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Sanità: sì preliminare al Piano regionale salute mentale

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Udine, 25 gen – Strutture territoriali e più vicine ai bisogni dei malati, Centri di salute mentale sulle 24 ore più efficienti e una rete di cura omogenea a livello regionale.
Sono gli obiettivi principali del Piano regionale della salute mentale, infanzia, adolescenza ed età adulta 2018 – 2020 approvato in via preliminare dalla Regione.
Il Piano muove da un’accurata analisi dell’attuale situazione dei servizi per la salute mentale che trovano in Friuli Venezia Giulia un modello organizzativo all’avanguardia, radicato fin dagli anni ‘60 nell’esperienza di Franco Basaglia. Ciononostante i servizi, soprattutto quelli riferiti all’età evolutiva, si sono nel tempo articolati in maniera eterogenea sul territorio, dove si misura anche una presenza diversificata di neuropsichiatri, l’assenza di un sistema informativo unico e di un osservatorio epidemiologico dedicato.

Il Piano intende innanzitutto, sul cardine della riforma della sanità, migliorare l’integrazione tra cure primarie e specialistiche e i relativi percorsi di cura, tenuto conto che la cura dei disturbi mentali “comuni” ha un altissimo impatto sui servizi. In particolare dovranno essere costruite relazioni stabili tra gli operatori dei Centri di salute mentale e i medici di medicina generale, sia nella prevenzione che nella presa in carico e cura dei pazienti.

Il Piano si prefigge inoltre di implementare la rete regionale integrata per la prevenzione, l’identificazione precoce, la diagnosi, la cura e l’abilitazione/riabilitazione rivolta a minori con disturbi neurologici, neuropsicologici e psicopatologici e disordini dello sviluppo psicologico, cognitivo, linguistico, affettivo e relazionale.

Una parte del Piano è dedicata alla definizione di percorsi di transizione delle cure dall’età pediatrica a quella adulta, coinvolgendo i diversi attori della rete territoriale, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, neuropsichiatrie dell’infanzia e dell’adolescenza e Dipartimenti di salute mentale, per una presa in carico integrata.

Con questa visione ritrova centralità il “progetto terapeutico riabilitativo individualizzato”, un percorso di cura coerente con i bisogni della singola persona, in cui sono coinvolti servizi sanitari, enti locali e operatori del terzo settore. I percorsi riabilitativi si fondano principalmente su tre assi principali: casa, scuola/lavoro e socialità e possono essere finanziati anche attraverso il Fondo per l’autonomia possibile. Altre esperienze positive che il Piano evidenzia sono quelle dell’abitare inclusivo, che ha permesso una progressiva riduzione delle residenze che ospitano persone con disturbi psichici (da 31 nel 2004 si è passati a 23 nel 2016, con una riduzione del 23%) e dei posti letto dedicati (dai 210 del 2004 ai 152 del 2016, con una riduzione del 26%), a favore di nuove forme di domiciliarità che favoriscono il superamento del disagio psichico e il reinserimento sociale. Allo stesso modo agiscono i tirocini inclusivi, che offrono opportunità dirette di inserimenti nel mondo del lavoro e acquisizione di competenze.

Ampio spazio è dedicato alla formazione e ricerca: la Regione intende promuovere programmi di ricerca scientifica innovativa che possano valorizzare le esperienze regionali in materia di salute mentale, in particolare nelle buone pratiche in ambito di cure orientate al recupero, nell’appropriatezza degli interventi farmacologici a livello di cure primarie in età adulta e pediatrica, nella riabilitazione psicosociale e nella prevenzione del suicidio.

Il Piano detta, inoltre, le linee guida per la gestione dell’emergenza, la prevenzione del suicidio e il trattamento delle patologie connesse all’uso di sostanze psicotrope e delle patologie da dipendenza. Si prevede, infine, entro il 2020 lo sviluppo e l’adozione di un sistema informativo unico per la salute mentale, da adottare sia nei servizi dell’adulto, che in quelli dell’infanzia e adolescenza, per favorire una maggiore capacità gestionale e programmatoria.

In Friuli Venezia Giulia le persone seguite dai servizi dei Dipartimenti di salute mentale sono circa 20 mila di cui il 60% sono donne (dati 2016). Le classi di età prevalenti sono quelle comprese tra i 30 e i 49 anni e tra i 50 e 69 anni. I disturbi più diffusi sono quelli dello spettro psicotico (schizofrenia sindrome schizotipiche e deliranti), le sindromi affettive (disturbi di umore) e quelle legate allo spettro ansioso (fobie correlate a stress) che assieme rappresentano più dei tre quarti di tutte le diagnosi. Per la salute mentale degli adulti, i Dipartimenti di salute mentale della Regione hanno investito nel 2016 oltre 63 milioni di euro.

http://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/


Da Marco Cavallo a oggi: i 40 anni della legge Basaglia

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Il Corriere della Sera, 29 aprile 2018

di Elena Tebano

Marco Cavallo uscì dal manicomio una bella domenica di marzo. Azzurro come il cielo di primavera, arrivò fino a Piazza Unità, il cuore di Trieste, accompagnato da almeno 600 «matti». Era il 1973, Marco Cavallo, la pelle di cartapesta e nella pancia i sogni degli internati, era una scultura: doveva il suo nome a un altro cavallo, lui sì in carne ed ossa, che i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Trieste l’anno prima avevano salvato dal macello. Alto tre metri, gli aveva fatto strada Franco Basaglia, psichiatra e direttore della struttura, che con una panchina di ghisa aveva sfondato il cancello di legno che ne bloccava l’uscita.Diventò il simbolo di quei «matti» decisi a non morire chiusi in manicomio. Fino ad allora ci finiva chiunque venisse ritenuto «pericoloso a sé e a gli altri e di pubblico scandalo» come sanciva la legge del 1904. «Fu una grande macchina teatrale per comunicare il cambiamento culturale portato avanti da Basaglia ed altri medici che denunciavano la violenza e l’esclusione dell’internamento», dice oggi Franco Rotelli, psichiatra e presidente della Commissione Sanità del Friuli Venezia Giulia, che quel giorno era lì e nel 1980 succedette a Basaglia alla direzione dei servizi di salute mentale triestini.

