per pazienti psichici Soteria di Jesi e coordinatore del Servizio Rete del Sollievo. «La Rassegna Malati di niente, che nasce all’interno della comunità Soteria e per diversi anni si è un po’ contrapposta alla psichiatria cosiddetta ufficiale, collabora dal 2001 con il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste – prosegue Maiolatesi – e nel 2005 abbiamo avuto il piacere di avere nostro ospite anche Peppe Dell’Acqua. E ora, dopo anni di attività e di collaborazione con il gruppo di teatro, l’idea di ospitare Marco Cavallo. Ci sembra racchiuda simbolicamente un po’ quello che è il nostro lavoro di tutti i giorni. Un lavoro che ha “nella sua pancia” le storie di tanti uomini e donne ed è esso stesso una storia di lotte, di fatica, di speranza e di libertà». Appunto la storia che Marco Cavallo racconta e di cui si fa esso stesso simbolo. «Nella nostra esperienza quotidiana – racconta Maiolatesi – misuriamo l’abbattimento dello stigma in molte questioni, dalle borse lavoro alla gestione degli alloggi. È stata una dura lotta in questi ultimi venti anni. Oggi la situazione è un po’ migliorata, ma resta ancora molto da fare. Marco Cavallo con Basaglia ha buttato giù le mura del manicomio di Trieste nel 1973, ma ce ne sono tanti, tantissimi, ancora di piccoli manicomi. Perché ce l’abbiamo dentro. Nulla è più come prima, ma un pezzetto di manicomio ce lo portiamo sempre inconsciamente in testa, anche noi operatori psichiatrici che siamo per una psichiatria assolutamente anti-istituzionale». In altre parole, restano ancora oggi radicati nella società la paura e un atteggiamento di chiusura nei confronti del disagio mentale. «Di qui lo scopo e il significato della Rassegna Malati di niente e di iniziative come questa all’interno di TESPI – puntualizza Maiolatesi – ossia portare il discorso della salute mentale, non della malattia mentale, all’interno del contesto sociale, dentro la città, lavorando con e per la cittadinanza, le istituzioni, i giovani, le scuole».

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Il lavoro di cui parla con chiara emozione Maiolatesi è un lavoro faticoso svolto in modo continuativo e capillare, giorno dopo giorno, che a volte resta quasi invisibile, altre viene piacevolmente illuminato dalle luci di un palcoscenico teatrale. «La presenza del cavallo azzurro è stata molto forte – commenta Marina Ortolani, direttrice dell’Associazione Teatro Giovani – facciamo teatro da tanto tempo, certo non ci occupiamo di psichiatria, ma curiamo attività e laboratori teatrali di comunità con persone con disagio psichico, dunque l’incrocio fra il mondo della cultura e la salute mentale è un lavoro che sperimentiamo e costruiamo ogni giorno. Non pensiamo però che l’arte sia una forma di terapia, né che il cavallo azzurro abbia una vera e propria valenza terapeutica, secondo quello che d’altronde è anche il pensiero dello stesso Giuliano Scabia». L’arte dunque non come uno strumento quanto piuttosto come un linguaggio, che serve a lavorare su stessi attraverso percorsi di crescita e trasformazione del singolo, e al tempo stesso a entrare in relazione con gli altri, in un’ottica fortemente pedagogica. «Le attività con chi vive l’esperienza del disagio mentale, in una collaborazione con i servizi psichiatrici di Jesi che va avanti da molti anni, sono un lavoro molto delicato che come teatranti ci mette in discussione – precisa Ortolani – e ci porta a sperimentare cose nuove ogni volta, all’interno delle strutture dei servizi psichiatrici e fuori. Gli operatori psichiatrici che lavorano con i pazienti tutti giorni ci dicono che sul palcoscenico si trasformano, riescono a esprimersi con la voce e il corpo, a raccontarsi, a mettersi in gioco e in relazione con gli altri. Ne siamo molto soddisfatti. È stata una fortuna per noi incontrarli, ci hanno aperto gli occhi su un mondo che non conoscevamo».

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Padre artistico di Marco Cavallo insieme allo scultore Vittorio Basaglia, il drammaturgo e scrittore Giuliano Scabia diceva infatti “Noi non siamo psichiatri o artisti guaritori: non siamo venuti a guarire con l’arte, cioè a fare arte terapeutica che ci sembra pericolosamente equivoca, e nemmeno siamo venuti a creare noi l’opera d’arte, né psicodrammi. Siamo qui per fare un qualcosa che va inventato giorno per giorno”. In particolare, nell’introduzione al libro Marco Cavallo Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura, scrive “Marco Cavallo vuole essere uno stimolo a intervenire in ogni luogo e in ogni comunità cercando di rispondere alle domande che quella comunità pone e alle contraddizioni che le domande palesemente o celatamente contengono”.

“Lo psichiatra ha una sola possibilità” (Franco Basaglia, 11 Marzo 1924 – 29 Agosto 1980)

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A più di 35 anni dalle conferenze che Franco Basaglia tenne in Brasile, di seguito una testimonianza raccolta da Ernesto Venturini.

