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In memoria di Franco B.

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BN_nuove-bn_sm_10di Franco Rotelli.

Interrogarsi sulle ragioni della follia: a volte frutto di ben comprensibili gironi concentrici di sopraffazioni e miserie, altre volte della fragilità di corpi segnati, altre volte di una renitenza o di una opposizione incauta e con troppi fragili strumenti a fronte della geometrica potenza nemica, altre volte incorporazione dell’aggressore, altrove altro ancora.

Quasi mai effetto di una linearità causale, la follia è sempre enormemente mutante per variare di relazioni, di sguardi, di reazioni e contro reazioni modificabili.

Destini enormemente sensibili a ciò che attorno si costituisce o si progetta.

A pochi importa modificare fattualmente questi destini. Si preferisce negarli o normarli, o compatirli con pruderie mai come qui nocive. O farne immagini astoriche, astratte: figure o maschere su cui stupirsi, usarle per qualunque vecchia e nuova ideologia, appropriarsene per scientifiche o estetiche farneticazioni. Parlarne in termini lunari invece che quant’altri mai terrestri (e dei disastri miserabili del reale, reali prodotti).

Franco Basaglia di questi destini si è occupato modificandoli, restituendoceli. Da quel momento nulla è più stato come prima. Di nulla qui può essere detto:”è naturale”. Né i milioni di internati tuttora nei manicomi, né millanterie tecniche, né l’inerzia abbandonica.

Un pezzo di libertà in più è nata per tutti. Ma l’enorme stratificazione degli inganni naturali, scientifici, normativi, istituiti ovunque continua a produrre sopraffazioni e violenze fisiche e psicologiche e molti anni occorreranno a smontarne quanto meno ciò che vi è di più palese, che scandalosamente è tuttora lì, davanti agli occhi di molti che continuano a fingere di non vedere.

Anche i cani, lo sanno tutti, più sono legati più mordono. Perché gli uomini dovrebbero essere diversi? L’elementare domanda di un infermiere di Trieste fa giustizia sommaria della logica su cui si fondano i manicomi. Eppure, anni 80, quasi 400mila gli internati in Giappone, 200mila in Brasile, quasi 2 milioni nell’Unione Sovietica. I manicomi dalla Rivoluzione Francese in poi sono stati fondati, con Pinel nella speranza che le catene non servissero. Non è andata così.

Uno degli ospedali psichiatrici di Kyoto è stato fondato dopo gli anni 50 al posto in cui i monaci buddisti accudivano i folli che andavano o venivano portati a una purificatrice cascata. Solo dopo la seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno portato i manicomi in Giappone.

200 anni dopo Pinel è possibile superare l’equivoco fondante, pur carico di buone intenzione, che va in Francia da Pinel a Tosquelles e ininterrotto, che l’asilo sia auspicabile o inevitabile.

Ma affinché questo sia vero non per un momento, affinché anche improvvisate eliminazioni di ospedali psichiatrici come negli USA non siano frutto solo temporaneo di parossismo liberistico dell’arrangiati o schiatta, è necessario che il paradigma psichiatrico muti e non muterà se sarà sempre fondato sull’alienismo, sulla scienza che studia l’alieno.

Biologico o custodiale, psicologico o sociale, razionale o irrazionale che sia, l’alienismo ha bisogno di luoghi di contenzione, magari chiamati come fa in buona fede e in buona opera Tosquelles “Scuole di Libertà”.

Con Basaglia almeno la totalità dell’asilo va invece, ad ogni costo interrotta e con essa la totalità del potere: con l’esperienza italiana ciò per la prima volta accade a Trieste e alcuni altri luoghi perché un paradigma teorico centrato sulla complessità sostituisce un semplicistico paradigma alienistico.

La normalità è interrogata, ma lo sono insieme bisogni e relazioni. L’attore psichiatra non è più uno sguardo assoluto. I soggetti interagiscono, la relazione implica e denuncia complicità e rigidità. L’istituzione psichiatrica è interrogata come struttura e sistema fondati e fondanti: delle sue radici occorre dar conto critico e questo ne determina la fine attraverso il sospetto sui suoi concentrici confini e concentrici gironi di inganni. Il muro crolla perché crolla la legittimità dell’istituzione. La sua autoreferenzialità finalmente interrogata e smascherata.

Salute e malattia, valori assolutizzati, stabiliscono gerarchie di norma e di anormalità, si estendono a formare giudizi di valore e disvalore sociale.

Si arriva a dare nomi medici a povertà sociali, a istituire come medici i luoghi della privazione assoluta e del diritto assente. Senza la complicità della scienza medica ciò non sarebbe da tempo più possibile poiché illegittima sarebbe tale privazione nel mondo dell’universale cittadinanza.

Per la prima volta la legge 180 stabilisce l’universalità del diritto restituendo alla follia il diritto di cittadinanza. La follia esce contemporaneamente dal suo statuto totalizzante, ridiventa episodio essenziale o marginale del vivere: non abolisce più il cittadino che ne è portatore sano o malato; ci si può finalmente interrogare su essa dentro la storia, dentro le storie, dentro il tessuto labirintico delle istituzioni macro e micro geometriche del nostro vivere,

Dentro la crisi delle scienze europee Basaglia ha portato Husserl, Sartre, Lukacs, Marx, vicino al mondo dei manicomi, mostrando come la più alta delle culture europee può svelare la più bassa delle vergogne. Purché questa cultura si faccia pratica azione, scontro reale con il reale (l’istituzione) e contro i nomi e i muri.

La porta aperta, la deistituzionalizzazione, l’odio per i funzionari del potere e della “chose” sartriana ma con tutta la memoria di una Europa dei conflitti a cui non bastano più i giardini di Abele.

(tratto da: “L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971 – 2010″ di F. Rotelli, Collana 180, Edizioni Alphabeta Verlag, 2015)


San Giusto d’Oro 2016. Un premio collettivo

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15219642_1218953128197652_6063134975950203050_nAlle migliaia di operatori che hanno costruito il cambiamento e che oggi, con impegno, continuano ad andare avanti.

Il discorso di Roberto Mezzina

Gentili signore e signori, signor Sindaco, ho l’onore, in quanto attuale direttore del Dipartimento di Salute Mentale, di essere il rappresentante istituzionale degli operatori che oggi garantiscono la continuità di questa esperienza grazie all’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste. Essi si accomunano a che, con Franco Basaglia, l’hanno fondata, molti dei quali sono qui presenti, e che saluto con grande affetto, rispetto e senso di condivisione profonda.

Non solo é stata – ed è – la più duratura trasformazione della storia della psichiatria, ma testimonia un cambiamento epocale.

Un grande manicomio, con 1200 persone, è stato superato, chiuso e trasformato in una rete di servizi nella comunità, aperti 24 ore. Franco Basaglia, il grande psichiatra che nel 1971 divenne direttore di questa istituzione su chiamata di Michele Zanetti, allora Presidente della Provincia, in accordo con lui e grazie al contributo di giovani operatori, realizzò questa trasformazione in sette anni, prima di morire prematuramente. Una legge di riforma coraggiosa, la legge 180, nel 1978 sanciva a livello nazionale quanto era stato fatto qui e in pochi altri luoghi e ne faceva norma da applicare su scala nazionale. Questa legge è tuttora la più avanzata del mondo perché riconduce alla cura nell’esercizio dei diritti quella che era stata la segregazione e l’esclusione dei malati nei manicomi. Qualcuno ha detto recentemente che non c’è salute dove non ci sono diritti.

Con Franco Rotelli questi servizi sono stati l’apripista di trasformazioni ulteriori della medicina, i distretti sanitari a Trieste, e di ulteriori riforme. La Direzione di Peppe Dell’Acqua ha consolidato il Dipartimento di salute mentale come modello riconosciuto dall’OMS, riferimento nazionale e internazionale. Ma si dovrebbe dire di dieci, cinquanta, cento altre donne e uomini, che vi hanno contribuito con la loro intera vita al di là dell’impegno professionale, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione, artisti, volontari, amministratori, direttori generali – saluto qui il dr Delli Quadri che ci sostiene convintamente.

15178327_1218952991530999_5010860853204698044_nIl premio è dunque dato ad un cambiamento che non è solo scientifico, ma culturale e giuridico. Non solo da istituti chiusi a servizi aperti, ma dalla malattia alla persona, parola che recentemente anche il compianto Umberto Veronesi ha associato al termine medicina: medicina della persona.

Basaglia aveva detto:

Noi vogliamo cambiare lo schema che fa del malato un corpo morto, e tentiamo di trasformare il malato mentale morto nel manicomio in una persona viva, responsabile della propria salute… Certamente una delle terapie più importanti per combattere la follia è la libertà.

Il portato scientifico ed etico di Basaglia è stato diversi anni fa riconosciuto dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini. Il grande Norberto Bobbio ha parlato della legge 180 come dell’unica vera riforma italiana.

Dopo l’era delle streghe, dei demoni, delle superstizioni, e dopo l’era delle segregazione, della psichiatria manicomiale, il messaggio culturale principale, l’accettazione della follia e del diverso, la convivenza, la non esclusione, la non espulsione di tutto ciò dalla Ragione, è davvero un fatto epocale – post illuministico – per la prima volta nella storia moderna.

Trieste è stata l’esperimento in vivo di un’intera città: assicurare la cura all’interno della comunità – quindi con piena inclusione – nell’esercizio della libertà, a porte aperte e senza più luoghi di reclusione ed esclusione. In questo è ancora luogo unico al mondo, Centro Collaboratore dell’OMS, in quanto modello per i servizi di tuto il mondo, di cui parla Le Monde, l’Asahi Shimbun o l’Economist, frequentato da un migliaio di persone da trenta paesi ogni anno. Questo modello, nella sua attualità, vengono a vedere, non un museo. Un modello, o un lavoro, che si è esportato in Brasile, Argentina, Spagna, ex-Jugoslavia, Grecia e altrove.

Al di là dei riconoscimenti – come il premio alle Nazioni Unite nel 2014 a Vienna che abbiamo ricevuto come esperienza innovativa per la vita indipendente e la partecipazione alla comunità delle persone con disabilità (lo Zero Project, per un Mondo Senza Barriere) – il problema è stato ed è il radicamento e la trasmissione dell’esperienza, la diffusione e l’insegnamento di essa. Una Scuola internazionale si va costruendo, a partire da questa eccezionalità, prima ancora che eccellenza. Che le istituzioni ci aiutino in questo.

Ha detto ancora Basaglia:

L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile… D’altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva.

L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare.

Oggi ci permettiamo di dissentire dalla frase di Basaglia, non ci possiamo più accontentare. [1]

Non solo Trieste è in piedi da 45 anni (da 60 con Gorizia), ma in Italia c’è stato un grande spartiacque come la legge 180. Con essa abbiamo i Diritti di Cittadinanza incarnati, radicati nei corpi e nella vita intera delle persone, immediatamente riferiti alla dichiarazione sui diritti dell’uomo e alla convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Vorremmo che la Storia non permettesse più corsi e ricorsi sulla pelle degli emarginati e degli esclusi. Almeno dobbiamo provare ad impedirlo.

L’OMS parla di servizi basati sui diritti e incentrati sulle persone. Dice che bisogna operare per dare potere (empowerment) alle persone con problemi di salute mentale e di lavorare con tutti i settori e le istituzioni dell’organizzazione sociale, per garantire lavoro, istruzione, casa, cittadinanza, inclusione sociale.

Per il giudizio della storia è forse presto, e dobbiamo rallegrarci di quello di chi fa cronaca. La storia sarà ciò che resta, da ciò che refluisce via, di una vicenda collettiva.

Che per la sua forza ha potuto fare a meno di Basaglia stesso. E’ per questo che noi siamo ancora qui.

Siamo onorati del fatto che questa città riconosca oggi, grazie all’Associazione della Stampa e al Comune, in un modo più esplicito, il lavoro fatto in mezzo secolo, per proseguire l’azione di Franco Basaglia per quei diritti, e per un’Etica dell’Altro, che lo veda e lo riconosca come vicino a noi pur nella differenza, ma dobbiamo sottolineare che l’esito principale è la presenza viva e vitale delle persone, dei soggetti, restituiti ad una vita, al di là e al di sopra del cambiamenti delle istituzioni.

15178073_1218953251530973_8262159547573151266_nDunque non siamo soli. Tutto ciò è proprietà delle stesse persone che hanno esperienza diretta del disagio, dei loro familiari, della comunità stessa, le ha coinvolte e cambiate e loro hanno cambiato noi, aiutandoci pure a migliorare i servizi. Per questo chiedo alla Professoressa Silva Bon, docente di storia e autrice di molti libri sulla storia del ‘900, e del libro “guarire si può” con Izabel Marin, presidente di associazioni per la salute mentale e “attivista” nella lotta allo stigma attraverso la sua testimonianza personale, di cui lei stessa se vuole dirà, di ritirare il premio per questa comunità che Lei sig. Sindaco rappresenta, per tutti noi, per questa città.

Grazie a voi tutti ed a lei.

Roberto Mezzina, 25 novembre 2015


Lo psichiatra John Conolly, dal 1839 al 1852, per poco più di un decennio, lottò duramente per applicare, riuscendoci, l’abolizione di tutti i metodi di contenzione al più grande manicomio d’Inghilterra, Hanwell. Scrisse: “la costrizione é simbolo d’abbandono del malato ed é il sostituto delle cure numerose che il suo stato richiede”. Poi tutto rientrò con l’era vittoriana dei grandi manicomi. [1]

Franco Basaglia e la forza operante dei “matti”

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Quando abbiamo cominciato a parlare di questo corso di formazione per gli infermieri, ho detto delle cose che mi sono state rimproverate poi dagli operatori. Ho detto che non è un caso che la scuola degli infermieri, cioè il suo inizio, coincida con la fine della mia gestione triestina. L’interpretazione di alcuni medici di queste parole è stata che la storia è finita e oggi comincia la storiografia: fino a ora si è cambiato, si è trasformato e oggi comincia la razionalizzazione del cambiamento; in altre parole, da questo momento non avverrà niente di nuovo perché ciò che di nuovo è avvenuto a Trieste, è avvenuto con me: oggi comincia la razionalizzazione, si comincia a edificare, ad abbellire la casa che si è cambiata.

Io non sono affatto d’accordo con quest’affermazione; penso che ciò non è assolutamente vero perché se trasformazione c’è stata qui a Trieste, questo non è dipeso da me ma dallo sforzo partito da tutti, dagli infermieri, dai medici, ma soprattutto, direi, dalla forza operante dei degenti, dei pazienti, dei “matti”, di quelli che oggi chiamiamo “utenti”; perché se non ci fosse stata questa forza trasformatrice nella gente che noi abbiamo curato, nelle persone che venivano a domandare aiuto, noi non avremmo cambiato niente, non avremmo fatto storia [...].”

A settembre del 1979 aveva avuto inizio il corso per gli infermieri. La mattina di martedì venticinque settembre il “primo giorno di scuola”. C’era un bel clima. Si stava realizzando un altro passo verso il radicamento del cambiamento che tutti avevano contribuito a realizzare.

Franco Basaglia tenne la prima lezione e, in pratica, annunciò la sua imminente partenza per Roma.

La scommessa romana ebbe solo il tempo di cominciare. A marzo del 1980 Franco Basaglia si ammala. A Venezia il 29 agosto di quello stesso anno muore.

faldone_1-doc4-054(l’immagine – un disegno di Ugo Guarino – è la copertina di un numero di “847“, il giornalino prodotto e ciclostilato all’interno dell’Opp di San Giovanni)

Quella sera di ottobre del 1979

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(ph Fabio Battellini)

(ph Fabio Battellini)

Di Peppe Dell’Acqua

Ho conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Colorno ed era nell’aria “il principio dell’avventura triestina”.

Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata.

Stavamo già ereditando dal sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico ad essi subalterno, l’inevitabile dissociazione tra professione e impegno sociale e politico.

Era per tutti noi, la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva a noi direttamente. Partecipammo perfino a una riunione con gli operatori dell’Ospedale. C’erano problemi, tensioni, e tutti discutevano con calore, non risparmiando toni duri e polemiche. Tutto alla luce del sole. Il contrasto con la nostra esperienza in clinica era stridente, quasi ci disorientava, ma eravamo già conquistati ormai, affascinati.

Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Più semplice – diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. E il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.

Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito “al fronte”, nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.

Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli internati che emergevano.

Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni.

Riuscì a spostare, a capovolgere, anche la nostra vita. Eravamo avviati a una vita professionale frustrante e dissociata: da un lato la professione medica, con i suoi rituali, le sue geometriche distanze dalla realtà, dalla concretezza dei problemi; dall’altro l’impegno politico, quello che restava degli anni caldi dell’Università. Quanti di noi si sono persi drammaticamente nel carrierismo esasperato o al contrario in scelte politiche rigide e senza sbocco.

Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la “lunga marcia attraverso le istituzioni” che ci ha indicato con il lavoro quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare momenti di vita e di creatività.

Una sera di ottobre del 1979, a Trieste. Il manicomio era ormai stato chiuso, si lavorava fuori, nella città. C’era stata la legge 180. Tutto il gruppo di lavoro era riunito nella direzione dei servizi, dove Franco anche abitava, per fare festa.

BN_nuove-bn_sm_10Franco, ormai era deciso, sarebbe partito per Roma. Eravamo in tanti a salutarlo. Lo prendevamo in giro, sottolineando ridendo i suoi tic, le sue debolezze, i suoi modi a volte “infantili” di arrabbiarsi, le sue ossessioni, il quadernino per i numeri di telefono (aveva innumerevoli agendine che spesso perdeva), la sua passione per i problemi del Sud America (era appena stato in Brasile e doveva tornarci). Coprivamo con ilarità e allegria il malcelato disappunto e la malinconia che già si faceva strada in ognuno. Non volevamo ci lasciasse, eravamo orgogliosi e fieri di essere stati con lui in momenti così determinanti, con lui che ora partiva per Roma accettando una scommessa più grande, forse decisiva.

Franco rideva come non mai, nel vedere scoperte e rappresentate da noi le sue umane debolezze.

Ognuno di noi ha conservato le foto di quella sera di festa, dove tutti, e Franco con noi, erano allegri, si toccavano, si abbracciavano.

Non avevamo avuto bisogno di parole formali quella sera, l’ultima sera, per salutarlo.

Gli interrogativi, le idee e le pratiche che accompagnarono  l’ingresso di Franco Basaglia, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di straordinari e impensabili mutamenti. Era il 1968 quando il governo di centro sinistra, sulla spinta dell’esperienza goriziana, varò una legge che omologava il manicomio all’ospedale civile e avviava un processo di radicale cambiamento, che si concluderà dieci anni dopo con la Legge 180. Le trasformazioni istituzionali, etiche, culturali, erano conseguite a scelte di campo rigorose e da pratiche concrete: le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso dei matti nel mondo reale, animarono la paziente “lunga marcia” attraverso le istituzioni che quell’apertura aveva tumultuosamente avviato.

Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia è colpito soprattutto dall’assenza dell’altro.

Gli internati sono 400. Le persone, i soggetti, le relazioni non ci sono più. Un deserto: oggetti, assenze, negazioni.

Di fronte a questa violenza, a questo indicibile orrore è costretto a chiedersi angosciato «che cos’è la psichiatria?».

Da qui l’urgenza della critica ai fondamenti sedicenti “scientifici” della psichiatria stessa, l’irreparabile rottura del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, le culture e le pratiche del manicomio, vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”.

La legge 180, che presto compirà 40 anni, arriverà nel 1978, non è altro che questo: la fine di una legislazione speciale. L’internato, il malato di mente è un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari.  Da qui il cammino incerto irto di interrogazioni, di rischio, di lentezze insopportabili. Il rifiuto delle intoccabili certezze della psichiatria pretende la cura di un pensare critico, vigile, partigiano. Da qui il cammino aspro e i conflitti che ancora oggi dobbiamo affrontare e che mai ci abbandoneranno. E le entusiasmanti scoperte che le persone con l’esperienza del disturbo mentale continuano a fare. Con stupore.

Memorie. Periferie dei luoghi e della mente, appunti da Girifalco e Reggio Calabria

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Girifalco-660x330di Anna Foti

La storia degli ospedali psichiatrici in Calabria è antica e le complesse pagine dedicate al superamento di tali strutture, come anche in altre regioni d’Italia, raccontano di decenni di ritardo rispetto alla legge 180 del 1978 che, su intuizione dello psichiatra Franco Basaglia, impose la chiusura dei manicomi, disciplinando il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i centri di salute mentale da allestire in ogni azienda sanitaria – quali diramazioni territoriali del dipartimento della Salute mentale – prospettando l’integrazione dei servizi pubblici e privati e incentivando l’istituzione di servizi alternativi. Nonostante a oggi si attenda ancora una piena attuazione delle legge Basaglia[2] le persone affette da patologie mentali non sono più condannate all’isolamento, alla coercizione e alla contenzione fisica [3]e l’approccio alla malattia mentale si propone di riguardare le persone effettivamente affette da queste patologie psichiatriche piuttosto che mostrarsi nutrito di ciechi pregiudizi e ignoranza. Un tempo i manicomi divenivano i non luoghi in cui relegare non solo chi aveva bisogno di cure ma anche persone con disagi, persone affette da dipendenze, gli ultimi, i soli al mondo, le mogli adultere o presunte tali, giovani donne criminalizzate per una loro fuga d’amore, persone con gravi forme di disabilità non solo mentale che le famiglie, spesso per vergogna, preferivano abbandonare quasi completamente. Vi era la categoria dei “folli” le cui maglie erano assolutamente larghe e gravide del rischio di ingurgitare persone per nulla ammalate ma solo emarginate o portatrici di un qualche stigma. Il manicomio era un luogo nato per essere un non luogo in cui dimenticare di essere vivi e di essere persone, come fosse una periferia vocata a custodire storie dolorose e difficili, vite interrotte, sogni sospesi al di là di quelle mura, esistenze segnate dalla solitudine, dalla disperazione, dall’esclusione. Una condizione che, nonostante alcune eccezioni, ha segnato anche la storia della malattia mentale nel nostro paese, purtroppo non solo prima della legge Basaglia ma anche dopo. I tempi del superamento dei manicomi furono molto lunghi e complicati. Furono necessari oltre venti anni per l’avvio effettivo di questo delicato processo; nonostante la legge, i manicomi continuarono a restare aperti, spesso in strutture obsolete e senza che fosse chiaro come bisognasse procedere.

La legge Basaglia, riformando l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, ha reso l’Italia l’unico paese ad avere compiuto questo passo di civiltà, ad aver abolito i manicomi di fatto luoghi di confine in cui rinchiudere senza possibilità altra.[4]

Il fine della riforma fu quello di difendere la dignità e i diritti delle persone malate, lasciandosi alle spalle logiche esclusivamente custodiali e reclusive. Il cammino di reale applicazione dei principi della legge e di effettiva integrazione con tutti i servizi del territorio e tra assistenza pubblica e privata per il trattamento delle acuzie e la riabilitazione è tuttavia ancora in corso, complici i lenti, tardivi e ancora incompiuti, in termini di effettivo miglioramento delle condizioni, passaggi dai manicomi ai centri di salute mentale, ai servizi ospedalieri di diagnosi e cura, alle strutture private convenzionate e a quelle pubbliche riabilitative.

Anche in Calabria i ritardi sono stati notevoli; nonostante la nostra Regione si fosse già dotata di una legge ad hoc (numero 20) nel 1981, i manicomi di Girifalco, nel catanzarese, e quello di Reggio Calabria furono chiusi molti anni dopo. L’articolo 1 della citata legge regionale sanciva proprio lo scatto di dignità nel fronteggiare la malattia mentale ponendo al centro la persona, definendo “le funzioni e le attività relative alla tutela della salute mentale nella Regione tendenti a: privilegiare l’intervento diretto a prevenire lo stato di disagio psichico e l’insorgenza di ogni forma di patologia psichiatrica; eliminare ogni forma di discriminazione, di emarginazione e di segregazione pur nella specificità delle misure terapeutiche; favorire il recupero e il reinserimento sociale dei disturbati psichici”.

La storia dei manicomi calabresi comincia a Catanzaro nel 1878. Per l’esattezza inizia a Girifalco, scelta per ospitare il manicomio provinciale che avrebbe potuto accogliere fino a 50 “folli” e che nel 1881 iniziò la sua attività con le 21 anime sofferenti censite nella provincia di Catanzaro.

Per questo Girifalco è stata definita dallo scrittore di lì originario, Domenico Dara, “archivio della follia calabrese per oltre un secolo”. A Reggio Calabria, ospite del circolo culturale Calarco alcune settimane fa, lo scrittore ha presentato l’ultimo suo libro “Appunti di meccanica celeste” con il quale ha vinto il premio Stresa e il premio letterario Vincenzo Padula 2017. Ambientato a Girifalco, il romanzo rende anche omaggio alla memoria del paese ancora strettamente legata a ciò che il manicomio ha rappresentato.

La sede del manicomio provinciale di Girfalco fu l’antico convento dei Riformati che all’epoca il Comune, in competizione con le altre amministrazioni, aveva messo a disposizione per l’istituzione manicomiale in Calabria. Arrivato nel lungo arco della sua vita anche a ospitare oltre 1000 degenti, il manicomio girifalcese ebbe nel corso di oltre un secolo oltre ventimila degenti prevalentemente uomini. Domenico Marcello, nel suo volume “Storia del Manicomio di Girifalco” edito da Vincenzo Ursini, medico per lungo tempo del manicomio, riferisce delle anime che popolarono il manicomio calabrese provenienti non solo da tutta la provincia ma anche dall’estero, dalla Grecia, dalle Isole Egee e, addirittura, dai Paesi dell’Africa settentrionale.

Il manicomio provinciale di Girifalco mutò denominazione nel 1927 in ospedale psichiatrico provinciale di Catanzaro. [..]La storia di questo comune catanzarese è legata profondamente alla presenza del manicomio fin dalla fine del 1800. Non a caso il comune di Girifalco è stato a lungo noto come “il paese dei pazzi”. E’ una memoria forte e ancora viva nel borgo catanzarese adagiato ai piedi del monte Covello, a poco più di trenta chilometri dal capoluogo di regione. Qui molti ancora si definiscono con orgoglio figli del manicomio perchè nipoti e figli di persone che, a diverso titolo, lavorarono all’interno della struttura. Questo ancora oggi attesta l’opportunità di sviluppo e il volano economico che il manicomio rappresentò per Girifalco.

La sua lunga vita è stata scandita dalle grandi trasformazioni che riguardarono la psichiatria in Italia; tra i cambiamenti significativi, il passaggio dai sorveglianti agli infermieri, la contaminazione con la psichiatria sociale e il ricorso ad interventi terapeutici e riabilitativi in luogo dell’esclusiva modalità della contenzione fisica. Una storia lunga quella del manicomio di Girifalco che riflette in Calabria le luci e le ombre, le sfide e le difficoltà di un cammino nazionale accidentato e faticoso verso il superamento dei manicomi e di una condizione di degenza degradante, verso la liberazione dal pregiudizio che pervadeva e, ancora oggi seppure in misura diversa, pervade la malattia mentale. Tra i punti luce va ricordata l’esperienza open door di cui il manicomio di Girifalco fu antesignano. Le persone ricoverate, infatti, uscivano ed entravano dal manicomio intessendo anche relazioni con la comunità. In tanti oggi, tra i ricordi di infanzia, rammentano di averli avuti ospiti nelle occasioni di festa, nella propria casa. Esperienza comune anche ad altri manicomi in Italia è stata quella del lavoro all’interno del manicomio; in tanti ricordano una sorta di autogestione – all’interno si faceva il pane, si rilegavano libri, si lavorava la ginestra, si sfornavano mattoni, si allevavano animali. Ciò consentiva di offrire anche servizi all’esterno. Di tutto questo oggi resta solo la memoria di chi, pur se in tenera età, c’era e lo ricorda.

[..] Nelle settimane scorse è stato eseguito un sopralluogo alla presenza del commissario nazionale per il superamento degli Opg, Franco Corleone. Le Rems sono strutture gestite dal dipartimento Salute Mentale e dall’Asp territorialmente competente, istituite per il superamento delle strutture di contenzione sociale destinate ai cosiddetti “folli rei”, persone macchiatesi di un reato e anche affette da patologie psichiatriche, e per porre fine al cosiddetto ergastolo bianco che condannava queste persone a rimanere internate per periodi superiori alla pena comminata. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) o manicomi criminali, aboliti nel 2013 con due proroghe per la chiusura slittate al 2014 e al 2015, ad oggi sono sostituiti da queste strutture denominate Rems. In Calabria anche questo cammino ha richiesto tempo. Non essendoci mai stato in Calabria un Opg, i cittadini calabresi, autori di reato ritenuti socialmente pericolosi, afferivano in massima parte all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, ultimo manicomio criminale ad essere stato chiuso dopo quelli di Reggio Emilia, Firenze, Mantova, Napoli e Aversa, struttura nel casertano che per prima fu istituita in Italia nel 1876). [..] La storia del manicomio è adesso raccontata nel documentario uscito quest’anno e che nel suo titolo richiama le parole che si leggevano all’ingresso del manicomio: “Sanusegredieris”, “Uscirai sano”. Diretto dalla girifalcese Barbara Rosanò e da Valentina Pellegrino, il documentario, prodotto dall’associazione culturale “Kinema” con la partecipazione di un cast di attori calabresi, è stato già proiettato in diverse località. Esso ha partecipato allo “Sguardi Altrove Film Festival” di Milano e alla selezione dei David di Donatello.

Un progetto promosso dall’amministrazione comunale impegnata a preservare la memoria storica del legame del manicomio con il territorio. Tra i sostenitori anche la Calabria film commissione che ha dato un contributo per la distribuzione.

La storia manicomiale approdò nel 1914 anche a Reggio Calabria con l’istituzione di un altro manicomio provinciale che nel 1932 divenne Ospedale psichiatrico provinciale e nel 1967 ospedale neuropsichiatrico. Inizialmente la struttura prevista con decreto nel 1906 avrebbe dovuto sorgere a via Borrace. Poi il sisma del 1908 travolse anche questo progetto e la nuova collocazione fu la zona panoramica dei piani di Modena. Il manicomio entrò in funzione nel 1932 e venne chiuso agli inizi degli anni Novanta dopo circa sessanta anni di attività. Sei decenni in cui, tuttavia, il progetto iniziale di colonia agricola per la rieducazione delle persone ricoverate lasciò il posto a un lager dove ad essere rinchiusi non furono solo malati mentali ma anche persone disabili, abbandonate ed emarginate. Un’umanità sofferente di cui si prese cura anche don Italo Calabrò, l’amico degli ultimi e dei poveri, con i giovani volontari ai quali faceva da guida. Dal 1994, laddove sorgeva il manicomio, ha sede la scuola allievi carabinieri “Fava – Garofalo” di Reggio Calabria.

Attraverso la documentazione presente presso l’archivio di stato di Reggio Calabria è possibile ricostruire la storia del manicomio reggino. Le corrispondenze custodite testimoniano anche come il disagio psichico dei congiunti era vissuto dai familiari fino al secolo scorso. Interessanti sono le carte relative al progetto del manicomio, nato per accogliere e rieducare e non per internare e isolare. Degne di nota anche documentazione processuale e le perizie.

Tutti tasselli di un cammino di civiltà che ancora è in corso, nel nostro paese come nei nostri territori, e il cui traguardo di accoglienza e umanizzazione è un’irrinunciabile conquista di dignità.

Memorie. Periferie dei luoghi e della mente, appunti da Girifalco e Reggio Calabria[1]


[1]L’Stril.it quotidiano calabrese dal 2006.

[2]vedi il DdlS2850/17 “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180” presentata al senato lo scorso settembre anche su iniziativa di questo Forum

[3]vedi la campagna nazionale per l’abolizione della contenzione “..e tu slegalo subito

[4]Dal maggio 2014 anche gli Opg, ospedali psichiatrici sono chiusi. l’ultimo internato è uscito dall’Opg di Barcellona Pozzo di gotto lo scorso 27 gennaio. vedi l. 81/2015

Metapsicologia dell’inanalizzabile

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catena-rotta-5678pdi Piero Cipriano

Talvolta qualcuno me lo chiede. Ma come, di mestiere fai lo psichiatra, e hai ricusato di farti analizzare?

Eh sì. E non è obbligatorio, ancora, per fortuna. E poi, analizzare che? Cosa? L’inconscio? E dov’è? Cos’è?

Va be’, parliamone.

Abrahams. Si può cominciare da lui questo discorso sui soggetti inanalizzabili, oppure ricusanti l’analisi.

Chi è Abrahams? Chi vuole si può leggere il pezzo su di lui che ho scritto qualche mese fa, sempre su Carmilla.1

Altrimenti lo riassumo. È uno che nel dicembre del 1967, a 32 anni, diventa il paziente selvaggio, non più domestico ma selvatico, e irrompe nello studio del suo ridicolo psicanalista, brandendo un magnetofono come fosse un’arma.

Il dialogo psicanalitico, come lo chiama Abrahams, è eloquente, fa bene Sartre a pubblicarlo.

Una settimana dopo, il ridicolo analista lo fa internare in manicomio.

Basaglia, ne Le conferenze brasiliane dice: dal punto di vista del sapere lo psichiatra è il medico più ignorante: non sa niente ma compensa questa carenza con il potere. Nel manicomio questo è evidente. Ci sono poi i vari psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri eccetera. Ognuno tenta di dare una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se noi parlassimo con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno cos’è la follia, e ciascuno ammetterà anche che la relazione con il paziente è una relazione di potere. L’esempio dello psicoanalista è il più tipico. Su questo problema del dominio dello psicanalista sullo psicanalizzato Abrahams discute in L’uomo col magnetofono. Un giorno un paziente va dallo psicanalista con il registratore e dice: questa volta chi fa la psicoanalisi sono io, lei è il paziente e io lo psicanalista. Lo psicanalista resta sorpreso, cerca di dissuaderlo, ci convincerlo a riprendere il suo posto, siccome il paziente si rifiutava, lo psicanalista prese il telefono e chiamò la polizia.

Basaglia usa Abrahams per dimostrare che la psicanalisi, non meno della psichiatria (da cui non si distingue così tanto, in termini di potere) è una pratica oppressiva.

Personalmente mi ritengo fortunato a non aver risposto alle sirene di questa disciplina, tanto superba quanto sopravvalutata, ho sempre contestato gli psicanalisti, claustrofilicamente chiusi nei loro studi d’avorio, staccati dalla vera sofferenza, dalla miseria, dalla merda, dalla feccia umana. Dai manicomi insomma, d’ogni sorta. Dalla sofferenza hard. Dalla miseria esistenziale di “chi non ha non è”, diceva Basaglia.

E continua: “Io non voglio offendere nessuno, ma qual è la differenza tra una prostituta che vende il suo corpo e il medico che si prostituisce nel suo ambulatorio, quando dovrebbe dare il massimo della sua attività alle istituzioni pubbliche?” “Gli psicanalisti hanno sempre una gran lista di attesa, come gli aeroplani”. Perché? Perché gli psicanalisti rispondono ai problemi di quella parte della popolazione che ha i mezzi per difendersi, e non certo ai bisogni dei miserabili, perché “chi non ha non è”, chi non ha il danaro non se la può pagare la terapia psicanalitica. Perché la psicanalisi è “terapia di classe”, “cosa ha fatto la psicanalisi per il malato mentale del manicomio nel corso di questo secolo?”

Affermazioni forti, apparentemente datate, ma non tanto. È a margine di queste e di questa critica della psicanalisi che, nelle conferenze in Brasile, Basaglia cita Abrahams. Come esempio del potere e della repressione non solo psichiatrica ma perfino psicanalitica.

Perché questo dialogo affascina Basaglia, e affascina Sartre? Perché capovolge i rapporti tra analista e analizzando, capovolge il rapporto di potere tra i due, e la violenza, che c’è, passa dall’altra parte. Lo psicanalista ridicolo, incapace di gestire l’irruzione nel suo studio del paziente col magnetofono, grida “Violenza fisica! Violenza fisica! Non sono abituato alla violenza fisica!”, così grida. A quella psicologica invece evidentemente ci è abituato, quella per cui obbligare per anni a stare steso sopra un lettino girato di spalle senza poter guardare l’espressione del volto del cosiddetto analista, depositario del segreto, della verità, del tempo della guarigione. Alla violenza dell’interminabile asimmetrica relazione psicanalitica a quella ci è abituato.

Dice Abrahams, nella sua registrazione: “Non si può guarire là sopra – al divano intende – e lei stesso non è guarito perché ha passato anni là sopra. Lei non osa guardare la gente in faccia. Lei mi ha obbligato a voltar le spalle e non è così che si può guarire la gente. Vivere con gli altri significa saperli guardare in faccia”. Continua: “Sono venuto da lei per molti anni due o tre volte a settimana e cosa ne ho ricavato? Lei ora sta raccogliendo quello che ha seminato con la sua ingannevole teoria”. Ancora: “Lei è un privilegiato, è venuto dopo di Freud, le hanno pagato gli studi, ed è riuscito a mettere una targa sulla porta! E adesso rompe le palle a un sacco di persone con il diritto di farlo. Lei è un fallito e non farà altro nella vita che rifilare i suoi problemi alle persone…”.