Una rivoluzione culturale sfociata il 13 maggio 1978 nella legge 180, che aboliva l’istituzione manicomiale e restituiva dignità e pieni diritti civili ai malati psichiatrici. Ma che oggi, a 40 anni dalla sua approvazione, ancora non può dirsi compiuta: «Siamo a metà del guado. Una volta fatta — spiega Rotelli — la legge 180 è stata subito dimenticata». Non solo perché disponeva che non si potesse più entrare negli ospedali psichiatrici ma non quando uscissero i malati che erano già dentro (alcuni ci sono rimasti fino all’inizio degli anni 2000), ma perché andava costruita l’alternativa. «I servizi per la cura fuori dagli ospedali psichiatrici hanno tardato a nascere e per anni– avverte Rotelli – la loro qualità in giro per l’Italia è stata molto bassa, anche se ci sono luoghi, tra cui Trieste, in cui si è riusciti a costruirne di buoni. Va bene perché i manicomi erano una realtà pesante e nel resto d’Europa ce ne sono ancora tanti. Ma molto rimane da fare».

Intanto sono sempre di più le persone di cui farsi carico: l’Organizzazione mondiale della sanità stima che una persona su 4 nel corso della vita attraversi un problema di salute mentale. «E negli ultimi anni la domanda è cresciuta per impatto della crisi economica che ha aumentato il malessere psicologico» afferma il presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica Fabrizio Starace. Nel 2015, l’anno a cui si riferisce il primo e finora unico Rapporto sulla salute mentale in Italia (Rsm) del Ministero della salute, sono state 777.035 le persone seguite dai servizi di salute mentale. «Varie indagini condotte nel corso degli anni, però, indicano che in Italia ci sono circa 2 milioni di individui che presentano disturbi psichiatrici. A cui vanno aggiunti – prosegue Starace – gli individui a rischio di disturbi ansiosi e/o depressivi: altri 4 milioni e mezzo secondo un’indagine Istat del 2013».

Le risorse disponibili non bastano per assisterli: la rete dei servizi, costituita da Centri di Salute Mentale, centri diurni e strutture residenziali, conta 3.791 strutture in cui lavorano 29.260 dipendenti (57,7 ogni 100 mila abitanti). Un dato medio, che nasconde differenze enormi: si va dal minimo di 20,6 operatori ogni 100 mila abitanti in Molise al massimo di 109,3 in Valle D’Aosta, mentre lo standard individuato dal Progetto Obiettivo del 1999 prevederebbe come minimo 66,6 operatori ogni 100 mila abitanti. «C’è una grave carenza anche di fondi: la Conferenza delle Regioni nel 2001 – aggiunge Starace – aveva stabilito che venisse destinato alla salute mentale il 5% della spesa sanitaria: solo Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna ci arrivano, mentre la media è del 3,5%. L’Italia è oggi il Paese occidentale avanzato che meno investe in questo settore». «La conseguenza – spiega Gisella Trincas, presidente nazionale dell’Unasam (l’Unione nazionale delle associazioni salute mentale, che rappresentano i malati e i loro familiari) – è che la maggior parte dei malati non ha uno psicologo e viene curata solo con i farmaci».

E in assenza di personale adeguato succede che sia ancora diffusa una pratica ereditata dai manicomi, la «contenzione meccanica»: legare i pazienti. «Ricerche recenti – dice Giovanna Del Giudice, portavoce del Forum Salute Mentale – hanno dimostrato che nei reparti degli ospedali destinati al ricovero temporaneo dei pazienti in crisi acuta si contiene nell’80 % dei casi. E questo nonostante la Commissione parlamentare per i diritti umani abbia accertato che legare viola la costituzione oltre che la dignità dei pazienti». Almeno due persone sono morte in Italia in anni recenti dopo essere state legate a un letto d’ospedale per giorni: Giuseppe Casu a Cagliari nel 2006 e Francesco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania nel 2009. Eppure le alternative ci sarebbero. «La persona però – sottolinea Giselle Trincas –deve essere presa in carico nella sua interezza, da un’equipe di professionisti che collabori a un progetto personalizzato di cura, che includa anche la famiglia e la rete affettiva dei pazienti. Servono psichiatri, psicologi, operatori ed educatori che insieme costruiscano una relazione di fiducia col malato. Così guarire è possibile, ci sono persone che sono riuscite a uscire dalle diagnosi più feroci».

Quando le cose funzionano, i malati al Centro di salute mentale trovano lo psichiatra per la terapia farmacologica, gli psicologi per la psicoterapia, soluzioni abitative alternative se hanno problemi a vivere con la famiglia, l’accompagnamento dei tecnici della riabilitazione psichiatrica, laboratori con gli educatori, visite domiciliari degli operatori sociosanitari. E anche i ricoveri nelle fasi acute della malattia vengono decisi con il loro consenso. È un percorso lungo che comprende l’inserimento lavorativo e che spesso, quando le risorse pubbliche non ce la fanno, viene portato avanti dal volontariato: «Noi cerchiamo di costruire – dice Beatrice Bergamasco, presidente di Progetto Itaca, la più grande onlus italiana specializzata su questo tipo di assistenza – una rete di relazioni intorno alle persone di cui ci occupiamo: facciamo formazione con i familiari, organizziamo i fine settimana e attività diurne nel nostro centro e abbiamo anche una «job station», un centro in cui le persone lavorano con il telelavoro per diverse aziende con cui collaboriamo».