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[...] Durante i seminari ribalta sugli interlocutori le domande che gli vengono poste, stimolando nuovi livelli di consapevolezza. Più volte dichiara di non avere le risposte, di essere lui stesso alla ricerca di una risposta. Detesta i luoghi comuni, sa che “è più facile convivere con il preconcetto che con la libertà”. Particolarmente intenso è il suo soggiorno a Belo Horizonte. Dopo aver visitato alcuni ospedali psichiatrici della città, Basaglia si reca nella città di Barbacena, distante circa 170 chilometri, per conoscere un ospedale per cronici, la cosiddetta Colonia. L‘impressione prodotta da queste visite, e soprattutto quella prodotta da quest‘ultimo viaggio, è così intensa da lasciare Basaglia profondamente scosso e depresso. Così, quando la sera del 4 luglio, si apre il seminario a Belo Horizonte, lui si rifiuta di parlare. C’è un silenzio lungo, pesante nella sala e, solo dopo l’insistenza del pubblico, Basaglia prende la parola, con dolore e con rabbia: “Ci sono posti al mondo in cui la storia si è fermata…ci sono situazioni in cui è impossibile trovare soluzioni di compromesso, perché, se lo facciamo, andiamo al compromesso con la morte. E con la morte non è possibile nessun compromesso.”. Basaglia denuncia di aver visto a Barbacena una situazione “peggiore di un campo di concentramento.” Commuove il pubblico parlando delle milleseicento persone rinchiuse in cortili lerci, sedute sulle proprie feci, nude e legate. Ha visto la fame e la degradazione umana prodotta dal manicomio, ha sentito i lamenti e le richieste di persone che non avevano altra speranza che la morte e ha sentito le gelide frasi di condanna espresse dal direttore del manicomio: “Di fronte a un malato, nei confronti del quale voi sapete che non hanno effetto né i farmaci né alcun altro trattamento, la soluzione è ancora il vecchio metodo medievale. Si lega il malato mani e piedi, lo si lascia marcire in una cella e si aspetta. Al massimo potrà arrivare un neurochirurgo, che finirà per trasformare quel malato in un vegetale, togliendoli ogni residua volontà ed emozione.” Basaglia, però, reagisce: tutti devono conoscere, tutti devono assumersi le loro responsabilità. Nasce l’idea di realizzare un grande incontro pubblico; si cercheranno di coinvolgere quante più persone e associazioni possibili. Sono contattate le rappresentanze delle infermiere, degli psicologi, degli assistenti sociali, del sindacato dei medici. S’interpellano le operaie del sindacato dei tessili, i deputati federali, gli ex prigionieri politici, gli ex pazienti. Basaglia rilascia interviste sui giornali, nazionali e internazionali, parla alla radio e alla televisione locale. Il 7 luglio si apre un seminario al quale partecipano rappresentanti dei comitati di quartiere, giornalisti, persone provenienti da São Paulo e da Rio, rappresentanti del Centro Brasil Democratico. Il dibattito è teso, effervescente. Il presidente dell’Associazione Brasiliana di Psichiatria – Ulysses Viana Filho – afferma, polemicamente, che è folle pensare di poter cambiare la società partendo dalla follia e dalla psichiatria. “Non è vero – risponde Basaglia – che lo psichiatra abbia due possibilità, una come cittadino e l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo. E come uomo, io voglio cambiare la mia vita. Voglio cambiare l’organizzazione sociale; e non con la rivoluzione, ma semplicemente esercitando la mia professione di psichiatra… Se tutti i tecnici esercitassero la loro professione, questa sì che sarebbe una vera rivoluzione. Quando trasformo il campo istituzionale in cui lavoro, io cambio la società… e se tutto questo, a qualcuno, può sembrare un delirio di onnipotenza, allora viva l’onnipotenza!” Il seminario termina in un clima di forte emozione. Viene redatta una mozione che denuncia la situazione inumana degli ospedali psichiatrici e che chiede la chiusura immediata dell’ospedale di Barbacena. La mozione è presentata al Governatore dello Stato di Minas Gerais.

«Portami al mare». Riflessioni in ordine (quasi) sparso in occasione di “Impazzire si può 2014”

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FotoCopertinadi Anita Eusebi

“Impazzire si può”… Sì, certo che si può. Si può diventar matti, folli, avvelenati, schizofrenici, psicotici, depressi – e via diagnosi a non finire – quando la vita ti taglia il respiro di dolore, ingiustizie e miseria. E si può diventar matti anche senza che accada nulla di tutto questo. È spesso sufficiente che uno, un altro e un altro ancora ti puntino il dito addosso e ti dicano “matto”, in nome della loro “normalità” e del tuo essere “diverso”.

Per non parlare di chi continua a farne una questione genetica, e allora lì sei fritto, nasci col marchio e decidono per te che la tua vita sarà una merda. Lo dicono persino alcuni psichiatri, psicologi, scienziati, o peggio pseudogiornalisti che si nascondono dietro all’ultima news scientifica pescata a caso nel web e non perdono occasione di scrivere cazzate per poche decine di euro al pezzo, giocando come fosse niente con la sofferenza umana.