Ecco: uno psicanalista che a queste affermazioni riesce a balbettare solo: “Violenza fisica! Violenza fisica!” conferma di essere davvero un fallito.

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Non sembra un fallito, invece, lo psicanalista che analizza Alessandra Saugo. Lei raccoglie il testimone di Abrahams. E subito dopo muore, nel settembre del 2017, e dopo due mesi esce Metapsicologia rosa, il libro selvatico di questa selvatica apparentemente addomesticata analizzata riluttante. Il titolo forse non è il massimo, la copertina nemmeno, rosa nel titolo e rosa la copertina. Quello che c’è dentro però non è affatto rosa.

Lo scopro per caso, inizio a leggerlo, e mi pare subito una dichiarazione di guerra all’analista, o all’analisi, o a entrambi, o forse proprio al suo analista, a quello lì e non a un altro, e la cosa non è di poco conto, giacché questo suo analista, che lei per contrappasso metapsicologico analizza, ho come l’intuizione che potrebbe essere non un analista qualunque ma… l’analista, l’analista che psicanalizza la nazione.

Se Abrahams fu il gatto selvatico penetrato di forza nello studio di quell’inetto pavido pusillanime di analista francese, lei è la gatta selvaggia bolañiana che penetra sorniona e timida nello studio dello psicanalista della nazione, lo psicanalista del partito della nazione, lo psicanalista del condottiero della nazione, lo psicanalista che dalle pagine culturali del giornale della nazione analizza la nazione.

Lei è lì, che lo analizza. Che paga quattrini per analizzarlo.

Pure Abrahams pagò anni di quattrini per analizzare il suo. Lei non so per quanti anni paga quattrini. Ma tutto lascia credere che vada lì soprattutto per osservare, con quegli occhi suoi nucali (quei “due occhi allucinati dietro le spalle”), l’uomo “sciatto” che “sta lì”, che “intasca”, “in nero”, e “gigioneggia”, “sciatto”.

Mi colpisce il pagare, seduta dopo seduta, o meglio sdraiata dopo sdraiata, ma questa cosa non è un elemento di inferiorità e soggezione, al contrario, è un gesto di più che parità, perfino superiorità, io ti pago, tu mi ascolti, un gesto, quello della mano che a fine seduta puntualmente arraffa il danaro, “in nero”, dunque senza scontrino, senza ricevuta, e che lo rende molto pezzente, morto di fame, nonostante la fama. E quanto è anti-terapeutico – ammesso che l’analisi sia davvero terapeutica? – il gesto di prendersi pagato “in nero”?, questo è un argomento che nessuno, dallo psicanalista della nazione fino all’ultimo guru affronterà mai, nelle infinite supervisioni.

È chiaro che lei tra i due è la più forte.

Curiosità. Perché lei sceglie lui? Perché proprio lui? Il più famoso. Il più letto. Il più invitato. Il più pagato. Perché?

Lo psicanalista organico. Organico al partito della nazione. Lo psicanalista che seduce le platee. Lo psicanalista che fa l’endorsement. Lo psicanalista che psicanalizza la nazione.

Perché vuole guarire?

Ma no. Non è così sprovveduta.

Perché vuole scrivere di lui. Ecco perché. Lei lo paga, seduta dopo seduta, per studiarlo, registrarlo con quei suoi “due occhi allucinati e nucali”, vederlo in azione nel suo, là dove sta, “gigione, sciatto, narciso”.

E a mano a mano che vado avanti nella lettura di queste pagine lasche (e rallento fino a fare una pausa di molti giorni quando arrivo a metà libro, perché non voglio consumarlo, perché Saugo è un’autrice morta e chissà quando mi capiterà un altro suo libro, ammesso che ne verranno pubblicati degli altri) me la vedo questa donna dal carattere venuto su difficilino, che entra e esce dal confessionale dell’analista.

A un terzo del libro di poco più di cento pagine la gatta selvaggia in analisi descrive il suo transfert erotico, come lo chiamano loro, gli psi, quelli addestrati a difendersi dagli attacchi sessuali e che spesso non ci riescono – pare che la differenza tra il transfert erotico e quello erotizzato è che nel primo il paziente si capisce che vorrebbe ma non procede nel secondo ci prova apertamente perché è un perverso o un narcisista maligno che vuol distruggere l’analista. Dice “ostia io mi farei suonare invece di farmi analizzare, io mi farei accordare, con il suo archetto lui mi potrebbe sviscerare come e quanto gli pare. Gli darei soddisfazione, ho un suono… basta solo che metta le dita nelle posizioni giuste e tocchi la corda”. E prosegue “ah questa psicanalisi che mi toglie solo fuori dalla custodia… lui tiene l’archetto ma non lo affonda… è lì seduto dietro al mio corpo incustodito” e poi “qui è il posto sbagliato per mettersi a fare un concerto, ma so che sento che ne ho una voglia di suonare, da scoppiare”. E infine, e qui è bellissima la descrizione della curiosità impicciona dell’analista nazionale “vuole sapere che tipi erano i miei liutai, da che bottega salto fuori e quanti concerti mi hanno fatto fare, se mi hanno mai rotto, qual è il mio repertorio”. E conclude “Dottore: di fronte al tuo teoretikòn. La tua prosa armata fino ai denti è specializzata. Abbottonata. Di fronte alla tua prosa istruttiva protetta da trattatistica mi sento pescivendola scollata che sbraita le sue offerte fin troppo aulenti in preda a una glasnost rionale”. Applausi. Dieci minuti.

Abrahams e Saugo. Due esempi – e bastano loro, a questo punto – di contestazione della psicanalisi e del proprio psicanalista, aggressiva e violenta nel primo caso, infatti Abrahms si becca il manicomio, mite e sarcastica nel secondo, infatti Saugo non viene mica ricoverata, a quel che mi risulta.

Detto ciò, io non ho voglia di discettare di psicanalisi e delle magagne della psicanalisi di cui non mi frega niente e di cui, della psicanalisi intendo, penso tutto sommato abbastanza male. Filosofia confessionale. Omeopatia della sofferenza psichica. E si potrebbe andare avanti così ma penso si capisca.

E non voglio salvare gli psicanalisti da questo loro mestiere francamente inutile (inutile nel senso che se ne potrebbe fare a meno, senza colpo ferire) perché non li stimo, in generale, salvo quelli che si giocano la propria capacità relazionale e psicoterapica nei servizi pubblici, CSM, SPDC (non sui lettini, insomma, o sulle chaise longue) e che si confrontano con la grande psichiatria, non esclusivamente con la piccola sofferenza, e con le persone non abbienti, quelli che non avendo (danaro) rischiano di non essere (nessuno).

Ciò che penso, in accordo con Foucault (l’ho già scritto ne La società dei devianti) è che viviamo in una società sempre più confessionale, con l’ingiunzione a confessarci che ci aggredisce da ogni parte, e se progressivamente vien meno la prassi della confessione cristiana (o religiosa, in genere), e se conservandosi nei limiti della legge si riesce, forse anche per tutta la vita, a scansare la confessione giudiziaria, nell’ultimo secolo a queste s’è imposta la confessione psichiatrica, o, in generale, la confessione psicoterapeutica. E il medico, lo psichiatra che fu alienista, ora è lui il nuovo confessore, e l’ospedale è la sua chiesa, e il folle che delira, perché ha smarrito la verità, che vada in ospedale, da solo o di forza, e confessi allo psichiatra il suo delirio, e poi assuma come un’ostia i farmaci, li inghiotta, perché il reparto psichiatrico è non più, non solo il luogo della custodia sanitaria, ma il luogo dove si inghiotte: farmaci, parole, cibo, nicotina. Inghiotta e lasci trascorrere dieci o venti giorni, e ogni giorno ripeta la confessione, finché la verità non sia cambiata, finché il pensiero non sia più folle, finché il delirio che ha in testa non si sia estinto.

Ma non c’è solo la confessione del delirio del delirante. Cioè la confessione della follia più spinta. La confessione coercitiva, sotto ricatto, da TSO, o confessi il delirio, o inghiotti i medicamenti anti-delirio, oppure non esci, oppure non ti slego. Non c’è solo la confessione estorta. È sempre più imperativa, ormai, la confessione della vita normale della persona normale (e la storia di Abrahams costretto dal padre a confessarsi da quel ridicolo psicanalista per quasi tre lustri ce lo dimostra) (e il libro di Saugo che paga per dire parole a colui che sta lì “sciatto e intasca” ce lo conferma). Soggetto normale che è, sempre di più, indotto a percepirsi fragile, insicuro, vulnerabile, e perciò bisognoso di una diagnosi, di un nome, di un qualcosa che definisca la sua incertezza, e poi, forte della diagnosi, poter ricorrere alla confessione psicoterapeutica.

Eppure, nonostante l’apparente separazione tra lo studio borghese e il reclusorio manicomiale, questa psicanalisi, contestata da Abrahams e irrisa in modo adorabile da Saugo, è lo stesso ancella del manicomio. I suoi analizzati non adatti, quelli che non si adattano alla confessione psicanalitica, i contestatori, come Abrahams, là finiscono, in manicomio. Gli altri, quelli normali anzi più intelligenti e sensibili dei normali, come Saugo, quelli ce la farebbero pure senza. La psicanalisi non è alternativa al manicomio. La psicanalisi è un’altra forma del manicomio. Oppure è inutile.

Prima di concludere il libro di Saugo mi capita (per sincronicità, avrebbe chiosato quel volpone di Jung) un articolo apologetico su uno psicanalista definito di scuola lacaniana (per capirci: quelli che quando parlano ti fanno la supercazzola, per farti passare per scemo), che, ma questa è una mia fantasia, potrebbe essere dello stesso stampo di quello che ascolta Saugo e “gigioneggia”, e questo viene intervistato proprio nel suo confessionale, dove “tutto è secondo l’ordine che ti aspetti in questi casi. Il silenzio, il lettino, le luci basse, la tinta pastello dei muri. Nulla denota che, in realtà, stai entrando nello studio di un rivoluzionario della prassi medica, di un carbonaro della psiche, di un eretico della élite terapeutica più snob che esista. L’eresia di questo psicanalista sta nel pensare che la psicanalisi possa farsi cura alla portata di tutti”. Accidenti, non conoscessi i miei polli abboccherei anch’io e correrei a farmi psicanalizzare. Intanto ripenso: alla portata di tutti, e come?

Ma uscendo dalle torri d’avorio!, proclama l’analista eretico. E il chiavistello, per questa rivoluzione copernicana, sta nelle tariffe. Quelle del mercato vanno da 100 a 150 euro tre quattro volte a settimana. E il nostro psicanalista le considera immorali. Dice che così si fa una selezione naturale del paziente. E qual è dunque la sua proposta? E quale la parcella, dunque? Eh, lui ha deciso per questo di infrangere il tabù dei sacri testi – secondo cui sarebbe proprio la tariffa alta che incentiva il paziente alla guarigione, tu guarda che paraculi – e fare i conti con l’ostracismo della categoria, e fondare una onlus senza fini di lucro. Il cui fine è riassunto in uno slogan anarchico, nientedimeno: offrire terapie a basso prezzo. A ciascuno secondo i propri bisogni, da ognuno secondo le proprie possibilità, insomma. Sedute che al massimo costano 40 euro e studi che nascono in periferie. Solo in questo modo, sostiene, riesci a intercettare perfino il bisogno di cura dei migranti, e delle persone con problemi di droga, e con disturbi alimentari, eccetera.

A parte che ci sarebbero i Centri della Salute Mentale, che sono gratis in quanto servizi pubblici. Ma comunque. Vediamo, con soli 40 euro, più volte a settimana, lo psicanalista nazionale spin doctor del partito della nazione pensa di poter avere in cura, steso sul suo lettino, un migrante? Ah. Aspetta che finisco di ridere. Mettiamo che lo veda per una sola seduta a settimana. Sono 40 per quattro. Fanno 160 al mese. Psicanalista. Dico a te. Il migrante tu non lo vedrai mai, neppure col binocolo.

Questa è la dimostrazione – pleonastica – di come la psicanalisi sia il dispositivo adatto – esclusivamente – a quella che ieri chiamavano la classe borghese, e oggi potremmo dire la classe degli abbienti. Per gli altri, niente, inutile, non ci arrivano proprio. Ma lasciate i vostri studioli aromatici e calatevi nei servizi pubblici, CSM ambulatori consultori, mettete la vostra perizia confessionale al servizio del popolo, allora sì, sarete credibili in questo slancio da psicanalista per tutti.

Ecco come Saugo racconta la propensione del suo analista a entrare in rapporto col migrante, con gentilezza e garbo, dall’alto del suo carattere venuto su difficilino, gli dice “per strada e in televisione vorrebbe sempre cambiare il colore delle pupille di tutti. Poi non gli interessa niente altro che i caratteri delle persone… è un fanatico dei caratteri. Dei tipi psicologici. Il segreto delle persone sospinte verso i bordi delle strade… oppure rinchiuse nelle stanze senza partecipare al grande movimento generale che sa portarsi avanti e sa la direzione… lui pensa che il segreto è i caratteri”.

“Ha intravisto degli extracomunitari seduti sulle panchine… e si è sentito gonfio di impressioni su di loro come se li avesse incontrati veramente.” “Vuota retorica, teoria, porca teoria… bei paroloni, tutte cazzate, pavido, non li osserva, non ne sa niente…”.

“E i barboni, pensa, si stendono sulla pietra…” (e no sul lettino).

“E un pomeriggio che pioveva forte lui con sua moglie camminavano sotto gli ombrelli nel centro della città… e c’era un barbone… e il cielo gli buttava addosso tutta l’acqua. Allora questa sua fulgida moglie… al barbone… urlando… indicandogli i portici col dito… e il barbone… ma va’ in mona”.

Pare che l’ha pagato solo per studiarlo. Ma lui, l’avrà capito?

Ogni seduta, quante? Tre quattro a settimana o meno, per quanto tempo? Un anno due tre o quattro? La tariffa, in nero, ok, ottanta? Cento? Di più?

Quanto ha speso, mettiamo ottanta – arrotondiamo per difetto – mettiamo solo una volta a settimana – arrotondiamo per difettissimo – mettiamo solo per due anni – impossibile, ma facciamo finta – ebbene fanno circa tremila euro in nero all’anno, seimila euro per studiare lo psicanalista.

È stata in una posizione di forza assoluta. Io ti pago. Tu mi ascolti. Poi sei libero di “gigioneggiare”. Di sbadigliare. Di stare lì. Nel tuo. Di sgranocchiare la caramelluccia. Ma ricorda: sono io che ti pago. Sei al mio servizio. E non solo ti pago. Scriverò di te. Sarai il mio soggetto. Il mio personaggio.

Io non ho mai pagato nessuno per parlare. Io vengo dal basso come un montante, come disse mi pare Camus. E chi viene dal basso, se non è proprio coglione, non paga l’analista. Anche se si mette a fare – più o meno – il suo stesso mestiere. Non solo non avevo questa esigenza di ricostruire la mia storia, non solo non avevo sintomi che non riuscivo a domare da solo – ipocondria ossessioni anancasmi panico ciclotimie hai voglia, ma son cose che fanno parte della vita, e dopo un po’ le addomestichi pure senza lettino – ma non avevo neppure questa curiosità epistemica o letteraria di guardare l’analista stare nel suo e operare e agire e gigioneggiare e intascare il mio danaro in nero.

Anche perché, intanto, avevo un’altra quotidiana opportunità di osservare quegli altri terapeuti, gli psichiatri, agire nel loro luogo, nell’ospedale, stare accanto a loro, essere uno di loro, godere della loro fiducia, vederli in azione.

Vedere il loro scarso interesse curiosità comprensione per l’altro. Vedere la loro paura per le anormalità dell’altro. Vedere lo psichiatra che da soggetto che ascolta si trasforma di repente in soggetto che aggredisce e salta addosso e immobilizza e fa legare lo sragionante.

E allora ho provato a fare la stessa operazione di dileggio-del-cosiddetto-terapeuta che fa Saugo, li ho resi macchiette e li ho chiamati la iena, la fredda, il cinico, il prete, lo psicanalista, il biondo, il grigio, il giovane, la suorina, la gattamorta. I loro caratteri.

È divertente irridere psichiatri e psicanalisti. Fa bene.

Articolo tratto da  https://www.carmillaonline.com/2017/12/26/metapsicologia-dellinanalizzabile/

FramMenti di Barbara Garlaschelli

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Collana Sdiario, Edizioni del Gattaccio

La storia della psichiatria è storia degli psichiatri, non storia dei malati. (…)

Essa è storia dei potenti, dei medici, mai dei malati.

Conferenze Brasiliane (1979) di Franco Basaglia

Di Michela De Mattio

FramMenti è un libro di Voci.

A raccontare la propria storia sono gli utenti e gli operatori del CPS (Centro Psico Sociale) di Via Ugo Betti a Milano, un quartiere periferico ad alta densità di popolazione.

L’idea di far raccontare alla scrittrice Barbara Garlaschelli* cos’è un CPS è venutanel 2004 alla dottoressa Laura Bellini (psichiatra), al dottor Massimo Cirri (psicologo) e alla sua equipe. Volevano una Voce fuori campo che fosse priva del linguaggio medico-scientifico e del suo terrore semantico.

L’intento del progetto era quello di far comprendere alla gente fuori, quella considerata Normale, che non esiste un recinto dentro al quale vivono le persone affette da disturbo mentale, non esiste un Noi e un Loro, non esistono i Normali e i Folli, esistono solo le persone con le loro storie, le loro esperienze di vita, i loro sogni, i loro dolori e le loro speranze. Volevano far sapere che c’è una possibilità di cura anche per chi non ha mezzi finanziari tali da potersi permettere terapie private e che si può trovare un’altissima professionalità nel lavoro degli operatori che prestano servizio in un CPS come quello di Via Ugo Betti, una struttura che almeno in quegli anni era fatiscente, priva di mezzi e di risorse adeguate, ma che era nata dal desiderio degli operatori che ci lavoravano e non da un atto amministrativo e burocratico.

È iniziato così il viaggio della scrittrice milanese Barbara Garlaschelli che ha frequentato quel CPSper due anni e mezzo. Ha incontrato e si è relazionata con utenti affetti da disturbo mentale, infermieri, educatori, assistenti sociali, psicologi e psichiatri.

Quando alla fine si è ritrovata con una quantità enorme di materiale in mano ha deciso di non avere voglia di utilizzare il materiale per scriverne un romanzo. Aveva tra le mani Voci preziosissime e storie di vitasconvolgenti. Ha scelto di sbobinare le registrazioni e di mettere insieme quelle Voci, senza cambiarle, senza modificarle, riportando ciò che ogni persona le ha raccontato di sé.