Sono ancora pochi oggi invece i centri del servizio sanitario che riescono a seguire i malati fino in fondo nel reinserimento sociale. Ma le esperienze che funzionano, come quelle in Friuli Venezia Giulia eredi di Basaglia, o a Modena, in Emilia Romagna, dove centinaia di persone sono coinvolte in percorsi di inclusione sociale lavorativa, dimostrano che è possibile. Certo, servono risorse adeguate e una cultura che «non riduca la malattia mentale alla medicalizzazione – sintetizza Franco Rotelli – L’ultimo manicomio che ancora rimane in piedi è quello farmacologico». Solo quando la salute mentale saprà curare tutti gli aspetti della vita dei malati potrà dirsi davvero compiuta la riforma di 40 anni fa.

Articolo da –>http://www.slegalosubito.com/2018/04/29/marco-cavallo-oggi-40-anni-della-legge-basaglia/?utm_campaign=shareaholic&utm_medium=facebook&utm_source=socialnetwork

L’equazione umana: nell’ex manicomio di Trieste 40 anni dopo la legge Basaglia (Video)

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Quaranta anni dopo la chiusura dei manicomi in Italia, viaggio nell’ex manicomio di Trieste da dove è partita la rivoluzione di Franco Basaglia.

Di Lidia Catalano

Riprese e montaggio di Stefano Scarpa

Dal manicomio alla libertà. L’ultima paziente di Trieste. “Salva grazie a Basaglia”

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Giù i muri. Franco Basaglia, in una foto del 1973, insieme a un gruppo di pazienti abbatte una delle recinzioni dell’ex manicomio di Trieste 1978. Quarant’anni fa il via libera alla legge sulla chiusura dei manicomi in Italiadi Lidia Catalano

Antonella è stata l’ultima a lasciare la città dei matti. È così che chiamano ancora oggi, bonariamente, l’ex manicomio di Trieste, perno della rivoluzione guidata da Franco Basaglia e culminata, 40 anni fa, nell’approvazione della legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia. A guardarlo oggi, questo complesso vivace di padiglioni giallo ocra incastonato nel parco collinare di San Giovanni, con il suo viavai di studenti e professori della vicina Università, triestini che fanno jogging con il cane e bambini che giocano a pallone, si fatica a immaginare che per decenni sia stato un contenitore di violenze, diritti negati, identità sradicate. Per trovarne traccia bisogna arrampicarsi per sei chilometri sull’altopiano del Carso e suonare al campanello di una casetta con giardino nel borgo di Opicina, dove abita una delle ultime testimoni di quello che Basaglia definì «l’annientamento dell’individuo messo in atto dall’istituzione psichiatrica». Ci accompagna Carla Prosdocimo, una vita spesa come operatrice all’ex manicomio e oggi amministratrice di sostegno di Antonella. «La Anto – racconta – non è stata riconosciuta alla nascita. Così nel 1951 è finita in un orfanotrofio, dove nel giro di pochi anni le sue condizioni sono precipitate». Il destino di Antonella è racchiuso in due certificati del pediatra. «Il primo, quando ha poco più di un anno, dice che la bambina ha qualche difficoltà di sviluppo del linguaggio ma se inserita in ambiente idoneo può recuperare». La raccomandazione viene ignorata, tant’è che quattro anni dopo il medico dichiara: «Antonella è affetta da frenastesia di grado elevato». Tradotto: intelligenza prossima allo zero, nessuna possibilità di recupero.

A nove anni, ancora bambina, Antonella varca per la prima volta le porte del manicomio di Trieste. «L’hanno mandata al Ralli, il reparto infantile. Un ricettacolo di tutta l’infanzia perduta, povera, abbandonata. Ci finivano anche tanti profughi istriani, figli di nessuno. Sai come canta Cristicchi in quella canzone che ha vinto a Sanremo? La mia patologia è che sono rimasto solo. Ecco, la solitudine era la loro malattia».

Antonella adesso vive insieme ad altri due ex internati in una casa accogliente, con il parquet nella camera da letto e il caminetto nel soggiorno. Alla parete c’è un grande quadro realizzato durante un laboratorio di pittura. Sulla libreria, in file ordinate, gli album delle vacanze: la Maremma, l’isola d’Elba, le gite al borgo carsico di Samatorza, le estati al mare in Croazia. «Adora prendere la tintarella – racconta Carla -. In questo è proprio una triestina doc, perché qui tutti stanno al sole da marzo a ottobre e anche nelle giornate limpide d’inverno. Credo che per lei rappresenti finalmente l’opportunità di vivere il proprio corpo come veicolo di benessere e non di dolore».

A 13 anni Antonella passa dal padiglione dei bambini a quello delle donne agitate. «Il famigerato “O”, dove elettroshock, camicie di forza e celle di isolamento sono la quotidianità». Per i medici però la terapia non è sufficiente. La ragazza continua ad essere inquieta, aggressiva verso se stessa e gli altri. Chiedono che venga sottoposta a lobotomia frontale. «L’hanno mandata a Torino per l’operazione, poi è tornata qui», spiega Carla.