Le parole di Franco Basaglia di cui tutti ci facciamo bandiera e secondo le quali “la follia è una condizione umana” e ancora “in noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione” tornano a oltre 40 anni di distanza a risuonare di una pesante attualità, di aspettative disattese, di muri che raccontano siano venuti giù, eppure sono ben in piedi davanti ai nostri occhi nell’indifferenza della maggior parte delle persone. Dicono che nel febbraio del ’73 un cavallo azzurro abbia buttato giù i cancelli dell’ex ospedale psichiatrico provinciale di San Giovanni di Trieste (oggi c’è chi lo chiama “parco culturale” perché fa figo e indubbiamente sposta l’attenzione dalle ombre tristi di quei luoghi ai colori sicuramente più chiari, ma non per questo talvolta meno ambigui, di una cultura fatta di libri e convegni…); dicono che quel pazzo di psichiatra filosofo di Basaglia abbia davvero reso possibile l’impossibile in quegli anni (restano un’eredità basagliana difficile da gestire e navi all’orizzonte da tenere bene d’occhio…); dicono che grazie alla legge 180 del ’78 “i manicomi non esistono più” e dicono anche che i “matti” (che oggi chiamano “utenti”, credendo di risolvere così quel che resta dello stigma e dei pregiudizi…) abbiano ormai pari dignità dei “normali” e piena cittadinanza nella Costituzione Italiana. Dicono.

All’edizione 2014 di “Impazzire si può” all’ex opp di Trieste lo scorso 25-26-27 settembre ci sono andata per guardarla in faccia, oggi, questa piena cittadinanza dei matti. E per sentirli parlare, i matti. Non gli psichiatri, i politici, i presidenti di, i direttori di, gli amici di amici di e via dicendo (insomma i soliti che se la suonano e se la cantano), ma coloro che vivono sulla propria pelle, quotidianamente, il disagio psichico e tutto ciò che questo comporta. I matti, appunto. Gli hanno ridato la parola, no? E allora, dopo aver letto tanto di filosofi, psichiatri, giuristi, letterati e cantautori, sono loro che voglio ascoltare, sono loro che voglio vedere seduti dietro i tavoli allestiti sul palcoscenico al centro della scena, sono loro che mi aspetto protagonisti di questo evento. Soprattutto, mi chiedo, “Impazzire si può” è uno slogan, un monito o una reale presa di coscienza che il dramma umano alla base del diventare matti è un qualcosa che può riguardare tutti indistintamente?

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Nei tre giorni dell’iniziativa triestina, di “persone con esperienza” (altro gioco di parole usuale, ma a mio avviso di poco senso…) ne ho incontrate tante. Ho riabbracciato persone care conosciute in questi anni, ho avuto il piacere di conoscere di persona altre anime belle sfiorate via social network, altre ancora sono state nuovi incontri capitati per caso con un «senti, ce l’hai una sigaretta?» o un «dai siediti qui, cazzo fai lì in piedi?», sospesi tra il mio sorriso di risposta, curioso e incerto, e un senso di familiarità piacevole e inaspettato. I matti… Li ho visti emozionarsi, ridere, commuoversi, ballare. Li ho visti seri, stanchi, con lo sguardo che ti scruta e poi se ne va per fatti suoi. Li ho visti seduti sui gradini del Teatro Basaglia a chiacchierare, sdraiati sui prati a godersi un po’ di sole, a Il Posto delle Fragole a prendersi un caffè. Ne ho visti pochi con un microfono in mano a raccontare e raccontarsi, sul palco. Alcuni, emozionatissimi, hanno letto e recitato storie di vita, di manicomi, di follia (scritte da psichiatri…). La maggior parte di loro è stata un insieme di comparse, hanno affollato il dietro le quinte, da attori non protagonisti, i loro volti e le loro voci hanno riempito tempi e luoghi non istituzionali, come quelli delle pause tra un intervento e l’altro da programma, o quello del dopocena quando il racconto sembra venire più scorrevole e si fa confidenza, gli sguardi, le lacrime e i sorrisi sono più sinceri, e i relatori in giacca e cravatta sono a cena altrove, e in altra compagnia.

Si fa presto a dire “matti”. «Posso offrirti un bianco?», mi dice Dario (Roma). Uno sguardo acuto e vivace, un sorriso simpatico e gentile. Mi racconta della sua vita, di un qualcosa che a un certo punto l’ha fermata e capovolta del tutto. Poche parole sul Santa Maria della Pietà, poi cambia discorso e torna a sorridere: «Ora sto bene, faccio teatro sai?». Ricordo gli occhi belli e lucidi di Paola (Modena) mentre mi racconta di aver partecipato, durante il viaggio di Marco Cavallo lo scorso novembre 2013, alla tappa presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Si commuove riportando le parole di un ragazzo internato nell’Opg e drammaticamente rassegnato, parole che valgono più di qualsiasi intervento ufficiale che ci rassicura con i “sì alla chiusura degli Opg, no alla costruzione delle rems” (ma la paura che il prossimo 1° aprile 2015 possa essere l’ennesimo, pessimo, pesce d’aprile targato Opg non ce la toglie nessuno…). Mi torna il sorriso pensando a Davide (Latiano), ai suoi occhi azzurri e luminosi, ai suoi appunti sul quaderno a righe (neanche a dirlo, più ordinati dei miei…), alle parole piene di gioia che mi ha regalato nel momento dei saluti.

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Camminando per San Giovanni sono tanti i pensieri che si affollano nella mente e con cui è difficile fare pace, viene voglia di sedersi sui gradoni della scalinata bianca e respirare intorno soltanto silenzio, nella penombra delle prime luci della sera. Dei tantissimi ex manicomi presenti in Italia, alcuni sono ruderi fatiscenti in uno stato di totale abbandono, altri sono stati riabilitati a giardini cittadini, sedi universitarie, musei, scuole superiori, uffici per la pubblica amministrazione, distretti sanitari. A San Giovanni, come altrove, i cancelli sono aperti, l’accesso è libero, l’ex opp è un via vai di autobus, automobili, motorini e pedoni. Chissà se qualcuno di loro, di tanto in tanto, ha mai un pensiero per altri visi, altri occhi, altri passi che soltanto pochi decenni fa abitavano questi luoghi. «Sono uno degli ultimi residui manicomiali di San Giovanni», mi dice Claudio Misculin, fondatore nel 1974 del gruppo teatrale Accademia della Follia, mentre attraversiamo a piedi i viali del parco, con un sorriso aperto, uno sguardo che non basterebbero parole e parole per raccontarlo e un filo sottile e tagliente di ironia.