Va detto che questo: per uno scrittore, non è un gesto usuale. È una scelta ben precisa quella di puntare i piedi davanti alla verità dopo averla vista. È un passo di danza a due per il quale serve la generosità di un autore che decide consapevolmente di accadere di meno e di mettere davanti a sé l’altro, il vero protagonista della propria storia. Ci vuole una grande nobiltà d’animo e una certa eleganza.

Molti di coloro che hanno contribuito alla realizzazione di FramMenti lo hanno fatto non solo con il racconto orale ma anche con l’apporto di scritti (poesie, pensieri, disegni) tutti riportati nel libro. Barbara Garlaschelli ha aggiunto brevi ballate e “fotogrammi letterari” di grande intensità.

Quando ho iniziato a leggere FramMenti ne ho percepito nell’immediato la potenza espressiva sia per come il libro è stato concepito e strutturato sia per le verità che custodisce. La prima cosa che mi è balzata agli occhi è il fatto che ogni capitolo porta il nome della persona che si racconta. Finché non si leggono le parole non è dato modo di sapere se si tratti della Voce di un utente o di quella di un operatore.

Il gesto compiuto dalla scrittrice è rivoluzionario, per qualcuno forse anche vertiginoso, perché presuppone che dal suo punto di vista non ci sia differenza non solo “tra chi sta fuori e chi sta dentro”, ma nemmeno tra chi è utente e chi è operatore.

Per me che sono cresciuta a Trieste e che fin da piccola ho frequentato il Parco di San Giovanni, che a Trieste mi sono laureata in Medicina e Chirurgica e poi specializzata in Medicina Interna è stato impossibile non ritrovare in FramMenti il senso più profondo del lavoro di Franco Basaglia, di Franco Rotelli e di Peppe dell’Acqua.

Franco Basaglia, al di là di ciò che a molti fa comodo pensare, non è l’uomo che ha chiuso i manicomi. È l’uomo che ha distrutto le barriere culturali che impedivano l’incontro e la relazione. Basaglia ha dimostrato che non è possibile costruire nulla se prima non si distrugge, se prima non si fa spazio. La sua parola d’ordine inoltre era “Comunicazione”.

Barbara Garlaschelli, con il suo modo di frequentare il CPS milanese, è riuscita a distruggere il muro di recinzione che ancora oggi, nel 2018, divide i sani dai folli e gli utenti dagli operatori. È stata capace di crearsi uno spazio per comunicare in maniera autentica, orizzontale con ogni persona che si è resa disponibile a raccontarle la propria storia.

La scrittrice, attraverso la comunicazione, è riuscita a rimettere in gioco la persona, dimostrando ancora una volta quanto sia vero ciò che Franco Basaglia ha affermato: “L’avvicinamento a una persona che soffre dev’essere un compito che trascende la figura semplice e banale del medico che ha imparato determinate tecniche, il suo avvicinarsi dev’essere dialettico, dev’essere una presa di coscienza che il malato è l’espressione di una nostra contraddizione. È l’espressione sia di una contraddizione sociale che di una contraddizione medica.”

Quando si lavora per sottrazione, d’altronde, parlando con le persone, ascoltando le loro storie, le persone vengono curate e si curano perché iniziano ad aprirsi a delle possibilità diventando “un corpo nel mondo” e un corpo aperto al mondo. E quando un corpo si apre al mondo (come la stessa scrittrice fa notare), anche affermare che una persona è schizofrenica, un’altra è psicotica, un’altra ancora è border-line, perde di senso. Spingono a riflettere le parole di Silvana quando afferma: “Ma perché se sento le voci io mi dicono che sono schizofrenica e quando lo hanno detto a Mejugorie ci hanno fatto i peregrinaggi?”

La profezia della diagnosi in FramMenti cade nell’immediato e si frantuma poiché il protagonista diventa la vita e la sua narrazione che sono di una mutevolezza che stupisce e commuove a ogni parola letta. Nel momento in cui riconosciamo la persona, diventa impossibile non riconoscerla all’interno di una relazione, all’interno di un contesto.

In FramMenti c’è di sconcertante il fatto che nessuno parla di guarigione. Non ne parlano gli operatori e di conseguenza nemmeno gli utenti. Parlano di “convivere con la malattia”. Le persone che si raccontano a Barbara Garlaschelli quando si riferiscono alla propria “malattia” (perché è così che la chiamano) si identificano con essa inserendosi in modo automatico in categorie prestabilite, in categorie diagnostiche delle quali hanno imparato segni e sintomi. Accade così che identificandosi con la propria malattia ogni essere umano si appiattisce fino a scomparire.

Solo quando le persone si sentono accolte da Barbara Garlaschelli iniziano a raccontare la propria storia personale permettendosi di ritornare a essere ciò sono: soggetti, tutti diversi tra loro. Individui responsabili, pieni di dignità, protagonisti di una storia unica e irripetibile.

Ecco allora che FramMenti palesa in modo inequivocabile quanto siano ancora potenti le scale diagnostiche e le definizioni mediche in ambito sanitario. Sono queste a crollare addosso alle persone e a frantumargli il cranio, non il disturbo mentale. FramMenti è una testimonianza di quanto l’omologazione di uno sguardo scientifico che accoglie anche chi non si occupa di scienza appiattisca tutto, appiattisca la persona, reifichi il soggetto. Ed è l’appiattimento, non il disturbo mentale a portare alla fine, una fine dalla quale non si esce. Le scale diagnostiche sono quelle che si imparano all’Università prima ancora di instaurare un qualsivoglia approccio relazionale con i pazienti. Il problema non è la scala diagnostica in sé, ma la separazione che essa genera. Quando c’è separazione, la dignità dell’individuo scompare. E anche oggi nel 2018 possiamo affermare che troppi psichiatri e troppi medici in generale, purtroppo, non hanno ancora capito che è sotto e dentro le scale diagnostiche che muoiono tutti i soggetti.

FramMenti di Barbara Garlaschelli è un libro rivoluzionario anche perché rivela ciò che oggi manca più che mai:la cultura del lottare davvero contro lo stigma che altro non è se non l’impedire che le persone con disturbo mentale si identifichino con la propria malattia. È l’identificazione che porta a spingere la persona fuori, lontano dal mondo, e le periferie dell’anima come le definisce Eugenio Borgna sono i luoghi in cui oggi vengono spinte le persone. Luoghi in cui viene esercitato un controllo ancora più brutale rispetto a quello dei manicomi. Ne parla Massimo in Frammenti quando dice che “I manicomi erano i depositi degli scarti, i CPS hanno il mandato sociale di essere il luogo della gestione degli scarti, il luogo della rassegnazione”.

Barbara Garlaschelli, costruendo questo puzzle di Voci, comprova ciò che Peppe Dell’Acqua afferma da almeno trent’anni. Si tratta del fatto che “Guarire si può”.

Guarire si può significa che la cura ha a che vedere con una progressiva sottrazione di strumenti e di percorsi lesivi per la persona. Il disturbo mentale, come emerge in modo potente in questo libro, ha a che vedere con dei meccanismi istituzionali spesso di una violenza inaudita che nulla hanno a che fare con la sofferenza dell’essere umano.

Tuttavia ciò che non va dimenticato è che “Guarire si può” nasce da un punto di partenza antecedente e imprescindibile: ovvero che “Impazzire si può”. Dice Peppe dell’Acqua in un’intervista: “Impazzire deve essere possibile perché impazzire significa avere la possibilità di farcela, di stare nel sociale, di abitare e di vivere la vita. Basaglia quando parlava di una società che ha al suo interno la follia non stava dicendo nulla di diverso da questo. Ma perché questo avvenga è necessario un cambiamento culturale.”

FramMenti è un libro importante proprio perché costruisce ponti, legami, diffonde conoscenza e cultura.

E infatti in queste pagine di Barbara Garlaschelli riaffiora l’importanza dell’artigiano del pensiero, dello scrittore, dell’intellettuale. Un ruolo che torna a essere fondamentale dopo anni di silenzio, fatta eccezione per la Collana 180 che continua senza sosta a produrre cultura.

Questo è quello che negli anni ‘70 ha fatto Franco Basaglia, che da tantissimi anni fa Peppe dell’Acqua ma che un tempo facevano altri intellettuali: Jean-Paul Sartre, Paul-Michel Foucault, il giornalista scrittore Sergio Zavoli. Loro Diffondevano conoscenza.

FramMenti di Barbara Garlaschelli diffonde conoscenza e nel farlo evidenzia ancora un volta ciò che manca: che dovrebbero essere gli stessi operatori sanitari (medici, psichiatri, infermieri, educatori, assistenti sociali, psicologi) mezzo, ponte per costruire una nuova cultura e di conseguenza una nuova dialettica capace di accogliere, di toccare, di aprire a una relazione autentica.

Ciò che ha permesso la rivoluzione degli anni ‘70 è stata la cultura, non la medicina.

È stato il cambiamento culturale a permettere a coloro che erano stati rinchiusi in manicomio di tornare a essere persone, soggetti, cittadini.

La Medicina era ed è rimasta conservativa, reazionaria.

Oggi siamo dotati di uno strumento legislativo che è molto più avanzato della sensibilità diffusa. Le politiche di questo Paese fanno leva sui temi della paura, della chiusura, della diffidenza, del pensare a come difendersi dall’altro. Aver paura dell’altro significa aver paura di perdere quel poco o tanto che si ha. Ed è una paura che non conosce distinzioni di classe, che investe in modo trasversale tutto il tessuto sociale, da quello più abbiente a quello più disagiato.

La paura, un’emozione dall’innesco facile, un virus rapido, irrazionale e contagioso che confina e stigmatizza l’essere umano. Contro questa paura Franco Basaglia ha combattuto più che contro qualsiasi altra cosa.

Barbara Garlaschelli, frequentando il CPS milanese di Via Ugo Betti, ha combattuto quasi quarant’anni dopo contro la stessa paura, scavalcando il disturbo mentale e recuperando tutto ciò che di umano c’è sotto una crisi, un conflitto, un disturbo, un dolore.

Mi capita di sorridere quando sento molte persone affermare: “Io sono basagliano”. Sono in molti i medici che si nascondono dietro al nome di Franco Basaglia e sono ovunque. Essere basagliano oggi non significa nulla. Questa è un’espressione ormai corrosa che si colloca al limite del ridicolo. Il Basaglia che manca a tutti noi, a chi lo ha conosciuto, a chi lo ha letto e studiato, è l’uomo con il suo pensiero critico. Manca la sua apertura a nuove possibilità, la sua ricerca continua, il suo modo di fare cura, di fare riabilitazione, di prendersi carico della persona con tutto ciò che è.

La bellezza che sottende a FramMenti è che nasce da un pensiero critico, da una possibilità ed è anche per questo che è un libro così prezioso e fondamentale è la sua ripubblicazione e diffusione in questo preciso periodo storico. In Italia oggi, in 8/9 su 10 dei circa 320 servizi psichiatrici di diagnosi e cura, la contenzione è pratica diffusa. Questo dato è stato accertato nel 2005 dall’Istituto Superiore della Sanità e a distanza di quasi tredici anni nulla è cambiato. Lo racconta bene Claudia che giunge al CPS di via Ugo Betti dopo essere stata ricoverata in uno dei tanti SPDC degli ospedali Milanesi. Queste strutture di diagnosi e cura sono tutt’ora più violente della manicomialità. Gli SPDC a porte chiuse sono i veri crimini di pace che ogni giorno si compiono. Le persone ancora oggi, in questi luoghi, vengono bunkerizzate, spesso legate preventivamente a letto, riempite di farmaci e quindi abbandonate alla propria sofferenza. Si tratta di un abbandono che è anche una fine. Una fine decisa da qualcun altro.

Questa è la vera lesione del diritto e l’annullamento delle infinite possibilità di farcela di un individuo che si ammala. Questo è il tradimento dell’operatore sanitario verso la persona. L’operatore sanitario che esercita un potere distruttivo nei confronti delle persone utilizzando programmi terapeutici standardizzati su un’idea di malattia e mai sulla persona.

FramMenti è un libro che dovrebbero leggere tutti.

FramMenti è Lo Sguardo che ci manca e che illumina ciò che una grande fetta di mondo cerca di nascondere.

*BARBARA GARLASCHELLI

Nata a Milano nel 1965. Laureata Lettere Moderne all’Università Statale di Milano con una tesi sul teatro a Milano visto attraverso il giornale Il Secolo, dal 1900 al 1906. Tra i libri che ho pubblicato: O ridere o morire ( Marcos y Marcos, 1995; Todaro editore, 2005); Nemiche(Frassinelli, 1997); Alice nell’ombra (Frassinelli, 2002; Ottolibri, 2014); Sorelle (Frassinelli, 2004; premio Scerbanenco 2004); Frammenti (Mobydick, 2007; Edizioni del Gattaccio, 2017). Il romanzo Non ti voglio vicino (Frassinelli, 2010) è stato tra i dodici finalisti deI premio Strega 2010 e ha vinto i premi: “Matelica – Libero Bigiaretti 2010”; premio Università di Camerino e premio Alessandro Tassoni 2011; Premio letterario Chianti 2012; Lettere dal’orlo del mondo (Ad est dell’equatore, 2011); Carola (Frassinellli, 2013); Non volevo morire vergine (Piemme Voci, 2017). Molti racconti sono pubblicati su varie antologie e riviste. Alcuni libri sono stati tradotti in Francia, Spagna, Portogallo, Russia, Olanda.

Ha diretto la collana I Corti per la casa editrice EL.

Vice-presidente dell’Associazione culturale Tessere Trame e uno di direttori editoriali della collana Sdiario, Edizioni del Gattaccio.

L’ultimo libro è un’autobiografia Non volevo morire vergine, uscito a marzo 2017 per Piemme Voci.

Nel novembre 2017 è stato ripubblicato FramMenti per la collana Sdiario, Edizioni del Gattaccio.

Storie Interdette – Un bando per giovani teatranti

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Logo-sito_Bando2Il gruppo teatrale chille della balanza invita giovani attori a cimentarsi con ricerche e narrazioni sul tema della salute mentale oggi

San Salvi, città aperta, accoglierà eventi teatrali e dibattiti nel corso di questo speciale anno.

Storie interdette è un Bando Nazionale con premio annesso dedicato alla giovane creazione contemporanea nell’ambito delle arti drammaturgiche e performative. Il Bando si pone come occasione di visibilità e di riflessione per i giovani.

A 40 anni dalla Legge Basaglia Storie interdette intende favorire la consapevolezza dei giovani sul percorso di superamento del manicomio e così aiutare a trovare risposte ai problemi dell’attuale società.

Lo scopo del bando è selezionare 4 idee progettuali da sviluppare in un seminario di una settimana che si svolgerà da lunedì 5 a domenica 11 marzo 2018 nella Residenza di San Salvi Città Aperta (Via di San Salvi, 12 padiglione 16 Firenze) al fine di elaborare 4 messe in scena, che verranno narrate/performate al pubblico dai candidati durante il “Festival Storie interdette – Fare comunità” a Firenze San Salvi da venerdì 11 a domenica 13 maggio 2018. Nell’occasione avverrà la relativa premiazione dei vincitori del bando che prevede i seguenti premi: 500€ al primo classificato, 300€ al secondo, menzione agli altri due partecipanti. Le prove di preparazione al Festival saranno da martedì 8 a giovedì 10 maggio.

Bando completo e come partecipare … http://www.chille.it/bandi/bando-storie-interdette/


Senato: riapre il cantiere DDL2850

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senato-aula-parlamento-palazzo-madama-ansa-672x351Seminario di approfondimento

su iniziativa delle Sen. Nerina Dirindin e Emilia Grazia De Biasi

Salvaguardare e promuovere la salute mentale: Un’occasione di ascolto e confronto



Giovedì 1 febbraio 2018, ore 14,00 – 19.30

Sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro (ISMA) – Roma, Piazza Capranica, 72

A 40 anni dalla 180, una legge che ha reso l’Italia punto di riferimento internazionale  per l’assistenza alle persone con disturbi mentali, appare necessario promuovere un ampio confronto fra tutti i soggetti che conoscono la realtà nel nostro Paese e si impegnano per la tutela dei diritti delle persone, per rilanciare i principi fondanti della L. 180/1978, promuovere le condizioni per una sua concreta attuazione, superare le difformità territoriali e favorire il superamento delle attuali carenze applicative.

Intervento introduttivo di Nerina Dirindin

Considerazioni conclusive di Franco Rotelli

Sono invitati ad intervenire, o ad inviare contributi, le associazioni di familiari, di persone con esperienza,

associazioni e cooperative sociali, professionali, operatori, società scientifiche, rappresentanti istituzionali

delle Regioni e delle Aziende Sanitarie.

Segreteria organizzativa: tel: 06. 6706 4129 – 3837

L’accesso alla sala, con abbigliamento consono e, per gli uomini, obbligo di giacca e cravatta, è consentito fino al

raggiungimento della capienza massima.

Sanità: sì preliminare al Piano regionale salute mentale

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Udine, 25 gen – Strutture territoriali e più vicine ai bisogni dei malati, Centri di salute mentale sulle 24 ore più efficienti e una rete di cura omogenea a livello regionale.
Sono gli obiettivi principali del Piano regionale della salute mentale, infanzia, adolescenza ed età adulta 2018 – 2020 approvato in via preliminare dalla Regione.
Il Piano muove da un’accurata analisi dell’attuale situazione dei servizi per la salute mentale che trovano in Friuli Venezia Giulia un modello organizzativo all’avanguardia, radicato fin dagli anni ‘60 nell’esperienza di Franco Basaglia. Ciononostante i servizi, soprattutto quelli riferiti all’età evolutiva, si sono nel tempo articolati in maniera eterogenea sul territorio, dove si misura anche una presenza diversificata di neuropsichiatri, l’assenza di un sistema informativo unico e di un osservatorio epidemiologico dedicato.

Il Piano intende innanzitutto, sul cardine della riforma della sanità, migliorare l’integrazione tra cure primarie e specialistiche e i relativi percorsi di cura, tenuto conto che la cura dei disturbi mentali “comuni” ha un altissimo impatto sui servizi. In particolare dovranno essere costruite relazioni stabili tra gli operatori dei Centri di salute mentale e i medici di medicina generale, sia nella prevenzione che nella presa in carico e cura dei pazienti.

Il Piano si prefigge inoltre di implementare la rete regionale integrata per la prevenzione, l’identificazione precoce, la diagnosi, la cura e l’abilitazione/riabilitazione rivolta a minori con disturbi neurologici, neuropsicologici e psicopatologici e disordini dello sviluppo psicologico, cognitivo, linguistico, affettivo e relazionale.