Nel 1971 a dirigere il manicomio di Trieste arriva Franco Basaglia, chiamato dall’allora presidente della Provincia Michele Zanetti a completare l’opera di smantellamento dell’istituzione psichiatrica già avviata dal medico veneziano durante la precedente esperienza a Gorizia. «Quando mise piede per la prima volta in manicomio fu colpito dall’assenza», ricorda Peppe Dell’Acqua, uno degli allievi e divulgatori del pensiero basagliano. «Vide davanti a sé centinaia di corpi ma nessuna persona. Gli individui erano ridotti a oggetto, non c’era altro che la loro malattia».

Inizia così una lenta opera di restituzione dell’identità, a partire degli effetti personali, gli abiti, le fotografie, le spazzole per i capelli. Basaglia chiede a medici e infermieri di liberarsi del camice e del loro ruolo di carcerieri, di semplici tutori della tranquillità sociale. «Per la prima volta – spiega Dell’Acqua – veniva messo in discussione l’approccio positivistico alla medicina e il rapporto di sottomissione gerarchica tra medico e paziente».

Nel 1973 Basaglia rilascia un certificato su Antonella, che allora ha 22 anni e ha smesso da tempo di parlare. «La paziente non può restare in cattività nel padiglione agitate. Bisogna iniziare con lei un graduale percorso di recupero». Viene trasferita in una casetta all’interno del parco di San Giovanni, insieme ad altri casi difficili. «Era completamente assente – ricorda Carla – passava la giornata seduta su una panchina a dondolarsi. Aveva assunto quell’atteggiamento di rinuncia tipico di chi sa che la propria parola e la propria esistenza non hanno alcun valore».

Giorno dopo giorno, lentamente, Antonella recupera il coordinamento motorio, inizia a partecipare ad attività e laboratori e trasforma i pochi suoni gutturali che escono dalla sua bocca in parole e frasi di senso compiuto. «Non esistono persone con cui non è possibile intraprendere un percorso terapeutico – spiega Roberto Mezzina, attuale direttore del dipartimento di salute mentale -. Con Antonella è stato fatto quello che ancora oggi caratterizza il “modello Trieste”, scelto come riferimento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità». Un modello che mette al centro la guarigione non in senso puramente clinico, ma della persona nel suo complesso. «Ci riusciamo grazie a una struttura di intervento ramificata sul territorio, con quattro centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno, a cui ogni anno si rivolgono circa 5000 utenti. Abbiamo medici e operatori che seguono le persone a domicilio e una rete di associazioni e Cooperative sociali che organizzano attività finalizzate all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo. Grazie a questo approccio siamo riusciti ad abolire ogni forma di contenzione fisica, purtroppo ancora diffusa in Italia, nonostante rappresenti una delle più terribili violazioni di diritto che la psichiatria possa compiere». Oggi Antonella ha una casa con nome e cognome sul campanello, due volte alla settimana va a trovare i suoi amici al «Posto delle fragole», l’affollatissimo bar del San Giovanni gestito da pazienti con disturbi psichiatrici e frequentato da tutti i triestini. «Ogni tanto – racconta Carla – la sera va a cena fuori. Sa che cosa ordina? Gli spaghetti. Per lei sono il frutto proibito. In manicomio non glieli davano, perché le forchette erano considerate oggetti pericolosi. Si mangiava solo riso o pasta corta, col cucchiaio». Per Antonella gli spaghetti sono simbolo di libertà. «Quella libertà che senza la battaglia combattuta da Basaglia non avrebbe mai potuto assaporare».


Da vedere anche il videoreportage: 40 anni dopo la legge 180:

La foto: Giù i muri. Franco Basaglia, in una foto del 1973, insieme a un gruppo di pazienti abbatte una delle recinzioni dell’ex manicomio di Trieste 1978.

Articolo da –>http://www.lastampa.it/2018/05/04/italia/dal-manicomio-alla-libert-lultima-paziente-di-trieste-salva-grazie-a-basaglia-lnS9XbCYiBaachwKEebYiK/pagina.html

40#180 Italiani per caso: biografia alternativa di una nazione

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the-red-thread-string-art-Step-6aFranco Basaglia, per i quarant’anni della l. 13 maggio 1978, n. 180 (*).

di Daniele Piccione.

Rievocare il profilo di Franco Basaglia, oggi,si rivela arduo per almeno due ragioni. La prima è che,tornando alla  sua vicenda di vita, si rimane sormontati da un senso di inadeguatezza. Una  sensazione che sorge di fronte al fatto che, mai come per lo psichiatra veneziano, vale il paradosso di tanti vantaggi addotti a molte persone da un uomo solo, di cui il tempo stenta a riconoscere gli sterminati meriti individuali. La seconda ragione che attanaglia il lettore delle tappe dell’esperienza umana e professionale di Basaglia risiedein quell’aura che spesso si riconosce nei personaggi pubblici che segnano un’epoca. E’ la capacità di scartare e rompere con il convenzionale, di alternare fughe in avanti a improvvise espansioni della prospettiva culturale.  Si aggiunge, infine, l’incertezza sul se preferire il Basaglia dalle mature intuizioni teoriche o l’umanista capace di trasformare la società, scavando a mani nude nelle contraddizioni dei rapporti di forza che percorrono l’Italia del secondo Novecento.

Così,annodando i fili del profilo di intellettuale, di medico, di interprete dei fenomeni sociali e politici di un tempo convulso, si rimane impressionati dalla capacità di precorrere la propria epoca.  L’influenza larga e possente del pensierobasagliano, quasi resiliente al naufragio cui sembrò destinarlo il revisionismo della legge antimanicomiale – in questi giorni compie quaranta primavere -  si fonde con una strana forma di solitudine, difficile a definirsi ma che diviene cifra della persona.