All’uscita lo sguardo torna di sguincio sul cartellone enorme con la piantina ben dettagliata del parco. Lasciandomi alle spalle il cancello d’ingresso, ripenso allora che il parco è dedicato a un santo (Giovanni), il teatro a uno psichiatra (Basaglia), il bar a un film (Il Posto delle Fragole), la statua di ferro a un cavallo (Marco Cavallo), … Ma non c’è traccia in giro di quelli che furono i matti di San Giovanni, non un nome scritto su una targa apposta in un angolo in ricordo, una dedica, una poesia, insomma un omaggio del cavolo qualunque a tutte quelle vite abbandonate e perse in questi luoghi impregnati di un dolore così lacerante e profondo. Un’assenza pesante, qui come altrove. Peccato.

Sullo sfondo, in lontananza, il mare, il porto pieno di vele e un tramonto meraviglioso sembrano ammorbidire e sfumare per un attimo i contorni di una tristezza da turista sprovveduta e idealista. Al mare avrei voluto portarci la signora dai lineamenti scavati da una dentatura assente e da uno sguardo disperato che mi è piombata a un certo punto letteralmente addosso a San Giovanni mentre ero a prendere un caffè, mi ha stretto forte le mani e mi ha trascinata fuori ripetendo, come una bambina rimproverata che cerca protezione, «Andiamo via, portami al mare». Ho provato a sorriderle, a parlarle, a rassicurarla. Senza risultato. Come darle torto, d’altronde non ero che, probabilmente, l’ennesima stronza che non prendeva sul serio la sua richiesta. L’operatore che subito le è corso dietro a togliere le sue mani dalle mie glielo ha promesso, «Domani ti ci porto» le ha detto. Chissà se ce l’ha portata davvero. “Impazzire si può”, soprattutto se le brutture della vita ti costringono altrove mentre tu sogni di andare al mare.

[credits immagini Anita Eusebi]

“Le carte e la memoria”- Ricordando Franca Ongaro Basaglia

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Sabato 31 Gennaio 2015 ore 10.30 – 13.30 Isola di San Servolo, Venezia

Ricordando Franca Ongaro Basaglia in occasione della presentazione dell’inventario dell’archivio della Fondazione.

Dieci anni fa moriva a Venezia Franca Ongaro, protagonista, con il marito Franco Basaglia, di una delle più importanti stagioni del Novecento che ha portato in Italia alla distruzione del manicomio, alla promulgazione della legge 180 e alla nascita di una salute mentale territoriale. Per ricordarla, la Fondazione Franca e Franco Basaglia, con sede a Venezia, nell’isola di S. Servolo, promuove un incontro di riflessione e confronto sulla sua figura in occasione della presentazionedell’inventario del proprio archivio, riconosciuto d’interesse Storico Nazionale e Regionale a partire dal 2008. “Franca Ongaro Basaglia: dire e fare il cambiamento” e “Far memoria e politica del presente” saranno i due tavoli tematici attorno ai quali studiosi e ricercatori che hanno iniziato il loro percorso a fianco dei due intellettuali veneziani, si alterneranno nel corso della mattinata.

L’iniziativa vuole valorizzare così il filo che unisce la memoria e l’esperienza di un cambiamentoall’importanza di farne indispensabile eredità nel presente.Sarà il primo di una serie di appuntamenti che durante tutto il 2015 tenteranno di ripercorrere illavoro pratico e teorico dei Basaglia analizzando, con l’apporto di specialisti ed esperti, soprattuttoquanto di inedito è custodito nell’archivio.

L’incontro è patrocinato dalla Regione del Veneto e dal Comune di Venezia e organizzato in collaborazione con la Direzione Generale degli Archivi del Ministero dei Beni Culturali, la società San Servolo Servizi e l’associazione Lavoro Culturale.

Sul forum, per ricordare la portata intellettuale di Franca Ongaro, nonchè il suo contributo alla lotta contro i dispositivi istituzionali, riportiamo il testo, raccolto a Ischia nel settembre 2003 da Giovanna Del Giudice, parte integrante del documento fondativo del Forum Salute Mentale, presentato a Roma il 16-17 ottobre 2003. Franca Ongaro non riuscì a partecipare. Ha assunto il valore di una delle sue ultime testimonianze contenute nel libro di Giovanna Del Giudice “…e tu slegalo subito” in via di pubblicazione per la Collana 180 – Alpha Beta Verlag editore.

“La buona pratica non parte da un gesto generoso del medico verso la persona sofferente, gesto che può essere tradito mille volte al giorno da un dolore più o meno nascosto, da un’aggressività con o senza giustificazione, da una violenza che ferisce. La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che certamente proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento.

La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, e di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere.

Contro tutto questo si è lottato per anni e si è dimostrato possibile perseguire altre strade con il supporto di operatori/trici formati e motivati che reggano l’impatto senza ferire, senza umiliare, con la costruzione di un ambiente e di un clima non violento, libero, nel suo complesso che fa capire come altri passi siano possibili e  della stessa natura.