Una parte del Piano è dedicata alla definizione di percorsi di transizione delle cure dall’età pediatrica a quella adulta, coinvolgendo i diversi attori della rete territoriale, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, neuropsichiatrie dell’infanzia e dell’adolescenza e Dipartimenti di salute mentale, per una presa in carico integrata.

Con questa visione ritrova centralità il “progetto terapeutico riabilitativo individualizzato”, un percorso di cura coerente con i bisogni della singola persona, in cui sono coinvolti servizi sanitari, enti locali e operatori del terzo settore. I percorsi riabilitativi si fondano principalmente su tre assi principali: casa, scuola/lavoro e socialità e possono essere finanziati anche attraverso il Fondo per l’autonomia possibile. Altre esperienze positive che il Piano evidenzia sono quelle dell’abitare inclusivo, che ha permesso una progressiva riduzione delle residenze che ospitano persone con disturbi psichici (da 31 nel 2004 si è passati a 23 nel 2016, con una riduzione del 23%) e dei posti letto dedicati (dai 210 del 2004 ai 152 del 2016, con una riduzione del 26%), a favore di nuove forme di domiciliarità che favoriscono il superamento del disagio psichico e il reinserimento sociale. Allo stesso modo agiscono i tirocini inclusivi, che offrono opportunità dirette di inserimenti nel mondo del lavoro e acquisizione di competenze.

Ampio spazio è dedicato alla formazione e ricerca: la Regione intende promuovere programmi di ricerca scientifica innovativa che possano valorizzare le esperienze regionali in materia di salute mentale, in particolare nelle buone pratiche in ambito di cure orientate al recupero, nell’appropriatezza degli interventi farmacologici a livello di cure primarie in età adulta e pediatrica, nella riabilitazione psicosociale e nella prevenzione del suicidio.

Il Piano detta, inoltre, le linee guida per la gestione dell’emergenza, la prevenzione del suicidio e il trattamento delle patologie connesse all’uso di sostanze psicotrope e delle patologie da dipendenza. Si prevede, infine, entro il 2020 lo sviluppo e l’adozione di un sistema informativo unico per la salute mentale, da adottare sia nei servizi dell’adulto, che in quelli dell’infanzia e adolescenza, per favorire una maggiore capacità gestionale e programmatoria.

In Friuli Venezia Giulia le persone seguite dai servizi dei Dipartimenti di salute mentale sono circa 20 mila di cui il 60% sono donne (dati 2016). Le classi di età prevalenti sono quelle comprese tra i 30 e i 49 anni e tra i 50 e 69 anni. I disturbi più diffusi sono quelli dello spettro psicotico (schizofrenia sindrome schizotipiche e deliranti), le sindromi affettive (disturbi di umore) e quelle legate allo spettro ansioso (fobie correlate a stress) che assieme rappresentano più dei tre quarti di tutte le diagnosi. Per la salute mentale degli adulti, i Dipartimenti di salute mentale della Regione hanno investito nel 2016 oltre 63 milioni di euro.

http://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/

Intervista a Rotelli su Basaglia e la 180

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unnamedFranco Rotelli: «40 annni fa chiudemmo i manicomi. Basaglia, un pensiero incancellabile»

«Una cosa è certa: i manicomi non torneranno mai più. È una brutta storia finita per sempre grazie alla legge 180 che il 13 maggio compie 40 anni». Franco Rotelli è uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana, uno dei giovani che negli anni 70 insieme a Franco Basaglia costruisce qualcosa di straordinario per l’Italia e per il mondo: chiudere i manicomi e cambiare completamente l’idea che si ha della psiche, della normalità e della malattia. Un salto culturale e sociale che, con tutti i limiti, è ancora vivo: «È – commenta Rotelli – una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68». Nel 2013 è stato eletto con il Pd nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Per dieci anni è stato direttore generale dell’azienda sanitaria di Trieste, attualmente presiede la commissione Sanità e politiche sociali della Regione.

Quando incontra Basaglia?

Lo ho conosciuto nell’ospedale psichiatrico di Parma, mi ero appena laureato. Nel ‘ 71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente di centrosinistra, Michele Zanetti, che vuole effettivamente cambiare le cose. Io lo seguo.

Quale situazione trovate?

Trieste sconta in quegli anni il problema degli esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese: un conto era vivere nelle campagne istriane negli anni Quaranta un altro vivere in città negli anni Cinquanta. Arriviamo in un manicomio con 1300 persone in una città che avrebbe dovuto averne molte di meno. Le immagini che ci troviamo davanti sono quelle terribili, immortalate nelle fotografie dell’epoca. Sbarre, contenzione, elettroshock.

I famigerati manicomi: quale legge li regolava?

Era in vigore la legge del 1904, che stabiliva condizioni oggi impensabili: prevedeva che tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico fossero da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura.

Che cosa decidete di fare?

Cambiare non era facile. Ma a nostro favore c’era l’esperienza di Gorizia, precedente a quella di Parma, che aveva assunto molta importanza a livello nazionale e il successo del libro di Basaglia, pubblicato nel ‘ 68, L’istituzione negata. Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile fino ad allora, qualcosa di irripetibile. La carta bianca viene presa sul serio da Franco che ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. Il clamore mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati.

C’è un legame con i movimenti anti autoritari e studenteschi che in quegli anni stanno cambiando la società italiana?

Succede che da un luogo chiuso, oppressivo come il manicomio, nasce un’ondata liberatoria: una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68. Quella generazione di scalmanati riesce a cambiare la realtà dei manicomi, assumendosi grandi responsabilità. Si aprono i reparti, si mescolano uomini e donne, si apre l’ospedale all’esterno. Si modifica lo statuto giuridico delle persone ricoverate. Una piccola legge del ‘ 68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che – anche se ricoverato – dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero.

Un fatto passato alla storia è quella di un gigantesco cavallo di legno e cartapesta che viene portato in corteo da ospiti, medici, volontari. Si rompe il muro di separazione tra interno ed esterno. Ricorda quel giorno?

Marco Cavallo, questo è il suo nome, viene costruito da Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia insieme alle persone che partecipano ai laboratori nati all’interno dell’ospedale. Nel ‘ 73 si attraversa la città: è la rappresentazione scenica del cambiamento che si sta attuando. La città reagisce con interesse, ma le resistenze non sono poche. Il quotidiano Il Piccolo scrive contro di noi articoli molto violenti. Il Pci vuole e non vuole, approva e non approva quello che stiamo facendo. Allora il Pci a Trieste contava molto, era il partito di Vidali con migliaia di iscritti.

Questo dissenso crea una battuta d’arresto?

Assolutamente no. Noi andiamo avanti. C’è un clima da “liberazione”: ogni giorno leviamo qualche vincolo, combattendo contro la paura delle gente e contro le regole. E costruiamo una forma di welfare artigianale: nascono le prime cooperative sociali di persone ricoverate. Fino a quel momento, lavoravano ma senza essere retribuiti. Gradualmente si crea un sistema di protezione sociale. Le persone iniziano a uscire, a trovare casa, a farsi una vita anche senza avere una famiglia.

Qual è la sfida a quel punto?

Alla fine del ‘ 73 non era chiaro se si dovesse riformare l’ospedale psichiatrico – umanizzandolo, abbellendolo e rendendolo più civile – o farlo fuori. Questa opzione fu chiara alla fine del ‘ 74. Pensammo: va distrutto. Altrimenti l’esclusione sarebbe rimasta come elemento fondante.

Era un periodo di grandi discussioni, di un lavorìo intellettuale oggi forse incomprensibile. Ricorda altre querelle?

Un altro dibattito riguardava “il dopo”. Secondo alcuni la malattia mentale non esisteva, era solo una conseguenza del malessere sociale. Noi eravamo convinti che i manicomi andassero chiusi, ma che si dovessero costruire servizi sufficientemente forti nel territorio: servizi che aiutassero le persone a curarsi e a vivere una vita dignitosa. Non volevamo buttare la gente in strada. Volevamo buttare via i manicomi. Dicevamo: le persone vanno curate, assistite, in un altro modo, con un altro paradigma, ma vanno aiutate! In California, negli stessi anni, chiudono i manicomi e le persone finiscono per strada senza alcun sostegno. Oggi fanno i conti con quella scelta e sono venuti da noi a studiare cosa è stato invece fatto in Italia.

Arriviamo così al 13 maggio del 1978, giorno in cui viene approvata la legge 180 che abolisce i manicomi. Che cosa succede?

Il gruppo originario che lavorava con Basaglia, non si muoveva solo in ambito psichiatrico. L’idea era quella di cambiare in generale la qualità della vita, la democrazia di questo Paese, di allargare le sue regole. La sfida era quella di spostare i confini della cosiddetta normalità. Quando arriva la legge che consente di chiudere i manicomi è un passo importante. Ricordo che quando fu approvata fummo sorpresi anche noi, non ce l’aspettavamo che potesse arrivare. Lo stesso Basaglia fu sorpreso dalla velocità con cui fu approvata. Moro era stato da poco ucciso. Questa drammatizzazione portò a una accelerazione impensabile fino a quel momento. Quando arriva la 180, noi abbiamo ancora 500 persone nell’ospedale psichiatrico. Fu molto bello, anche perché eravamo giovani.

Come ricorda quei giorni?

Pochissimi mesi prima dell’approvazione della legge, andammo a occupare una casa. Basaglia non era d’accordo. Ci fu uno scontro all’interno dell’equipe tra chi voleva affrettare le cose sul piano concreto e Franco che temeva ripercussioni negative. Diceva: “State fermi, non rompete troppo, e non estremizzate delle pratiche che rischiano di creare fratture politiche”. Aveva capito che la legge stava per essere approvata. Tutto era messo in discussione: le carceri, le case di riposo, le politiche per i minori – all’epoca c’erano gli orfanotrofi – le classi speciali.

Si mettono in discussione anche i concetti di normalità e di malattia…

La parola malattia applicata a queste questioni è una forzatura, questo non vuol dire che non esista qualcosa che si possa definire malattia, ma solo se diamo un valore relativo a questa parola. Non esiste lo schizofrenico, esistono persone che hanno disturbi schizofrenici. E non è la stessa cosa. Perché se una persona ha dei disturbi schizofrenici, tu puoi parlarci, vedere che cosa puoi fare. Se invece hai davanti lo schizofrenico, hai davanti una totalità che aggredisci riempendolo di farmaci o usandogli violenza. Dire schizofrenico è quindi un semplicismo, ma lo è anche negare che esista un problema di salute mentale. Un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento, una stigmatizzazione, la perdita del lavoro. Se non contrasti tutto questo insieme non risolvi granché. Si deve fare in modo che le persone non precipitino: si deve cioè garantire loro una socialità invece che bombardarli di farmaci.

Come è oggi la situazione italiana?

Rispetto agli anni Sessanta gli aspetti deteriori sono venuti meno. E’ stata assimilata l’idea che i manicomi non si riaprono. Il clima culturale da questo punto di vista è cambiato. E non si torna indietro. Si tratta di un cambiamento irreversibile. Ma mancano i servizi. I centri di salute mentale sono aperti poche ore al giorno e sono chiusi il sabato e la domenica. C’è molto da fare.

Come rilanciare la sfida al cambiamento?

Noi abbiamo elaborato una proposta di legge per il nuovo Parlamento, firmata da Pd e da Liberi e Uguali che presenteremo il 1 febbraio in una conferenza stampa al Senato. Parla di servizi e dice che bisogna destinare il 5 per cento della spesa sanitaria alla salute mentale. I centri di salute mentale devono restare aperti sempre, perché non è che si diventa matti solo i giorni feriali, si ribadisce che la contenzione fisica è proibita, che bisogna sostenere di più le cooperative sociali, i piccoli appartamenti protetti per un numero limitato di persone e che ogni azienda sanitaria deve avere un centro di salute mentale con un budget proprio.

Quindi la legge 180 non si tocca?

Assolutamente non si tocca. La legge 180 resta così. Quella che presentiamo è una legge attuativa della 180. Quando nel 1904 fu approvata la legge per costruire i manicomi, nel 1909 ci fu un regolamento applicativo molto preciso. Con la 180 questo è mancato. Alcune regioni hanno fatto buone leggi, altre no. C’è stato qualche piano nazionale. Ma si tratta di strumenti molto deboli. Noi proponiamo una legge che rafforzi la governance.

A Trieste però ce l’avete fatta, il progetto continua…

Sì ci siamo riusciti sia con le giunte di centrosinistra sia con quelle di centrodestra. È abbastanza dura, perché le regressioni ideologiche sono a portata di mano, perché le logiche di esclusione sono sempre immanenti, la farmacologizzazione dei problemi è sempre la via più semplice, perché le risorse vanno conquistate con le unghie e con i denti. Ma abbiamo resistito: ci sono quattro centri di salute mentale, aperti 24 ore al giorno, una rete di piccoli appartamenti, una rete di cooperative sociali, abbiamo vari laboratori di pittura, teatro, arte, manufatti vari.

Dagli anni Settanta lei ha a che fare con la sofferenza, con il dolore, con tanti problemi. Come ha retto?

Noi abbiamo avuto la fortuna di vivere una dimensione collettiva, siamo stati un gruppo molto ampio, con molti ricambi e un forte legame affettivo oltre che professionale. Negli ultimi anni si fa più fatica, perché tutto è più istituzionalizzato e si è spinti verso la solitudine, l’individualismo. Ma aver mantenuto in piedi servizi abbastanza forti, ha consentito una ossigenazione continua, anche se c’è sempre la preoccupazione che tutto questo possa venire meno.

Ma Basaglia non è stato dimenticato?

La storia che lui rappresenta è come un fiume carsico: sparisce e poi ricompare là dove meno te lo aspetti. Siamo per esempio sorpresi dall’interesse che ci viene mostrato dall’estero, da gruppi di studiosi che vogliono conoscere quello che abbiamo fatto. A volte sono gli stessi governi a mostrare interesse, come è accaduto per il Brasile ai tempi di Lula. I problemi più drammatici di questa storia sono stati superati, quindi essendo meno drammatici sono anche meno evidenti. Il fatto, per esempio, che si sia riusciti a superare gli ospedali psichiatrici giudiziari, anche se con soluzioni che vanno tenute ancora sotto osservazione, è accaduto negli ultimi anni. All’epoca non c’eravamo riusciti.

A quarant’anni dalla caduta del muro di Collegno e dalla legge Basaglia

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Un incontro con Peppe Dell’Acqua, Giuliano Scabia, Renato Sarti e Massimo Cirri.

L’incontro si terrà al Polo del ‘900 in Via del Carmine 14 dalle ore 17 alle ore 20 con il seguente programma.

  • Saluti Direttore Fondazione Piemonte dal Vivo Matteo Negrin e Direttore Polo del ‘900 Alessandro Bollo (5’)
  • Presentazione dei relatori (a cura di Massimo Cirri) e breve introduzione di Peppe Dell’Acqua (15’)
  • Visione di un estratto de LA FAVOLA DEL SERPENTE https://www.youtube.com/watch?v=McM9w2t2lv8 (20’)
  • La parola ai teatranti, Renato Sarti e Giuliano Scabia: Il sentiero del teatro dentro la follia (30’)
  • Visione di estratti video dell’uscita di Marco Cavallo dal manicomio di Trieste (20’)
  • Un salto all’oggi, che situazione vivono coloro che si occupano del disagio mentale e come vivono i pazienti? Visione di Navighiamo a vista di Erika Rossi e Piero Passaniti (2007) https://www.youtube.com/watch?v=cCcFyhS5HuI Il lavoro mostra una giornata tipo di 24 ore degli infermieri che lavorano con i disabili psichici oggi nei Centri territoriali di salute mentale di Trieste (30’)

Morire di classe, il GR1, il Ddl 2850: Cosa accadrà adesso?

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Di Peppe dell’Acqua

“Il mio amico Goffman mi diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo perché la scena e le quinte non cambiano mai. Si troverà sempre col suo schizofrenico, col suo infermiere, col suo assistente o col suo direttore.” Così Franco Basaglia per commentare quanto riportava dai suoi viaggi, ma soprattutto per dire dell’immutabilità e della ripetitività di quei luoghi. Di paese in paese e di tempo in tempo i manicomi restano immutabili. Atteggiamenti, posture, sguardi, orrori, sempre gli stessi quelli che Basaglia troverà entrando a Gorizia e ancora gli stessi dieci anni dopo  quando io sono entrato a Trieste nel 1971. Gli stessi che ho visto di recente in Europa entrando negli ospedali psichiatrici di diversi paesi (si, ci sono ancora!).

La scorsa settimana, stavo sfogliando “Morire di classe” in preparazione di un incontro con gli studenti di un liceo, al GR1 3 brevi servizi “per cominciare a ricordare i 40 anni della legge 180”. Tre reportages il primo da Roma che senza mezzi termini riferiva dell’incolmabile carenza di personale, delle numerose cliniche e strutture private costosissime e produttrici di cronicità e abbandono, delle porte chiuse, grigiore e violenze e dell’eterno grido di dolore di una madre (il riconfermato Zingaretti vorrà fare qualcosa ?). Il secondo dal Veneto per dire della protesta dei familiari che vedono i loro figli annientati da fiumi di psicofarmaci e ancora cronicità, centri diurni infantilizzanti, porte chiuse, contenzioni. Il terzo da Reggio Calabria. Qui mi mancano le parole. La giornalista ha parlato di scarafaggi, di lividi, di braccia rotte. Di “reparti psichiatrici” situati nei luoghi più cupi e osceni degli ospedali civili. Di assenza totale di una qualsiasi logica se non l’evidenza dell’abbandono e della , ho pensato. Prima un senso di fastidio: è così che si parlerà alla radio e sui giornali della legge 180? Ho dovuto tuttavia riconoscere, pur nella superficialità sconcertante del servizio, la verità di quelle parole.Come non pensare alla vuotezza angosciosa dei diagnosi e cura, di troppe Rems, delle debordanti, misere e inutilmente costose strutture residenziali,  dei tanti luoghi detti terapeutici che non possono che riprodurre quelle stesse insensate atmosfere.Le foto che avevo sotto gli occhi,i reportages dai manicomi degli anni di Gorizia documentavano con forza rara quanto si andava scoprendo con le prime timide e osteggiate aperture.

Nelle foto di Carla Cerati, di Berengo Gardin, di Uliano Lucas, di Luciano D’Alessandro, s’impone violenta l’assenza: sottrazione di tempo, d’identità, del diritto, dell’“umano”.

Gli uomini che affollano i cortili circondati da alte mura, che si muovono instancabilmente in un vuoto di senso. Tanti, fiaccati, distesi immobili: figure indecifrabili, immagini senza tempo.