Franco Basaglia nasce a Venezia nel 1924 e il suo percorso di giovane uomo è attraversato da due linee d’ombra distinte, ma drammaticamente convergenti. La prima èvarcata al momento del contatto con il carcere, il luogo di coercizione per eccellenza. Dalla detenzionerisulta segnato indelebilmente: la prigionia è vissuta da giovanissimo attivista della Resistenza e anticiperà di quasi un quindicenniol’ingresso nelmanicomio di Gorizia.

Ma nel passaggio tra l’una e l’altra linea, si compie anche una parabola autosufficiente e, a suo modo, paradossalmente propizia. Franco Basaglia è rifiutato dall’Università, è respinto dalla psichiatria accademica. Dunque, quando nel 1961 assume la direzione del manicomio provinciale di Gorizia, zona di confine per eccellenza, l’ingresso nell’istituzione totale con le stimmate del potere massimo, dovrebbe assumere il senso di un ripiego, quasi una sorta di compensazione.

Sulle cause di questa caduta dall’olimpo della psichiatra accademica, molto chiarisce un suo scritto del 1953 che apre la raccolta pubblicata in origine da Einaudi e di recente rieditata per i tipi de Il Saggiatore. All’epurazione contribuisce certamente l’abbraccio dell’indirizzo fenomenologico, l’istintivo rifiuto per ildeterminismo e per l’organicismo che dominavano il campo degli studi accademici negli anni cinquanta. La fuga dagli schemi imperanti non è ammessa; la storiografia sulle successive divergenze tra la dottrina di Basaglia e la psichiatria d’accademia si incaricheranno di dimostrarlo a più riprese. L’approdo in manicomio,allora,dovrebbe essere insieme punizione e dismissione di un corpo estraneo. Eppure, Gorizia è, a suo modo, una rivelazione. Qui non c’entra lo zeitgeist dell’assunzione delle funzioni di direttore; quello che è segnante è la sensibilità già maturata per le istituzioni escludenti, per i dispositivi escludenti, per la coercizione e la reclusione.

In Basaglia, si realizza così la fusione tra l’esperienza del carcere e quella del manicomio. A conclusione di questa prima stagione di vissuto personale, sta l’autentica agnizione che lo immette a piena forza e in anticipo nello scenario degli anni sessanta. Vede oltre e a fondo, nella posizione del se stesso recluso giovane perché avversario politico, e nel suo essere direttore del manicomio chiamato a governare e decidere dei destini degli internati. L’intuizione vivida lo lancia subito sulle piste del tema che segnerà una vita intera: il potere.

In questa riflessione si situa innanzitutto la veemente condanna verso le istituzioni totali pronunciata subito, al primo contatto con il manicomio.

Quando entrai per la prima volta in una prigione ero studente in medicina. Lottavo contro il fascismo e fui incarcerato. Mi ricordo della situazione allucinante che mi trovai a vivere. Era l’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda. Mi trovai in una situazione analoga, una intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l’istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese”([1]).

2. Si deve arrestare qui la prima parte di un profilo biografico in cui si compongono gli orientamenti fenomenologici, l’influenza dell’esistenzialismo di Sartre e Heidegger, la critica all’organicismo e al determinismo positivistico, la piena consapevolezza del bisogno di mettere in discussione le istituzioni del controllo, il potere sui corpi, l’esigenza insopprimibile di demolire il ruolo delle scienze come frutto e strumento servente del potere nelle sue forme cangianti, la lotta all’ospedale psichiatrico come deposito escludente del malato dalla vista della collettività. Soprattutto, si intuisce già una peculiare sensibilità nel rapporto tra elaborazione teorica e dimensione concreta del confronto con le esigenze sociali, l’anomia dei posti che ospitano, trattengono, internano. C’è già molto, si dirà.

Ma non tutto.

La storia di una vita si trasforma proprio dal 1961 e ha inizio la lunga marcia nelle istituzioni. Un percorso demolitivo che passa per due sentieri. Uno fisico, intriso di esperienze umane intense e dirette, quello delle città della de-istituzionalizzazione: Gorizia, Parma, Trieste e, infine, per uno scampolo troppo breve, Roma.Avventure e tappe costellate anche dasconfitte tattiche, momenti di soccombenza e ripiego. Ma al loro profilarsi la via si apre sul secondo fronte: quello dell’elaborazione teorica che segnerà le grandi convergenze con i temi generali intorno all’apogeo del 1968. Si pensi a “L’istituzione negata”, e all’attualissimo,ma quasi negletto saggio su “Esclusione, programmazione e integrazione”, che dovrebbe essere riletto oggi da tutti gli studiosi del diritto costituzionale quale potente richiamo ad elaborare sempre nuovi ed efficaci tecniche di limitazione del potere, non solo di quello psichiatrico.

Si giunge, infine, ai contributi preparatori della grande svolta triestina, quelli che precedono l’attacco frontale all’ospedale psichiatrico, ai luoghi dell’internamento già investiti dauna legge riformista che, nel frattempo, ha occupato il campo. Eppure la l. n. 431 del 1968, la c.d. riforma Mariotti, non taglia le ali al cambiamento, non arresta lo slancio rivoluzionario che – al netto di tante polemiche fuori luogo sull’impiego di questo aggettivo – rimane componente indefettibile dell’opera di Basaglia.

Si sarebbe tentati di scorgere qui una tenacia, una indisponibilità alla mediazione e al cedere al miglioramento gradualista. Ma quando si evocano queste doti del pensiero e dell’azione del nostro italiano per caso, si torna a sperimentare quel senso di inadeguatezza di cui si diceva in apertura, si avverte l’insoddisfazione di chi, in fondo, percepisce di non aver capito. Non bastano neanche i miti e l’epica di una stagione gloriosa a cogliere quel che davvero Franco Basaglia seppe disegnare tra il 1971 e il 1978. Quale la chiave che consente di tramutare un’esperienza unica di liberazione in un paradigma unico al mondo di assistenza psichiatrica senza più il manicomio sullo sfondo? Quale la miscela che riesce ad integrare la psichiatria antimanicomiale in una soluzione di legislazione avanzata e mai più replicata?