La contenzione blocca ogni passo successivo perché è il segno, il marchio del carattere dell’istituzione, terapeutica o sanitaria, dimostrando  fin dall’inizio il suo carattere e i suoi metodi violenti, ignari di libertà.

Segno e marchio che caratterizzano, per contaminazione, o rafforzano il sopravvivere di vecchie tradizioni, le case di riposo e i servizi per anziani, gli istituti per handicappati, i reparti di geriatria, di medicina… per facilitare l’immobilità, per preservare dal danno… di conseguenza per semplificare il lavoro degli operatori.”

Franca Ongaro Basaglia


A proposito di elettroshock …

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alda20merini1-e1331210777146Di Anita Eusebi.

Sono nata negli anni Settanta. Gli anni in cui “la legge 180 ha spento l’elettricità nei manicomi”, come dice Nicola – alias Ascanio Celestini – nel testo teatrale e nel film omonimo La pecora nera. Fino ad allora “i manicomi elettrici” erano stati la norma, erano “quelli dove tutti sembravano santi e il direttore era il più santo di tutti, uguale a Gesù Cristo”, per dirla con le parole di Celestini.“Perché la vera malattia dei bambini è la paura, i bambini hanno paura di tutto, paura dei ragni, del lupo, degli uomini neri, del buio. Così allora l’istituto, che è un manicomio elettrico, accende la luce e con la luce accesa scompaiono i mostri, i lupi e perfino i ragni diventano stupide bestie. Perché sennò si può morire per la paura del buio.”

Un’indimenticabile testimonianza sull’elettroshock è certamente quella di Alda Merini, che scrive: “ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. […] Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”.

Negli anni Settanta, dicevo, inizia a soffiare aria nuova. Sono gli anni dell’uscita di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di legno e cartapesta, per le vie di Trieste con al seguito Franco Basaglia e i matti di San Giovanni, in una domenica di bora del 25 febbraio 1973. Questi gli anni del processo e della condanna allo psichiatra Giorgio Coda del manicomio di Collegno a Torino, detto “l’elettricista”. Vicende terribili,  raccontate dal giornalista Alberto Papuzzi nel libro Portami su quello che canta, che si concludono in un’aula di tribunale il 12 luglio 1974: ai matti viene riconosciuto forse per la prima volta al mondo il diritto di parola, in quanto vittime e testimoni, dopo anni di maltrattamenti disumani in nome della scienza.

Al riguardo ho chiesto di recente un commento a Eugenio Borgna, tra i più autorevoli psichiatri italiani, in un’intervista pubblicata sul n.ro 268 della rivista Animazione Sociale (e che a breve sarà resa disponibile anche qui sul sito del Forum Salute Mentale). Mi ha parlato di “orrore di un comportamento, quello di uno psichiatra, che ha sfregiato con inumana violenza ogni legge etica e ogni dignità; andando al di là di ogni immaginabile volontaria atrocità” e del “grande coraggio di chi si è ribellato a questa violenza, che si rispecchiava in una climax storica nella quale la sofferenza psichica veniva considerata come una condizione di vita non più degna di essere vissuta, e che poteva così essere oggetto delle più spietate e agghiaccianti sperimentazioni”. Una concezione terrificante, che si nascondeva nei modi di pensare di non pochi psichiatri italiani di un tempo che agivano come se la vita dei pazienti psichici non contasse assolutamente nulla.

Io non ho mai eseguito elettroshock in vita mia, e non ho mai consentito che si facessero elettroshock”, ha ribadito Borgna. “Non ne tollero la violenza che è divenuta del tutto inutile da quando sono entrati in commercio gli psicofarmaci, indispensabili nella cura delle esperienze psicotiche e delle esperienze depressive, benché a loro volta, oggi con particolare frequenza, siano somministrati al di fuori di ogni contesto psicoterapeutico”. Ma, come è noto, in alcune cliniche universitarie, e in alcune case di cura, gli elettroshock continuano a essere praticati sia pure in anestesia generale: “ignorando l’immensa negativa risonanza emozionale che l’esserne stati sottoposti desta nella psicologia di un paziente, che rivivrà la cosa come il sigillo di una irrimediabile malattia psichica”, ha precisato Borgna.

Si potrebbe aprire un dibattito infinito sulla presunta validità scientifica di questa “terapia”. Mi limito piuttosto a ricordare che, oltre quarant’anni fa, è stata messa in discussione senza mezzi termini dallo stesso Franco Basaglia secondo cui “curare un paziente psichiatrico con l’elettroshock è come prendere a pugni un televisore per regolarne la frequenza”. Pensate allora che davvero si possano risolvere problemi estremamente delicati come il «male di vivere» di una persona, dovuto per esempio ai conflitti familiari, alle difficoltà relazionali, alla perdita della casa o del lavoro, dandogli una botta in testa?

Rubando parole al testo teatrale Il Dialogo di Marco Cavallo e il Drago di Montelupo, chi vive l’esperienza della sofferenza mentale “non è un oggetto da rinchiudere, legare, torturare con l’elettroshock e intossicare con farmaci in dosi da cavallo”. Ma è una persona, e credo che il rispetto di questa in quanto tale abbia bisogno di ben altro tipo di “illuminate” teorie.

Alda Merini: la primavera, la Terra Santa e l’eterno soccorritore.