Le parole della giornalista non mi prendevano di sorpresa. So bene che“quotidiani crimini di pace” accadono ovunque e quotidianamente. Non possiamo smettere di scandalizzarci. Non possiamo restare indifferenti. Nell’ambito del forum salute mentale, delle associazioni, delle cooperative sociali da tempo andiamo manifestando i nostri timori. La posta del forum ( e la mia mail) riceve quotidianedenunce e richieste di aiuto per le impensabili insansatezze che accadono. Da tempo ormai il ministero della salute ha deciso di lasciare all’ultimo posto la salute mentale. La Società italiana di epidemiologia psichiatrica continua con serietà a documentare le disparità regionali, le miserie degli investimenti, la mancanza di una reale volontà di governo. Cosa accadrà ora?

Il disegno di legge (vedi) presentato in Senato lo  scorso settembre e ora a ruolo col numero S2850 sarà un banco di prova per tutti noi e per i governi che verranno.

Finalizzato allo sviluppo e all’attuazione dei principi della legge 180, il Ddl  invoca attenzione, discussione e impegno per far fronte al declino delle culture, delle organizzazioni, delle politiche della salute e per valorizzare e moltiplicare le sorprendenti rimonte di migliaia di persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale.Successi e rimonte possibili proprio in ragione del diritto riconquistato, delle cure, dell’abbandono di pratiche prepotenti e mortificanti, di servizi che si sono sviluppati nel nostro paese nel solco tracciato dalla deistituzionalizzazione e dalla legge del ’78. L’obiettivo del Ddl è quanto mai “semplice”, direi alla nostra portata: concreta attuazione, in tutto il territorio nazionale di misure adeguate per garantire l’effettivo accesso ai diritti, alle cure, a percorsi di emancipazione, al budget di salute, alle possibilità di ripresa individuali.  Il Ddl richiama i servizi, le regioni e le magistrature a particolare sollecitudine e vigilanza nell’attuazione del Tso e delle misure di sicurezza. Un ruolo molto incisivo dovranno avere le persone con l’esperienza, i familiari, i cittadini e le loro associazioni.

Gli eventi che accompagneranno, con gioia immagino, i primi 40 anni della 180 dovranno essere occasione per interrogarsi sul che fare. Il panorama politico è radicalmente cambiato e a maggior ragione dobbiamo convocarci e stare insieme. In questa confusa incertezza che stiamo vivendo abbiamo bisogno di riconoscerci, di tessere reti più fitte, di stringere alleanze, di entusiasmare tanti compagni di lavoro e tanti giovani operatori che sono sfiduciati e scettici. Bisogna, malgrado i tempi, riscoprire il coraggio e la passione civile che hanno accompagnato il difficile cammino dei 40 anni del cambiamento.

Cosa faranno i governi che verranno? Le incognite che abbiamo davanti possono togliere il respiro e ogni possibilità di guardare oltre.

È necessario esserci, dire la propria presenza, trovare il coraggio di raccontare i quotidiani crimini di pace che siamo costretti inerti a testimoniare, aprire un ampio confronto che ci aiuti a mettere in campo proposte, progetti, “sogni”, dare evidenza a tutte le straordinarie esperienze che accadono, riportare sulla scena i

soggetti, le persone, i protagonisti. Ricominciare.

Foto di Berengo Gardin

I 40 anni della Legge 180

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foto180-0Di dr. Giorgio Colombo

I 40 anni della Legge 180

Perché incontrarci a ragionare  sulla legge 180, dopo quarant’anni, concentrandoci sui temi della fragilità e della pericolosità?

Credo che  la legge abbia in sé un nucleo di incompiutezza che si protende verso il futuro e sollecita la nostra riflessione, come fosse una sfida a realizzare principi irrinunciabili, anche correndo rischi prevedibili, accettati  e condivisi.

Siamo qui perché, oggi, noi siamo il futuro della 180  e  dobbiamo conoscere e capire che cosa ha significato e  significhi per i pazienti e le loro famiglie, per la comunità a cui appartengono, per i servizi e per gli operatori che se ne prendono cura.

Oggi tocca a noi schierarci nell’articolato dibattito in cui è ancora difficile non mettere i matti da una parte e la società dall’altra, a maggior ragione se si tratta di matti ritenuti pericolosi. Così com’è difficile riconoscere il diritto di tutti ad avere voce in capitolo quando si tratta della propria vita.

La 180 nasce durante il dibattito parlamentare sui principi ispiratori del Sistema Sanitario Nazionale, che in una prima versione riconosceva ancora nella pericolosità sociale il criterio ispiratore dell’intervento psichiatrico. Ha il destino di tutte  le leggi che raccolgono i fermenti propulsivi di gruppi sociali innovatori, indicando  nuovi modelli operativi che concretizzano un’etica nuova e una nuova cultura.

Inevitabilmente, leggi di questo tipo sono il risultato di uno scontro e di una  mediazione tra le spinte innovative e quelle conservatrici presenti nella società, nelle commissioni parlamentari e nel parlamento legiferante.

Per la 180 si trattò di una preparazione e di un conflitto lunghi, durati quasi vent’anni, accompagnati dalla lenta diffusione di una coscienza sociale  degli orrori del manicomio e dal rifiuto della segregazione che i malati subivano nei manicomi d’Italia, spogliati persino della propria storia e della propria identità,.

La legge fu preceduta da diversi tentativi di umanizzare il manicomio e organizzare il territorio per garantire alternative all’internamento. Dieci anni prima, l’esigenza di un’ampia riforma del sistema ospedaliero, in particolare  degli ospedali psichiatrici, si era imposta anche a livello istituzionale traducendosi nella legge n° 132 del 1968, conosciuta come Legge Mariotti.

Tuttavia la 180 riguarda non solo il manicomio ma anche altri  temi particolarmente “caldi” e di grande risonanza culturale ed emotiva. “Pericolosi” e utopici a giudizio di alcuni, per altri sono irrinunciabili principi di civiltà: la volontarietà delle cure per i malati di mente, il diritto all’autodeterminazione dei “folli”, la rinuncia alle pratiche restrittive, che tutti vorrebbero eliminare anche se molti le ritengono inevitabili, in casi particolari ma non eccezionali, la liceità e la costituzionalità degli accertamenti e dei trattamenti obbligatori, la distinzione tra cura, normalizzazione  e contenimento sociale  e il conseguente ruolo della psichiatria, l’attenzione ai bisogni e alle risorse personali  prima che ai sintomi.

Perciò, è comprensibile che nessuna delle parti in campo sia stata soddisfatta dal testo della legge e che, in questi 40 anni, siano stati proposti numerosi disegni di legge  allo scopo di migliorare, perfezionare, concretizzare, dare attuazione, modificare, abolire la 180, oppure tutelare i diritti personali o la sicurezza sociale. L’ultimo di questi è il DDL 2850 del 13/05/2017.

La legge  è uno dei frutti dell’azione e della riflessione clinica, sociale e politica di singoli o di gruppi, attivi in diversi luoghi d’Italia, mossi dal disgusto per situazione presente, accomunati da una formidabile capacità di lavoro  in condizioni avverse  e  animati da una inusuale determinazione a perseguire un principio, etico prima che scientifico. Psichiatri e amministratori che non potevano accettare né l’intrinseca, alienante brutalità del modello manicomiale di custodia e cura – sancito dalla Legge n. 36 del 1904 – né l’identificazione della sofferenza psichica con l’irresponsabilità e la pericolosità sociale, né  la violenza  insita nei trattamenti, sui quali il malato non poteva negoziare dopo essere stato privato, al momento del ricovero,  dei diritti sociali e politici.

Il gruppo più famoso si forma intorno al prof. Franco Basaglia, direttore del  manicomio di Gorizia dal 1961 al 1969. Dopo l’esperienza di Gorizia, i suoi esponenti saranno attivi su tutto il territorio italiano.

Il loro lavoro dentro il manicomio è condotto favorendo in ogni modo l’interazione tra manicomio e mondo esterno (volontari, intellettuali, libri, interviste, programmi televisivi….) ed è parte integrante delle turbolenze, delle conquiste e delle sofferenze della società italiana degli anni ‘60 e ’70 del 1900. In quegli anni, il movimento antiistituzionale rimette in discussione  la famiglia, la scuola, l’esercito, la chiesa, le istituzioni politiche e giudiziarie mentre la nuova psichiatria critica radicalmente i principi ispiratori dell’istituzione manicomiale, ritenuti non solo antidemocratici ma anche antiterapeutici.

Da un sistema fondato su:

  • gerarchia
  • espropriazione: i pazienti erano privati delle proprie cose, dei vestiti, dei capelli, non avevano un armadio o un comodino propri, non potevano decidere nulla che riguardasse la propria vita quotidiana o il proprio futuro
  • separazione/segregazione: grate, porte chiuse, reparti femminili e maschili, ricorso abituale alla violenza, contenzione, isolamento
  • negazione della soggettività e dell’autodeterminazione
  • trascuratezza dei bisogni primari
  • cancellazione della storia individuale,

si passa a una gestione nuova: i pazienti sono considerati persone capaci e responsabili, vengono sollecitati all’incontro, alla discussione, alle relazioni interpersonali, alla condivisione delle decisioni in assemblea. Si lavora per ridare loro la libertà e il potere decisionale, ispirandosi al modello della “comunità terapeutica” e inserendosi nel flusso  dei cambiamenti teorici e operativi che interessa la psichiatria europea di quegli anni.

Sono “Utopie della realtà” che in Italia diventano azioni concrete di cambiamento, non solo della psichiatria ma della società.

Mentre quello che accade a Gorizia e poi a Trieste assume una risonanza internazionale, ma è preceduto e accompagnato da altre esperienze che contribuiscono al cambiamento della psichiatria italiana.

Si pensi  alla spinta innovatrice di  Ilvano Resimelli (eletto presidente della Provincia di Perugia nel 1964) e di Carlo Manuali (psichiatra nel manicomio di Perugia) che rivoluzionano  l’assistenza psichiatrica a Perugia e in tutta l’Umbria dal 1965 al 1978: umanizzazione del manicomio,  dimissione di gran parte dei pazienti, organizzazione di una capillare rete di servizi territoriali, coinvolgimento della popolazione in assemblee e dibattiti, appoggio dell’amministrazione locale. Nel 1968, a Perugia apre il primo CIM italiano, secondo le indicazioni della Legge Mariotti.

Franco Basaglia è in contatto con Sergio Piro che dirige il manicomio Materdomini di Nocera Superiore (SA) dal 1959 al 1969, avvia una comunità interna al manicomio ripetendo l’esperienza di Gorizia e per questo viene licenziato.

Nel 1965, Mario Tommasini, eletto assessore provinciale con competenza nella gestione del manicomio di Colorno, reagisce alla “visione dell’inferno” con un processo di riforma radicale che prevede  umanizzazione e svuotamento del manicomio, anche contro il parere del direttore  e contro una buona parte degli infermieri; organizzazione di servizi territoriali, reperimento di alloggi, ricerca di opportunità di lavoro.

Quando Franco Basaglia  diventa Direttore dell’Ospedale S. Giovanni di Trieste, nel 1971,   la sua azione è guidata dalla riflessione critica  sull’esperienza di Gorizia dalla quale origina la convinzione che qualunque tentativo di migliorare la vita all’interno del manicomio l’avrebbe forse trasformato in una gabbia dorata, che però rimaneva pur sempre una gabbia, isolata in un contesto sociale e politico ostile. L’obiettivo diventa la chiusura del manicomio e il potenziamento dei servizi territoriali, per evitare che la dimissione si trasformi in un abbandono.

Il progetto è portato a termine dal 1971 al 1980. Dal 1971 al 1978 i ricoverati non volontari passano da 1182 a 87 e il 21/04/1980 l’Amministrazione provinciale di Trieste dichiara ufficialmente: “L’ospedale psichiatrico di Trieste può cessare le sue funzioni  ed essere soppresso”.  Trieste diventa  la prima città al mondo in cui il manicomio viene chiuso.

Questa azione comportò una lotta politica durissima contro la magistratura, la stampa e le forze politiche più conservatrici.

Il timore della pericolosità sociale dei pazienti fu un’ombra, un fantasma che ha accompagnato costantemente il cambiamento in corso.

Fin dall’inizio Basaglia era consapevole che il nodo della pericolosità costituiva un’insidia: sarebbe bastato un “incidente” per frenare il processo:

“In una realtà in rovesciamento […] un passo falso o un errore possono confermare – agli occhi dell’opinione pubblica – l’impossibilità di un’azione” (F. Basaglia e F. Ongaro, 1968)

E gli incidenti, tragici, ci furono e diedero forza alle voci che si opponevano alla trasformazione in corso. Gli attacchi furono durissimi: “Questo pugno di contestatori e sovversivi mette in circolazione gli assassini” (da un manifesto dell’epoca)

Rimane la domanda  di Basaglia:

“Possiamo, per uno che uccide condannare alla morte civile migliaia di uomini, possiamo rinunciare alle pratiche che vogliono guarire, possiamo tornare ad essere carcerieri implacabili di gente fragile, per conto di un metodo che non vuole problemi?” (F. Basaglia, 1971)

Tra questi contrasti si arriva alla promulgazione della legge 180, in un precipitare di eventi che accellerarono il processo: votata in venti giorni, sotto la pressione del Referendum Radicale abrogativo della legge del 1904;  firmata dal Capo dello Stato il 13/05, è pubblicata su G. U. n. 133 del 16/05/1978, neppure discussa in Parlamento ma  solo nelle commissioni di Camera e Senato, frutto di intesa e compromesso tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista in cui  nessuno, tantomeno Basaglia, vede accolte integralmente le sue tesi.

Primo firmatario e promotore è On. Bruno Orsini , democratico cristiano ed esponente dell’AMOPI (Associazione Medici ospedali psichiatrici italiani) molto più moderata di Psichiatria Democratica.

Il clima sociale e politico in cui la legge viene promulgata è drammatico, dominato dall’angoscia nazionale per la morte del Presidente del Consiglio Aldo Moro, ucciso dalla Brigate Rosse  dopo 55 giorni di prigionia,  il 09 maggio.

F. Basaglia, insieme a Pschiatria democratica, espresse un giudizio severo sui limiti e le ambiguità della legge:

“E’ una danza di principi vecchi e nuovi evidente risultato di un lavoro di compromesso, che rischia di lasciare le cose come sono, con tutto il potere delegato ai medici e ad altri personaggi che non hanno nulla a che fare con la cura dei malati. Inoltre la legge presuppone un’organizzazione sociale completamente diversa  e assolutamente democratica , e ciò non è” (1978)

Nella legge non sono definiti i tempi del cambiamento, la natura dei servizi, la loro organizzazione; la misura in cui si può ricorrere al TSO viene lasciata alla discrezione delle singole amministrazioni locali, dei medici,  dei giudici.

Non sono previsti i finanziamenti per trovare alloggio e impiego alle migliaia di ex-pazienti; non si affronta il problema dei lavoratori che perdono il posto con la chiusura degli ospedali psichiatrici

Dopo la legge, la riforma si è affermata in modo disomogeneo nei tempi e nei modi: ci sono voluti vent’anni per arrivare alla chiusura definitiva dei manicomi, con grandi differenze tra una regione e l’altra.

Tuttava una cosa è chiara, come scrive Franca Ongaro Basaglia, pochi mesi dopo la promulgazione della legge:

“Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza”

(F. Ongaro Basaglia, 19/09/1978)

Il dibattito sulla legge, e sulla psichiatria da cui è nata e che ne deriva, continua  perché essa prospetta modelli dell’agire psichiatrico realizzati solo parzialmente  nella normale operatività dei servizi pur essendo  ormai parte della cultura condivisa dalla comunità scientifica nel campo della salute mentale:

  • la realizzazione nella pratica clinica del diritto del paziente di esprimersi liberamente, di muoversi liberamente, di manifestare i propri bisogni e  avere un reale potere contrattuale anticipa di 40 anni quello che oggi chiamiamo empowerment;
  • sollecitare il paziente a riappropriarsi della vita, degli affetti, del  proprio ruolo sociale, recuperando potenzialità e aspettative anche se i sintomi non scompaiono del tutto, è uno stile di lavoro orientato alla  recovery, con quarant’anni di anticipo, prima che il modello biologico e le terapie farmacologiche mostrassero i loro limiti nei trattamenti cronici e rendessero la recovery una necessità, prima che un diritto;
  • L’accento sull’eccezionalità dei trattamenti coercitivi/obbligatori, sempre attuati  “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” e sempre “accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”.

Infine,

  • la valorizzazione delle variabili sociali, relazionali  e psicologiche nel favorire il decorso positivo o negativo dei disturbi mentali e il superamento del riduzionismo biologico, che s concentra  sulla malattia e trascura la persona. Riguardo a questo orientamento, lo stesso Basaglia ebbe un ripensamento:

“Penso che abbiamo commesso un grosso errore quando abbiamo creduto di dover attaccare il manicomio per far emergere il vero volto della malattia e di conseguenza ci siamo detti che, in pratica, avremmo dovuto mettere la malattia tra parentesi” (F. Basaglia 1979)

Eppure, esso assume oggi maggior fondatezza scientifica di quanto non ne avesse allora, grazie agli innumerevoli studi di genetica, epigenetica, neuromaging funzionale e  allo sviluppo delle neuroscienze, che  avvalorano l’ipotesi di un legame strettissimo tra esperienze personali, relazionali, culturali, psicoterapeutiche ed  espressività genica, funzionamento cerebrale, modificazione dei sintomi e della sofferenza psichica. Per non parlare dell’importanza dello stress cronico o degli abusi in età infantile sullo sviluppo cerebrale.

E’ sempre più verosimile che lo slogan “La libertà è terapeutica” diventi una verità scientifica.

Oggi più di allora ci sono valide motivazioni scientifiche per costruire servizi territoriali forti e articolati, vicini ai luoghi in cui vivono i pazienti, connessi alla comunità e agli enti locali, dotati di risorse umane ed economiche senza le quali un progetto così ambizioso non può realizzarsi.