Nel mio caso, in risposta a domande tanto complesse, soccorre il ricordo per interposta persona: riflessi e frammenti di un’epoca.E’ quel che mio padre seppe raccontarmi del “Maestro indimenticabile” come gli si rivolse, dedicando a Basaglia il suo eretico manuale di psichiatria([2]).

PerFranco Basaglia, infatti, passava un’inarrestabile carica di previsione che ne canalizzava le risorse di ideazione e persino di fantasia. Si vorrebbe dire di una forma di vitalismo. Ma queste doti non sarebbero bastate all’impresa, senza quel senso dell’agire quotidiano per cui le cose si devono fare. Si badi, non era un semplice richiamo al pragmatismo e al muoversi per modificarsi, quando ormai cresceva la consapevolezza di poter indirizzare fenomeni evolutivi complessi.Tutto ciò trovava un‘eco costante nella celebre frase per cui:

l’ ideologia è libertà mentre si fa e oppressione quando si è costituita”([3]).

Questo richiamo sartriano, tante volte citato quasi ad insidiarne il valore paradigmatico dell’intera esperienza antistituzionale, può invece valere come chiave determinante per cogliere il dinamismo della stagionebasagliana a Gorizia e Trieste e poi la sua influenza febbrile a livello nazionale. Talvolta la critica, la stampa, il mondo degli studi sono rimasti sconcertati di fronte a quella che poteva apparire un’oscillazione pendolare tra riformismo e massimalismo, tra dialogo con le istituzioni ed empito demolitivo, tra rottura con la psichiatria europea e sua ricostruzione dall’interno. Ma la tendenza all’evoluzione, alla proiezione oltre gli ostacoli ha segnato in modo indissolubile la vita di Franco Basaglia, accompagnandone la lucida visione in frangenti delicati e disperanti.

Penso alla scelta di tempo per passare dall’apertura dei reparti del manicomio di Gorizia, alla demolizione definitiva di quello di Trieste; al grande – equivocato e spesso taciuto – sforzo per costruire una rete di servizi territoriali adattiva, duttile e variegata in base alle specifiche città aperte e liberate dall’esclusione asilare; torna il dilemma che accompagnerà la vigiliadell’entrata in vigore della l. 13 maggio 1978, n. 180, quello sul se l’assistenza psichiatrica dovesse entrare nell’alveo della costruzione del Sistema Sanitario nazionale o dovesse, almeno in parte distaccarsene, per segnare la specificità dell’esperienza e dell’eziogenesidel disturbo mentale e il rifiuto di facili letture organicistiche.

A questa altezza del pensiero basagliano si situa il maturo legato per l’oggi.

In un tempo aspro in cui proprio l’organicismo, la farmacopea, i nuovi determinismi preannunciano il riproporsi dei luoghi dell’istituzionalizzazione, si profilano all’orizzonte gli effetti di veementi spinte ordinamentali alla malintesa tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Nel secondo Basaglia si ritrovano tutti gli antidoti necessari. La risposta del territorio e della comunità, la rielaborazione delle soluzioni che erano state abbozzate da Maxwell Jones e dal comunitarismo psichiatrico francese, le prime intuizioni sulla prevenzione e i semi fertili per quelli che, ai nostri giorni, Michael Marmott([4]) ha ribattezzato i determinanti sociali della salute mentale, erano già presenti nelle pagine degli scritti basagliani che vanno dal 1971 al 1976. In fondo, molto si coglieva già solo nel rievocare, al cospetto di Sergio Zavoli che lo intervistava per “I giardini di Abele”, il proverbio calabrese del “chi non  ha non è”.

Seguirà poi un quinquennio d’oro, quello che prepara la società italiana alla grande e definitiva rivoluzione manicomiale, trovando la via per coagulare forze politiche, slanci libertari, soluzioni pioneristiche di deistituzionalizzazione. La legge del 1978 è il frutto più maturo di un’epoca, un capolavoro di legislazione troppo poco studiato. Folgorante convergenza dell’istruttoria parlamentare, preceduta dall’unica vera sperimentazione sociale sul terreno che abbia anticipato un atto di legge in epoca repubblicana, sostenuta dalla forza propulsiva del referendum radicale, la legge antimanicomiale è una pagina tanto straordinaria quanto svilita, osteggiata e travisata.

E invece tra le sue pieghe, a saperne ascoltare i valori compositivi, si vede quanto delle esperienze triestina e goriziana fosse transitato in un testo che parlava alla coscienza collettiva di un Paese attraversato da laceranti contraddizioni. E qui la drammatica sincronicità con i cinquantacinque giorni dell’attacco brigatista al cuore dello Stato, è ancora tutta da analizzare sul piano dell’immaginario collettivo di un’intera nazione. Infatti, è inutile negare che la legge fu anche il frutto più maturo di quella collaborazione tra i migliori slanci delle culture politiche del tempo. E anche più tardi,in quel 1978annusmirabilis del Parlamento repubblicano, le convergenze condensate in formule legislative tanto illuminanti e presbiti, salvo sparuti casi, non si ripeteranno.

Come se nella legge sull’assistenza psichiatrica vi fosse l’idea di quello che il paese sapeva di poter essere, ma non riuscì mai del tutto a divenire.