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di Silvia D’Autilia

È la fine degli anni ’90, il cantautore Roberto Vecchioni decide di comporre una canzone per Alda Merini. Il titolo del brano “Canzone per Alda Merini”, appunto, non prestandosi a scelte denominative particolari, chiarisce fin da subito il motivo alla base della composizione: una dedica. Una manciata di minuti per raccontare un’esperienza. Qualche verso per illuminare un’esistenza.

“Alda, ma tu sei felice?” chiese un giorno Vecchioni alla sua amica e la risposta divenne genesi di una musica: “basta anche un niente per esser felici, basta vivere come le cose che dici, e dividerti in tutti gli amori che hai per non perderti, perderti, perderti mai.

Se vivere è diventato sopravvivere, la sola linfa a tenerti in vita è il ricordo dell’amore. “Ogni uomo della vita mia era il verso di una poesia perduto, straziato, raccolto, abbracciato; ogni amore della vita mia, ogni amore della vita mia è cielo e voragine, è terra che mangio per vivere ancora.”

Ma quando il cantautore milanese incontra la poetessa e compone i versi della canzone,  il dramma del manicomio, dei ricoveri al Paolo Pini di Milano, “è passato”, appartiene alla ragnatela di ricordi dolorosi, a una Palestina della mente indelebile.

Alda Merini nasce il 21 Marzo del 1931 e un giorno commentò così la sua venuta al mondo:

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenare tempesta.

(da: Vuoto d’amore, 1991)

E fu proprio così la sua vita, una tempesta di creazione, un turbinio di emozioni ingestibili, per cui anche la stanza di un manicomio poteva divenire poesia tra le sue mani. La Terra Santa è il nome della raccolta di poesie dedicate ai suoi ricoveri manicomiali e pubblicate per la prima volta nel 1984. Nell’antologia il manicomio è assimilato appunto a questo territorio geografico così dilaniato da sofferenze, perdite e orrori nel corso della storia.

Noi qui dentro si vive in un lungo letargo,
si vive afferrandosi a qualunque sguardo,
contandosi i pezzi lasciati là fuori,
che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori.
Io non scrivo più niente, mi legano i polsi,
ora l’unico tempo è nel tempo che colsi:
qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l’amore che manca è l’amore che fa male.

(da: Canzone per Alda Merini)

Il primo ricovero della poetessa al Paolo Pini avvenne il 31 ottobre del 1965 e da quella data fu una sequela infinita di entrate e uscite, di “benessere e malessere”, diagnosi, contenzioni ed elettroshock, come testimoniano i suoi versi. O forse, questa sua estrema acutezza dei sensi altro non era che l’ispirazione per la sua poesia, così come la sua poesia la prima cagione della sua “malattia”.

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico

[…]

ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

[…]

Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

(da: La Terra Santa)

Arrivano gli anni ’80 e la legge 180 con lentezza risuona anche nel milanese. È tempo di riforme. È tempo di aprire le porte, levare le catene ai polsi dei matti e restituire a ciascuno le proprie passioni, perfino una macchina da scrivere.

Ma come? E la follia? I tanti anni di segregazione? Le contenzioni? I sentimenti negati? Chi è stato questo “eterno soccorritore”, che tra il vento, la bora e le navi che vanno via guardava già in età giovanile ai “baci assurdi dei matti”?

(Per quest’ultimo paragrafo si veda: A Franco Basaglia. Una poesia di Alda Merini. )

Salerno: concerto rock per dare avvio a una petizione per intitolare una via a Franco Basaglia

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IMG-20150611-WA0001Sabato 20 giugno, nel Parco del Mercatello, l’associazione “Jenny è tornata” e le cooperative “Villaggio di Esteban” e “Capovolti” si fanno capofila per organizzare un mega concerto rock durante il quale partirà una raccolta firme per intitolare una strada della città di Salerno a Franco Basaglia, l’uomo che ha cambiato la psichiatria.

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Breve resoconto del Forum di Pistoia, “continuiamo a volare alti nel cielo…”

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Platea

di Anita Eusebi

Più di trecento le persone che hanno attraversato il 4-5-6 giugno la “piazza” del Forum Salute Mentale. L’ottava edizione dell’incontro nazionale, tenutasi a Pistoia, ha visto la partecipazione attenta di operatori, persone che hanno vissuto o vivono l’esperienza della sofferenza mentale, familiari, sindacalisti, avvocati, magistrati e giornalisti provenienti da tutta Italia, e ha rappresentato un importante momento di confronto tra diverse generazioni, dai co-fondatori del Forum agli operatori e persone altrimenti interessate a vario livello al mondo della salute mentale che di recente hanno iniziato a collaborare attivamente con il Forum. La giornata inaugurale è stata aperta dai saluti del sindaco Samuele Bertinelli, del Presidente del Tribunale Fabrizio Amato e del Direttore Generale ASL 3 Roberto Abati, che hanno dato il benvenuto a nome della città.