Noi,  con infinite contraddizioni, raccogliamo questa eredità e ci interroghiamo:

  • a proposito di empowement: come gestire i servizi in cui il potere decisionale sia condiviso con i pazienti o i familiari: quali poteri ha davvero un “ospite” di un gruppo appartamento o di una casa famiglia o di una residenzialità leggera. Chi decide chi entra in casa e quando? Che poteri di autodeterminazione ha un utente del centro diurno? Che cosa può scegliere contro il parere degli operatori? Ma anche: è garantita la libertà e l’autonomia dei curanti nel proporre il trattamento migliore sulla base delle evidenze scientifiche senza sottostere alle pressioni sociali e ideologiche?
  • come recuperare l’unità e l’identità di una psichiatria che si colloca tra le scienze naturali, le scienze sociali, quelle psicologico/umanistiche, per riattribuire unità all’esperienza della  sofferenza psichica e della persona che la vive? Come rispondere ai giudizi cui siamo continuamente esposti, tanto autorevoli quanto contraddittori e discutibili? Nel 2012 la prestigiosa rivista Lancet (2012) afferma che la percezione comune nell’ambito della professione medica è che la psichiatria non sia abbastanza scientifica e che sia troppo distante dal resto della medicina. Che sia necessario un suo riallineamento ad un modello biomedico della salute mentale. Più recentemente  il  Rapporto Speciale dell’ONU del 2017 esprime il seguente giudizio: “per decenni, i servizi di salute mentale sono stati  governati da un paradigma biomedico riduzionista che ha contribuito all’esclusione, alla trascuratezza, ai trattamenti coercitivi e agli abusi nei confronti delle persone con disabilità intellettive, cognitive e psicosociali” Esposti  alla complessità dei problemi che dobbiamo affrontare, a giudizi generici  e contraddittori a cui siamo sottoposti e alle innumerevoli richieste che ci vengono rivolte non è facile mantenere la consapevolezza della nostra identità e una pratica clinica basata sulle evidenze scientifiche e sul   rispetto, la dignità e i diritti della persona.
  • Come conciliare la complessità degli obiettivi e degli interventi, la prossimità e continuità assistenziale, i percorsi di cura individualizzati, la presa in carico di pazienti e famiglie, l’attenzione ai bisogni e l’orientamento alla recovery  con DSM spesso troppo ampi e  personale sempre più ridotto? Sono significativi i risultati di un recente studio multicentrico italiano, presentato dalla pf.ssa Galderisi durante il congresso della SIPS, tenutosi a Napoli nel gennaio scorso. Sono stati studiati i programmi terapeutici territoriali di più di 1000 soggetti affetti da disturbi psichici gravi (spettro schizofrenico) seguiti in diversi servizi italiani: il 73% riceve esclusivamente un trattamento farmacologico; il 27% un trattamento integrato, definito con una soglia molto bassa: Farmaci + gruppi di auto aiuto; farmaci + CD; farmaci + interventi riabilitativi generici. Solo una piccola minoranza usufruisce d’interventi riabilitativi di riconosciuta efficacia.

  • Come affrontare il rifiuto delle cure, dei comportamenti aggressivi e violenti e della pericolosità di alcune persone affette da un disturbo mentale,? Come  regolamentare  ASO e TSO? Come affrontare il tema della contenzione e come  conciliare  il rispetto della libertà e il diritto alla volontarietà dei trattamenti, stabiliti dalla Costituzione,  con la posizione di garanzia a cui è tenuto l’operatore sanitario? Come accettare la libera scelta del paziente e ottemperare nello stesso tempo all’obbligo di impedire  eventi avversi che ne minaccino l’integrità e la vita o comportamenti che potrebbero compromettere l’integrità altrui?

  • Come affrontare comportamenti esplosivi, impulsivi, o strumentalmente e consapevolmente minacciosi e violenti, dispotici e antisociali, forse  rari ma non eliminabili con dichiarazioni di principio e certo non sempre attribuibili all’imperizia degli operatori?
  • Come lavorare con  pazienti che commettono i reati, la cui pericolosità è cancellata per legge ma continua ad essere presente nel codice penale?
  • Come restituire i diritti di cittadinanza ai pazienti riconoscendo, nello stesso tempo, i diritti agli operatori, e come costruire relazioni terapeutiche fondate sulla condivisione di diritti, doveri e responsabilità, nelle quali il rispetto per la dignità del paziente sia perseguito nel rispetto della dignità di chi si prende cura di lui?

Qualunque sia la risposta a queste sfide deve essere chiaro che  il pensiero e il lavoro di Basaglia – e la legge 180 che ne costituisce l’approdo (anche se certo mai immaginato come definitivo né in sé risolutivo) – vanno letti come la prosecuzione di un pensiero lungo, che ha la sua origine nella Costituzione e che tenta di portarne lo spirito nel territorio del manicomio  e della follia da cui era stato escluso per trent’anni.

D’altra parte lo stesso Basaglia definì la 180, ormai confluita nella 833, «soltanto l’inserimento nella normativa sanitaria di un elemento civile e costituzionale che sarebbe dovuto esservi implicito».

E la  Costituzione è chiarissima:

Art. 13

«La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». E poi ancora: «E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».

Art. 32:

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Le risposte alle sfide della 180 non saranno altre leggi che ribadiscano ancora gli stessi principi, illudendoci che questo basti a realizzarli, ma cambiamenti realistici e concreti nel nostro modo d’essere e di lavorare.

“Bisogna tenere ben salde nella memoria le leggi che hanno segnato conquiste sociali e diritti civili. Bisogna rinunciare a ogni forma di autocompiacimento e adesione fideistica alla funzione salvifica di una legge, di un modello o di un algoritmo. Sono sempre coperte troppo corte o inadeguate. Non aver timore di promuovere idee innovative e di lavorare su progetti e obiettivi ambiziosi, allineare le evidenze scientifiche con la pratica del mondo reale, implementare un’informazione scientifica equilibrata e controllata; ridurre la distanza tra le persone che necessitano di un trattamento e quelle che realmente lo ricevono; ridurre la distanza tra efficacia ed efficienza, applicare concretamente il modello dell’assunzione di decisioni condivise e, infine, contrastare l’oscurantismo pseudoscientifico spesso alimentato da pregiudizi ideologici….Abbattere ogni forma di stigma e di discriminazione” (S. De Giorgi, gennaio 2018)

Infine, bisogna monitorare e valutare gli interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi considerando non solo adeguatezza, appropriatezza, efficacia ed efficienza ma anche e sempre rispetto e  dignità,  di pazienti e operatori.

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Dr. Giorgio Colombo

Via C. Collodi, 22 – Legnano (Mi)

Medico Psichiatra

Direttore ff dell’U.O: di Psichiatria di Legnano

ASST Ovest Milano

SPDC Presidio Ospedaliero di Legnano

Via Papa Giovanni Paolo II

Tel.: 0331449372

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immagine da https://www.sospsiche.it/legge-180-e-leggi-salute-mentale/la-legge-180/galleria-fotografica.html

40#180 Il mondo là fuori


40#180 W Marco Cavallo

40#180 L’eredità della legge 180 nelle parole di Franco Rotelli

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6 Aprile ore 10.00 Frattamaggiore Autidorium ASL NA2 Nord Via Padre Mario, Vergara 228IMG-20180404-WA0000 (1)

Anniversario. Peppe Dell’Acqua: «Con Basaglia il malato divenne un cittadino»

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(Foto di Gian Butturini)

di Lucia Bellaspiga sabato 21 aprile 2018

A quarant’anni dalla storica legge che porta il nome dello psichiatra veneziano, parla il suo allievo Peppe Dell’Acqua: «Restituì ai “matti” libertà, diritti e dignità»

«Non mi resta il tempo necessario per cambiare la testa agli psichiatri. Meglio formare una squadra di giovani ». Così lo psichiatra veneziano Franco Basaglia, l’uomo che fondò la concezione moderna della salute mentale, restituendo ai “matti” la dignità di persone colpite da una malattia e non più marchiate da un’indicibile colpa, tra i giovani di buone speranze reclutò Peppe Dell’Acqua, allora ventiquattrenne. «Era il 1971, mi ero laureato a Napoli e all’epoca Basaglia era bandito dalla clinica universitaria, assieme alla psicanalisi», ricorda Dell’Acqua, che a Trieste è stato per diciotto anni direttore del dipartimento di Salute mentale e oggi insegna Psichiatria sociale all’università. Prezioso testimone, Dell’Acqua visse in diretta la gestazione della legge 180 o Legge Basaglia, entrata in vigore il 13 maggio 1978, esattamente quarant’anni fa, e ricordata sbrigativamente per aver “chiuso i manicomi”.

Prima che Basaglia scendesse in campo era ancora in vigore la legge del 1904, per la quale venivano internate «le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose e riescano di pubblico scandalo». Più una punizione che una cura, più una reclusione che un ricovero, più una colpa e una vergogna che una normale malattia.

«In un’intervista del 1968 Sergio Zavoli chiese a Basaglia se fosse più interessato al malato o alla malattia, e Basaglia calcò la voce su un avverbio: “Indubbiamente al malato”. Il malato di mente fino al 1978 non è un cittadino, la Costituzione è valida per tutti ma non per chi è internato, privato di qualsiasi diritto. Per cambiare le cose, deve avvenire qualcosa di straordinario il 13 maggio di quell’anno, quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, quando in una commissione ministeriale presieduta da una giovane Tina Anselmi nasce una legge grazie a uomini e donne illuminati, che si interrogano: i matti, questi centomila reclusi in novanta manicomi, sono o non sono cittadini italiani? Vige anche per loro la Costituzione repubblicana del 1948? La loro risposta è sì e da lì comincia la scommessa spigolosa del nostro Paese, una strada tutta in salita».

La citazione di Aldo Moro non è casuale…

«Moro fu l’estensore dell’articolo 32 della Costituzione sul diritto fondamentale alla cura e alla salute: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario…”, trent’anni dopo questa sarà la 180. Quando scrisse queste parole, Moro si confrontava con La Pira, con Calamandrei, tutti giovani che avevano vissuto le restrizioni del fascismo. Quattro giorni prima dell’entrata in vigore della legge che restituiva libertà, diritti e dignità ai malati, Aldo Moro moriva prigioniero, senza diritti e senza dignità, le cose per cui aveva lottato. Questo ci dà il senso dello spessore umano e drammatico che comporta la follia: il prendersi cura dell’altro non è un atto di carità, è il riconoscimento dell’altro nel suo pieno diritto. I primi balbettii di queste intuizioni avvennero all’inizio del ’900, ai tempi di Freud, quando ci si chiese se avessero un senso quei deliri, se fosse possibile dare una qualche ragione a quelle allucinazioni. Ma solo Basaglia ha messo tra parentesi la malattia, e fatto questo non poteva che scoprire delle persone, nomi, storie, relazioni, violenze, desideri andati in fumo, tutte vite cui dare un senso. In loro riconosceva “il soggetto”».

Una “scoperta” che rivoluzionava l’approccio e l’intero impianto di cura.

«Intuita la pochezza della scienza psichiatrica e invece la potenza dellapresenza di persone, Basaglia non può fare altro che aprire la porta, non solo in senso letterale e concreto (la porta dei manicomi), ma come intensa metafora: dietro la porta ci sono finalmente cittadini, non più una massa appiattita in un’unica identità, quella dell’internato. Da qui è naturale che derivi la dimensione politica, cioè il battersi per i diritti di chi diritti non ha, la dimensione etica, ovvero rimediare all’indegnità, e la dimensione della singolarità, che poi è quella terapeutica: non posso curare, se non riconosco la singolarità di ogni altro ».

Eppure quarant’anni di legge 180 lasciano aperte forti criticità.

«Calamandrei della Costituzione disse che aveva uno sguardo presbite, che cioè guardava lontano. Così la 180: nell’immediatezza restituiva finalmente diritti, che sarebbero stati realizzati poi. Molte cose da allora sono accadute, oggi per chi ha disturbi mentali parliamo di diritto di famiglia, diritto alla casa, all’abitare, al lavoro, e quanti si sono sposati, hanno le loro crisi ma anche la loro vita. Nella collana di libri di psichiatria che dirigo (“180 – Archivio critico della salute mentale”), queste persone ci parlano di come ce l’hanno fatta grazie ai servizi più o meno scalcagnati o invece luminosi funzionanti in Italia. Ad esempio Guarire si può è scritto a quattro mani da un’operatrice e una persona con disturbi mentali, laureata e da quarant’anni in cura».

Come commenta l’annosa accusa di aver “chiuso i manicomi senza prima organizzare le alternative”?

«Sono invecchiato sentendo queste parole. Le dico che americani e sovietici quando scoprirono l’umanità dei lager non potevano attendere mesi per decidere con quali mezzi portarla fuori da lì, c’erano un’urgenza e una crudeltà per cui non si poteva aspettare. A Norberto Bobbio in un’intervista fu chiesto se in Italia nel dopoguerra ci sia stata una vera riforma, Bobbio restò interdetto e poi rispose che sì, l’unica vera riforma era quella che aveva liberato i matti, perché coglieva il senso della restituzione del diritto».

Parlando di Basaglia lei si commuove spesso.

«Un ricordo: ero con lui a Trieste da tre mesi e feci un errore giovanile, chiesi al presidente della Provincia dov’era finita la borsa di studio che mi era stata promessa. Basaglia mi fulminò e mi invitò a fare le valigie. Il giorno dopo mi spiegò: “Non è più il tempo dell’università, qui stiamo facendo una scommessa che ci può vedere perdenti in qualunque momento, qui comincia la lunga marcia”, ed è stato così».

da Avvenire.it –>https://www.avvenire.it/agora/pagine/basaglia

La rivoluzione Basaglia, quando l’Italia diventò civile

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La rivoluzione Basaglia, quando l’Italia diventò civile
Quarant’anni fa la legge 180 che cancellò i manicomi.  Ma molto resta anc

imageQuarant’anni fa la legge 180 che cancellò i manicomi.  Ma molto resta ancora da fare

Di Luigi Manconi

Prima, bisogna conoscere il prima . In caso contrario, non si può discutere seriamente del dopo: ovvero i quattro decenni trascorsi da quando, nel 1978, il Parlamento approvò la legge 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. E il prima era fatto di quella condizione di spoliazione e annichilimento che – come scrisse Primo Levi a proposito di altre e più lontane situazioni – rende l’individuo «materia umana». Lo riduce, cioè, alla sua sofferenza fisica e alla sua corporeità dolente. Così erano gli esseri umani – uomini e donne di tutte le età – rinchiusi nei manicomi e nei loro dispositivi di prigionia: sbarre, camicie di forza, cinghie e legacci, letti di contenzione. E, ancora, sporcizia, escrementi, bave e sudori. Se qualcuno non ricorda, o non vuole ricordare, ci sono le foto di Gianni Berengo Gardin e di Carla Cerati e di Raymond Depardon, il documentario “Matti da slegare” di Bellocchio, Agosti, Petraglia e Rulli, e i reperti dell’archeologia psichiatrico-giudiziaria, tutt’ora rintracciabili in molte città italiane.

Il manicomio come il carcere sono stati, nelle società democratiche, i principali luoghi non solo della “cosizzazione” delle persone e del loro spossessamento, ma anche quelli della deprivazione sensoriale e psichica. In questo scenario, la “legge Basaglia” ha rappresentato una fondamentale riforma, pressoché unica nel mondo, che ha promosso una nuova concezione della salute e della dignità della persona malata di mente. Nello stesso anno, altre due leggi, quella sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e quella istitutiva del servizio sanitario nazionale che ha affermato il diritto universale alla salute, riconoscono nuovi spazi di autodeterminazione della persona. Ne discende una concezione innovativa della salute, quale stato di benessere fisico, mentale e sociale, che si raggiunge quando gli individui sviluppano e valorizzano le proprie risorse (molte o poche o residuali che siano) e la propria capacità di indipendenza. Come ha scritto Stefano Rodotà, una concezione della salute che si fonda sul «diritto che più caratterizza il rapporto tra libertà e dignità». Sono riforme, quelle del 1978, che nascono dalla mobilitazione culturale, professionale e sociale, e che vedono coinvolti medici, infermieri, associazioni di familiari e intellettuali.
Da quella elaborazione non discende affatto che «la malattia mentale non esiste», frase mai pronunciata da Franco Basaglia (come conferma lo psichiatra Peppe Dell’Acqua) e che tanti – in buona o cattiva fede – gli hanno voluto attribuire. Si è tentato, così, di ridurre a grossolana caricatura un pensiero che era e resta estremamente sofisticato. E, come accade per tutti i processi di emancipazione, anche questo ha comportato fatica e dolore, arretramenti e sconfitte. E la capacità innovativa di quella legge ha incontrato sulla sua strada grandi ostacoli. Solo nel 1994 si è definito il piano che delineava le strutture da attivare a livello nazionale; e che dava l’avvio ad una riorganizzazione sistematica dei servizi preposti all’assistenza psichiatrica.
Chiudere i manicomi, realizzare una rete di servizi pubblici ispirati alla psichiatria di comunità, integrati nel sistema del Servizio Sanitario Nazionale non è stato facile e non si tratta, certo, di un percorso compiuto. Tutt’altro. Sono ancora troppe le disparità territoriali e in tante realtà sono state aperte case di cura che ricordano gli ospedali psichiatrici (l’80 per cento contano più di 30 posti e non sono inserite in contesti urbani), dove, troppo spesso, i farmaci sono l’unica forma di trattamento terapeutico della malattia mentale.
Infine, una questione cruciale e particolarmente dolorosa, quella relativa al difficile percorso delle famiglie e delle associazioni per uscire dall’isolamento e costruire relazioni. Famiglie e associazioni che, consapevolmente, chiedono sostegno e cure, trovandosi spesso senza conforto e senza assistenza. E ciò a causa dei ritardi nella costruzione di servizi territoriali adeguati, nell’attuazione di progetti di supporto al recupero e all’autonomia del paziente e in conseguenza dei tagli apportati al servizio sanitario nazionale e al sistema di welfare. E, poi, fortissime resistenze al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e una vischiosa persistenza della coercizione fisica (letto di contenzione) nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Piuttosto sarebbe necessario, e quanto mai urgente, investire sulla ricerca e sulla sperimentazione nel campo della prevenzione, negli ambienti di vita e di lavoro, affrontando le cause che minacciano l’equilibrio e la salute mentale. Ma buone pratiche e situazioni di eccellenza si sono affermate, a dimostrazione che altre forme di cura della malattia mentale e di presa in carico delle persone che ne soffrono sono possibili.
Tutto ciò deve molto, moltissimo all’attività e al pensiero di Franco Basaglia. Un pensiero tanto radicale quanto fondato scientificamente, e clinicamente verificato. Capace, cioè, di andare alle radici psichiche della malattia e a quelle epistemologiche della sua cura. Per questo motivo, anche un’altra falsa attribuzione, a ben vedere, non gli è affatto estranea. Quella frase («Da vicino nessuno è normale») è stata scritta in realtà da Caetano Veloso ed è postuma alla morte di Basaglia, avvenuta nel 1980. Ma per la sua potenza poetica potrebbe pienamente appartenergli.