3. E veniamo, dunque, al terzo Basaglia con cui questa rievocazione si immerge in vicenda privata e personale. Dopo la legge 180,sboccia un’apertura larghissima del pensiero. Una trilogia di scritti suggerisce molto dell’evoluzione finale della dottrina di Franco Basaglia tra il finire del 1978 e i giorni che preludono al deflagrare della malattia che se lo porterà via, nell’estate del 1980. Infatti, le immortali “Conferenze brasiliane”, lo scritto precursore (è in realtà di un decennio prima), “Lettera da New York:Il Malato artificiale” e lo schema preparato per le interviste ai segretaridei partiti, sul significato e l’attuazione della riforma psichiatrica, lasciano scorgere una dimensione cosmopolita e lo slancio per l’effettività e l’attuazione della legge, subito intuito come l’orizzonte verso cui rilanciare la sfida.

Il Basaglia delle Conferenzebrasiliane si confronta, certo, con le vene aperte del sub-continente americano. Ma quanto spesso cita l’antimodello statunitense, durante le conferenze di Rio de Janeiro e di Belo Horizonte. Non è un caso. Basaglia torna a tratti sugli anni in cui aveva sperimentato i danni di certe politiche democratiche di apparente de-istituzionalizzazione in nord-america, evidenziandone gli equivoci, gli effetti disastrosi, perché alla chiusura dei grandi istituti escludenti, aveva fatto seguito il vuoto di tutela, la deriva nel resto di niente dell’assistenza. Quanto coraggio nell’affrontare le mancanze delle politiche sanitarie kennedyanea partire dal 1961, sostenendo lo iato del nord-america con il Brasile che, per sua parte, sembrava lentamente svegliarsi dal maglio annichilente della repressione e della dittatura.

Ma nelle Conferenze, ancora oggi da far leggere nelle scuole di ogni ordine e grado, si scorge una spinta irrefrenabile alla diffusione di un modello duttile di liberazione che è circondato da una ricca carica di emotività e di indignazione. In alcune pagine, che ritraggono l’esito, sulla persona Basaglia, di momenti terribili di quel viaggio esplorativo nel cuore delle istituzioni brasiliane, vi sono momenti di dolore lancinanti per le proporzioni dello scandalo: la repressione del dissenso, la marginalità e le minoranze etniche che divengono giganteschi bacini di raccolta per gli ospedali psichiatrici brasiliani. Basaglia torna a vedere in prima persona il grande internamento. Sa ormai della forza magnetica delle istituzioni totali. La loro irrefrenabile capacità di saturarsi annichilendo le persone, reificandole, disumanizzandole. Ecco perché, nelle Conferenze, si avverte un senso di impotenza, di malinconia che non è mai resa, ma porta sconforto e impellente bisogno di risposte.

E queste, come sempre, non mancano. Fioriranno anche nei decenni, se è vero che il Brasile è rimasto per sempre avvinto e legato, quasi si direbbe ultra vires, al centro di Trieste e alla collaborazione con persone che hanno fatto, di quei giorni, il proprio momento di scoperta e comprensione.

Eppure, toccherà alla beffarda e disperata penna di Roberto Bolaño, ritrarre la sopravvivenza delle grandi istituzioni del contenimento e della repressione nell’America Latina. Le pagine dedicate ai manicomi del presente,ne “I detective selvaggi”([5]), infatti, sono attraversate da parole  che sembrano dialogare a distanza con la traccia fertile lasciata da Basaglia in quel 1979. E’ una sorta di tacito assenso sulla condanna delle disumane istituzioni della violenza. Di più,un richiamo al loro significato intrinsecamente politico.

Poi, nella “Conversazione sulla legge 180”, finito il decennio che la aveva prodotta, Basaglia torna ad intuire i grandi tornanti che di lì a poco, marchieranno l’epoca del riflusso. Eccolo dunque preoccuparsi del fatto che:

Oggi la scuola, gli intellettuali, i giovani non producono niente se non autodistruzione”.

In questa visione sconsolata, affiorano tratti comuni al pensiero dell’ultimo Pasolini. Il che – sia detto per inciso – testimonia di un filo rosso tra i nostri italiani per caso di questo ciclo di incontri ferraresi.

4. Concludo con alcuni ricordi personali che debbo proprio a mio padre, che di Basaglia fu capace di illustrare a me e ad altri le gesta e i meriti. Si tratta di memoria personale, certo, ma che è sollecitata dalla rilettura periodica di uno scritto, in genere considerato alla stregua di opera minore, ma in realtà presago dei tempi.

Brooklyn, 1969. Basaglia tira le fila di un’esperienza di studio del nuovo modello di tutela della salute mentale impiantato in America con il lancio della grande società delineata dalle amministrazioni democratiche. Non si fa ipnotizzare. Sa che il modello dei nuovi centri di psichiatria tollerante sorti negli Stati Uniti nell’autunno del 1963, sulla base della  psichiatria di comunità in voga nel mondo anglosassone, non possono divenire istituzioni della libertà. Basaglia tratteggia una splendida lezione di diritto costituzionale, il suo pensiero si fa universale e preconizza quel che accadrà ai sistemi tecnologici dei decenni a venire. Tutto si condensa e si spiega e davvero emerge la grande eredità: condurre la malattia mentale sul piano della tutela del diritto sociale, rompendo il paradigma della privazione della libertà personale. Costruire sui territori, cercando l’inclusione delle città e delle comunità che curino, abbandonando la segregazione come istinto riflesso. Avere fiducia nella legge dello Stato che possa mutare lo scenario,battere sul campo la “persistenza del manicomio”([6]), pur sapendo che

l’applicazione della legge sarà dunque tanto più possibile quanto più si aggregherà dal basso una volontà di superare dal versante dell’organizzazione dello stato, storiche carenze ed arretratezze e dal versante della popolazione la storica assenza o distanza dalla gestione delle istituzioni”([7]).