Autorità

Sono state tre giornate intense, ricche di interventi, testimonianze e dibattiti sui temi caldi della salute mentale. Tra le questioni fondamentali affrontate: il passaggio delicato e discutibile dagli Opg alle Rems; la necessità di proseguire con attenzione nelle attività di monitoraggio verso un’effettiva e definitiva chiusura degli Opg (vedi l’appello) che non sia soltanto per legge; la questione dei servizi territoriali di salute mentale che spesso rischiano di essere una realtà banalmente ambulatoriale; la necessità di una presa in carico forte che permetta dunque una reale costruzione di percorsi individuali personalizzati; le criticità conseguenti al binomio residenzialità e cronicità della malattia e della sofferenza; le brutture degli SPDC; la lotta per l’abolizione delle pratiche di contenzione e il riconoscimento di queste come “reato di tortura” (che in Italia ad oggi non è previsto, ma questa è un’altra storia); l’appello per l’abolizione della misura di sicurezza (vedi l’appello), fondata sul concetto di pericolosità sociale, privo di alcuna validità scientifica; la proposta di un governo nazionale per la salute mentale, relativa all’assetto organizzativo dei servizi; il bisogno urgente di un’adeguata formazione degli operatori della salute mentale, in un momento storico in cui “la dissociazione tra enunciati e pratiche nel campo della salute mentale”, contro cui si batte da sempre il Forum, è ancora purtroppo evidente, frutto di una psichiatria accademica che resta spesso molto lontana dal mondo della salute mentale.

Nel corso del convegno, Giovanna Del Giudice, co-fondatrice del Forum Salute Mentale, ha ceduto il testimone come nuovo portavoce nazionale a Vito D’Anza, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Pistoia e da sempre tra i protagonisti del Forum.

«Ho ricoperto questo ruolo per dodici anni ed è stato un percorso estremamente importante, ricco di esperienze e di battaglie. Penso che il portavoce debba essere chi opera oggi nei servizi ed è per questo che ho proposto Vito D’Anza, di cui conosciamo la “sincera adesione” al Forum», ha affermato Giovanna Del Giudice. «Continuerò a lavorare nel Forum, impegnata a sostenerne le cause per una salute mentale di prossimità, per una cura che rispetti la dignità e i diritti dell’altro, per la costruzione di alleanze e politiche attente ai bisogni delle persone più fragili. Rimangono oggi ancora attuali quelle che nel documento fondativo indicavamo come le principali questioni critiche: le limitazioni della libertà, la contenzione, gli psicofarmaci, gli Opg, la salute mentale in carcere. Molte battaglie – prosegue Del Giudice – devono essere continuate, o riprese, contro le istituzioni totali, vecchie e nuove: le Rems, le sedicenti comunità terapeutiche, i cronicari, le case di riposo, i Cie. Ancora oggi rimane tema centrale nella salute mentale la questione delle istituzioni chiuse o aperte. Il documento fondativo del 2003, per quanto vada certamente attualizzato, contiene ancora tutte le linee di senso sulle quali il Forum credo debba continuare a muoversi».

Giovanna

Il nuovo portavoce del Forum Vito D’Anza, a sua volta, ha ringraziato per la stima e la fiducia espressa da tutta l’assemblea, ha ribadito l’importanza fondamentale del lavoro svolto in questi anni dal Forum e ha riassunto le direttrici lungo le quali il Forum dovrebbe muoversi con impegno per il prossimo futuro. «Sostituire Giovanna Del Giudice, che ha svolto in tutti questi anni il suo incarico con grande intelligenza e passione, non sarà semplice. Dalla carta programmatica del 2003 in poi, sono state fatte grandi cose. Tra queste, il recente ruolo e il lavoro del Forum all’interno del cartello nazionale di associazioni StopOPG, relativamente alla questione degli Opg, sono stati davvero importanti e consistenti. Ora il Forum va rilanciato in primis a partire dal dibattito sulle pratiche, sui servizi, sulle risposte che questi devono dare in maniera sempre più efficace e adeguata, cercando maggiore confronto con gli operatori dei servizi, con le associazioni di utenti e di familiari, con il mondo delle cooperative, con le istituzioni politiche. Sono questioni che dobbiamo assolutamente riprendere in mano – ha sottolineato D’Anza – con primaria e costante attenzione per tutte le persone che attraversano la sofferenza mentale e per i loro familiari, che spesso si trovano costretti a pagare un prezzo altissimo, soprattutto laddove i servizi sono scarsi o del tutto assenti. Occorre dare maggiore spazio e valore al loro protagonismo, alle loro associazioni che costituiscono uno degli elementi portanti del Forum stesso. Bisogna proseguire con determinazione nella battaglia, fortemente sostenuta fin qui dal Forum, contro la contenzione: non legare le persone significa scegliere un servizio di salute mentale che rispetti i diritti e la dignità delle persone».

Vito

Scriveva Franco Basaglia in Conferenze Brasiliane (1979), “Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale”. «Con queste parole, Basaglia ci ha insegnato che niente è irreversibile – ha commentato D’Anza – e ciò significa che occorre essere attenti, vigili, avere da un lato una capacità critica rispetto a quello che accade ma, dall’altro, anche di approccio positivo, costruttivo, di proposte di soluzione rispetto alle criticità riscontrate. In altri termini, il Forum intende rinnovare la propria dimensione peculiare di sguardo critico sulle problematiche della salute mentale e al tempo stesso anche propositivo nell’individuare possibili soluzioni».

«Il mio pensiero commosso e doveroso – ha concluso infine D’Anza – va in particolare a chi mi è stato maestro e amico carissimo, una tra le figure centrali della nascita e dello sviluppo del Forum che tutti quanti ricordiamo con grande affetto e stima: Sergio Piro».