Malattia mentale, l’esperienza di Trieste e Gorizia dove i ‘matti’ sono persone

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E’ l’isola che c’è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata»

Di Marco Pacini

26 Aprile 2018Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia (1969). Foto di Berengo GardinSe uno volesse “vedere” la rivoluzione di Franco Basaglia a 40 anni dalla legge che porta il suo nome potrebbe salire fin qui, sulla schiena di Trieste, zona Ponziana-San Giacomo. Zona disagio, lontana più di quanto dica una mappa dal salotto dell’impero che l’orgoglio patrio ribattezzò piazza Unità d’Italia, dal lungomare di Barcola, da quello che resta dei caffè letterari, dalla libreria di Saba, dalle vie della belle époque in abito asburgico.

In via del Molino a vento 123 c’è una palazzina di mattoni rossi di inizio ’900, ristrutturata nel 2008, dove il viavai dei mattiscandisce le ore che non si contano più. Non serve: le porte sono aperte giorno e notte. Una sala accoglienza, un tavolo con le tazza da tè, niente liste d’attesa. Un giardino dove si fermano a parlare e a fumare pazienti, infermieri, assistenti sociali. Al piano di sopra sei camere con bagno per i “ricoveri”, al momento vuote. Sono tutti fuori i matti .

Valentina, una giovane donna con «disturbi seri», occupava uno di quei letti fino a qualche giorno fa. Poi se ne è andata e nessuno l’ha trattenuta. Adesso sta parlando con lo psichiatra che dirige il centro, Matteo Impagnatiello. «Vuole stare ancora un po’ qui, mi ha chiesto di tornare, il posto c’è. Le persone qui ci devono stare volontariamente», dice il medico dopo averla congedata.
Le persone. Non è frequente sentir pronunciare la parola pazienti, men che meno malati, dai medici e dagli operatori della salute mentale, a Trieste. E ti sembra un eccesso di politicamente corretto finché, dopo qualche ora trascorsa tra le stanze dei Centri di salute mentale (oltre a questo ci sono altri tre presidi territoriali a Trieste) o lungo le vie del parco di San Giovanni, tra le palazzine di fine 800 che costituivano la cittadella-manicomio chiusa da Basaglia, ti accorgi che è spesso difficile riuscire riconoscere in un crocchio di persone i matti dai normali .

All’ultimo piano della palazzina rossa c’è un’ampia mansarda con stanze comuni usate anche dalle associazioni del quartiere. «Ci sono venuti anche i bambini del rione per qualche attività», racconta lo psicologo del “Csm distretto 2” Oscar Dionis, che si occupa soprattutto di disagio degli adolescenti e tiene i contatti con la neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Burlo-Garofalo, poco distante. «È attraverso questi luoghi – aggiunge Impagnatiello – queste stanze usate da tutti, che si rompe lo stigma». Come? La parola è “negoziazione”, spiega lo psichiatra. Con i pazienti in primo luogo, «ma anche con la gente del quartiere, i negozianti, i residenti del complesso di edilizia popolare qui di fronte. Tutti quelli che vivono attorno a questo luogo».

Dal piano di sotto sale la voce di una sofferenza. Forte, rivendicativa. E nei volti di chi va e viene la sofferenza la leggi anche senza sentirla. I matti non scompaiono. Vivono.

Quattro medici, due psicologi, diciotto infermieri, un assistente sociale, otto operatori. Le persone che bussano al Csm in cerca di aiuto o solo di una parola, sono 120/150 al giorno, il 7 per cento stranieri. I numeri di via del Molino a vento sono analoghi a quelli di quasi tutti i Csm del Friuli Venezia Giulia, dove la “180”, con qualche resistenza residua e non senza difficoltà nei quattro decenni trascorsi dalla sua approvazione, ha dimostrato che tutto quello che era stato pensato nella lunga gestazione della rivoluzione è “praticamente vero”, secondo l’espressione forse più cara (e più ripetuta) a Franco Basaglia.

Prima di dirigerci verso l’ex manicomio, dove la psichiatria triestina ha il suo quartier generale, è necessario cercare chi naviga in direzione contraria, o almeno nutre dei dubbi sul “praticamente vero”. Un buon candidato potrebbe essere il sindaco Roberto Dipiazza, che sta armando i vigili urbani con le pistole e guida una giunta con tratti marcatamente di destra securitaria. Il sindaco di una città che va giustamente fiera della sua regata velica (tanto che arrivando dalla costiera o dal Carso ti accoglie il cartello “Città della Barcolana”, non di Svevo, Saba… o Basaglia), ma che del quarantesimo anniversario della rivoluzione basagliana, dell’ «unica vera riforma fatta in Italia» (Norberto Bobbio, 1985), si è completamente dimenticata. «Ah sì… Già, quarant’anni… quando?», sono infatti le prime parole di Dipiazza. Il prossimo 13 maggio, sindaco…

Ma se si cerca in Dipiazza un nemico della “180”, pronto a sommergerti con una serie di numeri che traducono in pericolosità tutta quella libertà dei matti , no, non lo si trova. E non solo perché quei numeri non esistono. Soprattutto perché qui la rivoluzione è patrimonio largamente condiviso, quasi intoccabile. «Sì, è vero, all’inizio qualche problema c’è stato… ricordo quel ragazzo uscito dal manicomio che uccise i genitori tanto tempo fa. Ma la legge Basaglia è stata una conquista di civiltà da cui non si può tornare indietro». Nelle parole del sindaco di Trieste c’è anche l’impronta indelebile di ricordi personali. «Da ragazzino abitavo in via Verga, che confina con l’ex manicomio. Con alcuni amici avevamo fatto un buco dove c’era la rete. Volevamo andare oltre quel muro che separava il parco dalla città. Siamo entrati più volte, sbirciavamo nascosti da una siepe. E quello che vedevamo e sentivamo era la fine del mondo. Persone che urlavano, che venivano lavate tutte insieme dentro le gabbie…». Già, il manicomio. «Forse non si può dire lager, ma insomma…».

Nel gennaio del 1977, in uno dei vecchi edifici di questo manicomio, città nella città che sale sulle pendici del Carso, Franco Basaglia annunciò la fine del percorso iniziato a Gorizia nel ’61, proseguito a Parma, e finalmente realizzato a Trieste dopo quei due tentativi naufragati sui pregiudizi, sulla psichiatria tradizionale, farmacologica e contenitiva, ancorata al dogma messo nero su bianco dalla legge del 1904: il matto è pericoloso. «Chiuderemo il manicomio di Trieste entro un anno», scandì lo psichiatra veneziano davanti ai giornalisti e ai politici increduli. Lo smantellamento del manicomio iniziò in realtà nel 1980. Ma un anno dopo lo strappo di Basaglia fu varata la “sua” legge, anche se negli archivi parlamentari porta un altro nome. Il relatore era Bruno Orsini, democristiano. Come il giovane presidente della Provincia di Trieste di allora, Michele Zanetti. Fu lui ad aprire le porte di Trieste a Franco Basaglia, l’eretico, il radicale, il “filosofo”, per la maggior parte dei suoi colleghi.

Ci ha scritto un libro Zanetti. Ne sta scrivendo un altro, autobiografico, «perché è la cosa più importante che ho fatto nella mia vita». Nessuna enfasi però. Oggi, la risposta alla domanda “perché lo fece?” suona più burocratica, che orgogliosa o compiaciuta. «Perché Basaglia era il migliore, abbiamo fatto un concorso e abbiamo preso il migliore. Tutto qui». In consiglio provinciale il Pci votò contro l’arrivo del “filosofo” dei matti. Poi capì, «e dall’opposizione votava tutte le delibere che adottavamo per favorire il lavoro di Basaglia», ricorda Zanetti.

Eccolo il parco di San Giovanni, l’ex manicomio. Ci si arriva dall’alto imboccando via Edoardo Weiss, lo psicoanalista ebreo triestino che portò il pensiero di Freud in Italia e sfuggì all’Olocausto. Su uno degli edifici del vecchio manicomio la scritta è ancora leggibile: “La libertà è terapeutica”, il più basagliano degli slogan, coniato in realtà da Ugo Guarino. Lungo i vialetti vanno e vengono persone indaffarate, furgoncini carichi di piante e attrezzi da giardinaggio. Si sta preparando “Horti tergestini”, la rassegna di piante, fiori e cose naturali che ogni anno richiama qui migliaia di persone.

E migliaia, in questi quarant’anni, sono stati anche gli psichiatri, gli operatori, i politici, venuti da tutto il mondo a studiare il modello Trieste, l’utopia realizzata . Dell’ultima delegazione, oltre agli psichiatri e agli operatori del mental health , facevano parte anche un giudice e uno sceriffo. Sono venuti da Los Angeles. Poi il Senato californiano ha incontrato via Skype il direttore del Dipartimento di salute mentale, Roberto Mezzina, e la sua équipe. E il progetto sta partendo: esportare Trieste in California. «Nella delegazione c’era anche Allen Frances, padre del Dsm 4 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale ndr) e uno dei padri della psichiatria biologica. Insomma non certo un sostenitore del nostro lavoro… Ha avuto una folgorazione», racconta Mezzina, «e una volta tornato in California ha scritto sull’Huffington post che “se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore”».

Alessandro Norbedo e Roberto Colapietro, coordinatore e infermiere psichiatrico, entrano nell’ufficio di Mezzina. Sono da poco tornati dall’Honduras, che ha bussato a Trieste per cercare un aiuto nella gestione dei moltissimi detenuti con disturbi mentali in uno dei paesi più violenti del mondo. «Sempre di più… I contatti con chi viene qui per capire come lavoriamo e chi ci chiede di mandare operatori nelle loro strutture si sono quadruplicati negli ultimi 15 anni», spiega il direttore del Dipartimento, «ormai abbiamo rapporti con 40 paesi».

Nella palazzina della direzione, di fronte alla quale campeggia la scultura di Marco Cavallo, icona della rivoluzione basagliana, si discute, si preparano gli incontri di “Articolo 32”, il gruppo di protagonismo che con quel nome sottolinea ancora una volta il legame strettissimo della rivoluzione con la Costituzione. Izabel Marin, brasiliana arrivata a Trieste sull’onda dell’eredità che Basaglia ha lasciato in quel paese, Pietro Degrassi e Adriano Germek, spiegano l’attività di “Articolo 32” di cui sono animatori. Adriano è il matto dei tre: a San Giovanni non c’è un gruppo, un’associazione, una cooperativa, che non veda protagoniste le persone, al di là dello steccato salute/malattia. Forse perché “impazzire si può”, come si intitola il ciclo di convegni che da sei anni il gruppo organizza. Oltre al corso di “tecniche di supporto tra i Pari”. Dove i Pari sì, sono i pazienti. Anche con disturbi gravi.

Come la storica Silvia Bon, che il suo contributo di supporto dapari lo offre da tempo anche al di fuori di San Giovanni. Ti guarda e ti anticipa la professoressa. Come se leggesse nello sguardo la curiosità del visitatore “normale”, che si aggira nell’isola che non c’era e ora c’è, “praticamente vera”.

«Sento le voci…», dice la storica con il suo ultimo libro sull’esodo degli istriani e dalmati in mano. Lo dice guardandoti dritto negli occhi. «Schizofrenia… Sa, parlare di schizofrenia non è mai stato facile. Lo era molto meno negli anni Ottanta, quando è iniziata questa lunga esperienza di sofferenza e passavo da diversi approcci terapeutici, basati sui farmaci. Poi nel ’92 sono stata presa in carico dal Csm di Barcola, ho cominciato a sentirmi meglio, una persona. Non si tratta solo di sintomi, quelli si possono ripetere, e si ripetono. Prendo ancora i farmaci, ma sono cambiata. Ho visto persone come me travolte dalla sofferenza riaprirsi al sorriso, ecco. Faccio parte del gruppo “Uditori di voci”… parlare di schizofrenia non è facile, ma quando lo puoi condividere lo è un po’ di più».

La «presa in carico» di cui parla Silvia Bon è il primo passo della 180 “applicata” che con l’aiuto di Roberto Mezzina si può riassumere così: 1) ingresso a bassa soglia: c’è sempre un Csm non lontano da casa, facile da contattare, aperto 24 ore sue 24, in grado di fornire una risposta rapida; 2) si parte dalla persona più che dalla malattia, viene attivato un processo personalizzato che si può articolare con altre risorse, non solo chimiche, un progetto di vita; 3) il progetto ha anche un contenuto economico, coinvolgendo cooperative per esempio, e riguarda la casa, il lavoro, la socialità. Non solo clinica. Effetto collaterale: il Fvg spende meno della media nazionale per la salute mentale in rapporto alla spesa sanitaria complessiva. «Se tu non spendi per il privato e la residenzialità psichiatrica passiva questo è il risultato», conclude il direttore del dipartimento sfogliando gli ultimi bilanci.

Ma cosa è rimasto del vecchio manicomio? «Nulla. Per le emergenze ci sono i reparti di diagnosi e cura psichiatrica all’interno degli ospedali. Da noi ci sono 6 posti letto, per lo più vuoti», risponde Mezzina. E di questo manicomio? Sorridono gli psichiatri e gli operatori del basaglismo realizzato . Qui il manicomio era un lontano ricordo anche quando alcune casette di San Giovanni erano abitate dagli ultimi ex internati che non avevano ancora trovato una sistemazione fuori. Gli ultimi tre hanno lasciato la casetta due anni fa e ora abitano al piano terra di una palazzina a Opicina, il pezzo di Trieste a maggioranza slovena che sta sull’altopiano. Uno dei tre è l’ultima lobotomizzata in Italia ancora in vita. Testimone quasi muta di un orrore non lontano che si chiamava psichiatria.

Nel breve viaggio a ritroso alla ricerca delle radici di una rivoluzione nel suo quarantennale, l’ultima tappa è Gorizia, dove tutto iniziò nel 1961 attirando l’attenzione della cultura europea che “covava” il ’68. E si chiuse drammaticamente proprio nel ’68 con l’«incidente»: il paziente in permesso giornaliero che tornò a casa e uccise la moglie.

Se il Comune di Trieste si è distratto sull’anniversario, a Gorizia non si trova nemmeno un cartello che indichi la strada per il “Parco Basaglia”, l’area verde tra l’attuale ospedale e l’ex manicomio, dove nel ’61 lo psichiatra veneziano trovò 600 pazienti che vivevano come in un lager. Compresi gli alcolisti e gli epilettici.
Qui non sembra esserci la stessa condivisione, lo stesso orgoglio per l’utopia realizzata che anima la quasi totalità degli operatori triestini. O almeno non è questo il primo impatto varcando la soglia del Dsm nel cuore dell’ex manicomio, a qualche metro dal confine con la Slovenia, il “muretto di Gorizia” ai tempi di Basaglia.
Marco Cernic è l’infermiere psichiatrico con maggiore anzianità. «Sono qui dal ’77». Basaglia? «Troppo Basaglia, non abbiamo sentito parlare d’altro che di Basaglia in tutti questi anni, secondo me c’è molta politica», scandisce nell’atrio, accanto alla figura in cartone a grandezza quasi naturale dello psichiatra della “180”. Ma dev’essere un’eccezione, perché il funzionamento della psichiatria goriziana diretta da Marco Bertoli, la sua filosofia, non hanno nulla di diverso da quella triestina.

Molto da quella di gran parte del resto d’Italia, dove la contenzione per esempio, come ricorda Roberto Mezzina «è ancora praticata in modo massiccio». E come conferma Peppe Dell’Acqua, che ha preceduto Mezzina nella direzione della psichiatria triestina ed è una figura di riferimento non solo nazionale della rivoluzione. Una rivoluzione ancora incompiuta al di fuori dell’ Isola che c’è . «Perché le Regioni hanno proceduto con modalità e velocità diverse», spiega Dell’Acqua. «Non esiste omogeneità, purtroppo. Ci sono aree in cui sono nate esperienze straordinarie grazie ad associazioni e coop sociali. Ma in molte Regioni la psichiatria non si è trasformata. Dalla Lombardia alla Sicilia, le forme organizzative sono spesso tali per cui le persone non accedono a tutto ciò che la legge consente. Negli ospedali ci sono ancora reparti di Diagnosi e cura a porte chiuse, dove si applica la contenzione. Solo in due o tre casi su dieci la contenzione non si fa più».
Ma non è solo una questione di modello organizzativo; si tratta piuttosto dell’assunzione di un pensiero, questo manca. E non è poco, «visto che quel pensiero, quel modello teorico», conclude Dell’Acqua, «non è altro che l’ingresso nel diritto di tutti i cittadini italiani»

Questo piccolo, parziale, viaggio nella “180 realizzata” non ha una fine. Ma ha avuto un inizio prima di salire in via del Molino a vento. In un caffè-libreria di Trieste dietro Ponterosso, il rettangolo di mare che si infila in città.
Franco Rotelli arrivò a Trieste da Parma insieme a Basaglia, nel 1971. Ne raccolse l’eredità nel 1979, quando il padre della “180” fu chiamato a Roma, un anno prima della morte. Il resto della storia è noto: il basaglismo realizzato a Trieste è gran parte opera sua, soprattutto nei primi, difficili, anni della riforma. «Eravamo una piccola minoranza all’interno di un clima culturale particolare», ricorda Rotelli sorseggiando un’acqua tonica. Ma anche in Europa si respirava lo stesso clima, soprattutto in Francia… Deleuze-Guattari, Foucault, Sartre… «Già, e in Francia ci sono ancora 30-40 mila persone nei manicomi…». Appunto: perché in Italia no? «Per la peculiarità del pensiero basagliano: azione e determinazione». E lo chiamavano “il filosofo”… «Era un uomo di pensiero. Ma con la forza di immaginare il cambiamento delle istituzioni. È stata una rivoluzione politica, non solo intellettuale, culturale. Nel suo testo più noto, l’“Istituzione negata”, Basaglia mette al centro il funzionamento delle istituzioni». Avvertivate i potenziali pericoli? «Ne eravamo consapevoli. Ma ridurre la pericolosità nei confronti dei matti riduceva la loro, riduceva la violenza complessiva».

Rotelli torna quasi ogni giorno a San Giovanni, nell’ex manicomio che ha chiuso. Ci andrà anche oggi. Sorseggia, si ferma. C’è un’ultima cosa che vuole dire, fare. «Un’inchiesta, vorrei fare un’inchiesta. Andare in giro e chiedere alla gente: capisco che la “180” sia considerata una delle più grandi conquiste culturali del ’900 per noi psichiatri, ma per voi…?». Forse perché “impazzire si può”, azzardiamo. «Sì, forse perché il rischio della sofferenza, di diventare matti , c’è in tutti noi. E vorremmo restare persone, nella sofferenza».

Articolo da L’Espresso –>http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/04/25/news/malattia-mentale-viaggio-nell-isola-che-c-e-1.320982

E’ l’isola che c’è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata»

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