Gruppo

«Se non ci fossero incontri come questo che aiutano molto a capire il tema della salute mentale, come potrei difendermi come persona da tante cose sbagliate?». Il senso profondo dell’incontro nazionale del Forum e delle sue battaglie nel breve ma intenso commento di Davide, persona con esperienza del Centro Marco Cavallo di Latiano (Brindisi). «Siamo gabbiani che volano per il cielo verso una meta dove trovare amore e fratellanza – ha aggiunto Davide –, nessuno può spezzare le nostre ali, le ali della libertà, dell’uguaglianza, della dignità, dei nostri sogni comuni. Continuiamo a volare alti nel cielo, con lo sguardo attento a chi invoca aiuto e sostegno»: queste parole, che richiamano alla memoria il gabbiano Livingston di Richard Bach, siano di augurio alle future battaglie del Forum Salute Mentale e al suo nuovo portavoce.

[copyright foto Anita Eusebi, eccetto la foto di gruppo all'interno della composizione conclusiva che è di Andrea Clarot]

L’almanacco di Franco Rotelli

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rotelliDi Piero Del Giudice

L’istituzione inventata/Almanacco. Trieste 1971-2010 (pag. 330, AlphaBeta editore, Bolzano, 2015, distribuzione via amazon) è il libro di Franco Rotelli – direttore dei servizi di salute mentale e poi direttore ASL di Trieste – che racconta l’esperienza triestina di riforma e abolizione del manicomio – culminati formalmente con l’approvazione da parte del Parlamento italiano della legge 180 -  e di riforma dei saperi e delle istituzioni inventate attorno a ciò che chiamiamo salute mentale. Il libro simula intenti didattici, costruito cronologicamente e nella forma di un voluminoso abecedario – con l’ausilio di foto, riporto di documenti, immagini colorate di prodotti vari –  che istruisca sul pensiero, lo sviluppo di pensiero e i fatti che producono la totale demolizione del sito OP (Ospedale Psichiatrico) a Trieste.

Sulla terra della istituzione manicomiale su cui più nulla cresceva, oggi crescono grandi distese di rose e i matti si misurano in contesti meno surreali, sociali anche. Un libro chiaro, efficace, la cui forma pop si àncora, pagina dopo pagina, su brani, brevi saggi, cronache, che ricostruiscono  il pensiero-bardo di questa nostra epopea.

E le cadenze di pensiero – da Artaud a Enzo Paci a Basaglia a Primo Levi a Rotelli stesso – sono il portante del libro. Prima di tutto e, sembrerebbe sopra ogni altra considerazione, Rotelli ritiene decisivo per l’impresa perseguita, il contributo collettivo, relazionato e in qualche modo corale. Lo fa da subito elencando nella introduzione, in ordine alfabetico, almeno 500 nomi di persone che nell’arena della demolizione della istituzione sono intervenute, ognuno demolendo una parte di muro. Infermieri, sociologi, volontarie, Gino Paoli, Ugo Guarino con le sculture Testimoni e il collettivo ‘Arcobaleno’, Rafael Alberti, Dario Fo, Giuliano Scabia, per non parlare dei complici – Guattari, Cooper, Castel -, i documentari di Sergio Zavoli, le fotografie di Carla Cerati e Berengo Gardin etc. nonché Ornette Coleman che ci ha lasciato in questi giorni, Franco e Franca Ongaro Basaglia che non ci sono più, Mario Tommasini che non c’è più (per dire a noi e alle generazioni avanzanti che, in questo racconto, la morte non è più uno scandalo). Tanto vasto e laborioso il campo che non vale elencare le tappe, dai primitivi urti del 68-69 – per sottrarre all’internamento quote di ‘alienati’ per definizione e rivelazione – sino alle cooperative dell’oggi, agli appartamenti dove vivono, ognuno con il proprio destino, i già reclusi, alla dimensione di lavoro territoriale, umano-consorziale, in cui si dibatte, cambia e prende forma, il disagio. Ma il contributo originale del libro di Rotelli non è quello – o soltanto quello – di una esemplare cronaca, ma il fatto che egli si sottrae al dibattito tra tecnici, tra discipline, riportando la vessata quaestio ai primordi dell’umano problema. Lo fa nel saggio del 2008 a titolo Che cos’è la salute mentale: «Può essere che la salute mentale sia il contrario della follia. Per quel che mi riguarda io mi immagino che esser folli altro non significhi che prendersi molto o troppo (o del tutto) sul serio. Se sta all’opposto, salute mentale non potrà che identificarsi con l’esercizio della vacuità, dell’insignificante…Ci si potrebbe immaginare che salute mentale stia laddove un soggetto può esistere con altri, attraverso il linguaggio comunicare di sé, poter parlare di sé per differenze accettabili, costituirsi per singolarità parziale e parziale comunanza…Se è verosimile che solo il linguaggio ci può salvare, se è verosimile che nella follia ci sia non so se una scelta ma una sicura compiacenza, un vezzeggiamento continuo, una seduzione subìta, un arrovello accarezzato, un’identità estrema purchessia, l’altro diventa ancor più decisivo del tuo futuro…».

Aggira l’Autore la possibile  opzione classista della vicenda e prigionia degli alienati  (“NO! NO! Al manicomio dei poveri” nella foto è scritto sul muro) e opta per una storia degli individui sottratta alla nudità e alla frigidità della persona non relazionata. Rotelli insiste allora qui con la narrazione dell’intrapreso e la sollecitazione alle buone pratiche, per la salute sociale del territorio, per un habitat salutare, coniugandovi il mestiere del medico e la macchina della istituzione riformata.

(da “Galatea”)

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