Rileggere quelle sue parole incute quasi un senso di disagio. Già si annuncia tutto: il recedere del Welfarepreceduto da una stagione di assistenzialismo proclamato come insostenibile; il fallimento dei servizi territoriali se “alle loro spalle” vigilano e rimangono le istituzioni della violenza; la truffa delle etichette che pochi anni dopo verrà colta, con riguardo al carcere, da Stefano Rodotà:

finalmente abbiamo cominciato a specchiarci nelle carceri speciali e cominciato a chiederci se esse siano solo un incidente di percorso o se in esse è anticipato il nostro futuro, se già in quei luoghi possono cogliersi i segni di una incipiente democrazia autoritaria“([8]).

Dunque, Basaglia tocca con mano i temibili tiranti del nostro tempo: la lotta alla marginalità attraverso subdoli schemi di internamento, il progresso come tecnologia spersonalizzante che torna a compiere misfatti, gli inquietanti incroci tra emotivi bisogni di sicurezza e sacrifici occulti della libertà personale.

Quando da adolescente lessi quelle pagine non le capii.

Cercai una guida in mio padre. E piuttosto che spiegarmi, lui scelse un’altra via, senza che io me ne accorgessi. Quella dei ricordi personali, dei dettagli. Impressioni rimastegli impresse dei suoi ultimi rapporti con il Maestro. E allora rivedo, ora che nessuno può più ricordarlo, lui che andava a lavorare al San Giovanni di Trieste, portandomiin Vespa all’asilo che sorgeva all’interno  dell’ospedale psichiatrico abbattutoe sconfitto. Già cominciava a trasformarsi nell’utopia possibile che sarebbe rimasta lì, a ricordarela stagione del cambiamento.

E rammento il racconto di mio padre esitante, conclusosi il turno di guardia nell’ex ospedale: prendere parte alla riunione di fine giornata con Franco Basaglia e gli altri, o tornare a casa da mia madre e da me infante. La prima opzione implicava sottoporsi ad un giudizio ferreo, ad una verifica estenuante delle scelte compiute e degli errori commessi.

Mi narrava, infine, di quando venne il momento del ritorno a Roma, una volta divenuto primario psichiatra, con la speranza concreta di avere al fianco il Basaglia della nuova impresa, quella che non riuscirà mai a condurre a compimento per la terribile malattia che se lo prese. L’idea era, confrontandosi con la metropoli che già si annunciava assai ostile, di abbattere il Santa Maria della Pietà, mentre Basaglia era stato chiamato acoordinare la nuova psichiatria regionale nel Lazio. Dunque, provare ad incidere direttamente da Roma, su Roma. Mio padre mi diceva di una qualche incertezza del Maestro nel raccogliere la sfida, come presagendo una debolezza che si faceva strada in lui. O forse c’era dell’altro, e anche Basaglia aveva cominciato ad avvertire le difficoltà di una vita trascorsa ad aprire contraddizioni “inseguendo la verità, e affrontando con coraggio i segni della dissoluzione della scuola e di tutto il resto che già si profilavano”([9]).

Infine, il tragico e laconico ricordo dell’ultimo commiato in ospedale, di cui papà si vergognava di parlare perché, nei giorni finali dell’estate del 1980, Basaglia non vedeva più. Mio padre, quando arrivava a quella parte del racconto, taceva per un attimo. Un istante in cui sentivo,come scrive Scott Fitzgerald, quanto “eravamo stati sempre insolitamente comunicativi, nonostante il nostro riserbo”([10]). E allora io, più tardi, quando si faceva sera,  tornavo a guardare il grande ritratto di Franco Basaglia che campeggiava nello studio di casa. Sotto la sua immagine serena, ritratto mentre sfoglia un giornale, c’è scritto, con l‘ultima parola vergata a caratteri cubitali:

Nella logica del potere istituzionalizzato sia del carcere che del manicomio, non esiste differenza: la logica istituzionale è la stessa, perché qualunque cosa dica il pazzo resta pazzia e qualunque cosa dica il delinquente resta delinquenza.

Perché il rapporto istituzionale è solo un rapporto di potere che serve a perpetuare il dominio, la discriminazione attraverso la stigmatizzazione. Ricordiamo dunque che nei loro confronti, abbiamo una sola superiorità: la FORZA”.

Daniele Piccione


* Il presente scritto rappresenta la rivisitazione corretta dell’intervento tenuto a Ferrara per il ciclo “Italiani per caso: biografia alternativa di una nazione”, avente ad oggetto l’itinerario di vita di Franco Basaglia. Ringrazio il Professor Andrea Pugiotto per l’invito a partecipare ad un percorso che ritrarrà, nelle prossime settimane, i profili di Alexander Langer, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini e Marco Pannella. Il contributo è destinato anche ad un successivo  volume, volto alla celebrazione dei quaranta anni della l. 13 maggio 1978, n. 180.

([1]) Il brano si trova, con minime modificazioni, al principio del saggio F. Basaglia, La giustizia che punisce, in, Scritti, II, Einaudi, Torino, 1982, p. 185.

([2]) R. Piccione, Manuale di psichiatria, Bulzoni, Roma, 1994.

([3]) L’espressione è impiegata e analizzata a fondo in F. Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, In Scritti, II, Einaudi, Torino, 1982, p. 65.

([4]) M. Marmott – R. Wilkinson,  Social Determinants of Health (2nd ed.), Oxford/New York, 2006.

([5]) R. Bolaño, Los detectives salvajes, 1996, tr. It. I detective selvaggi(cur.M. Nicola, 2009), Sellerio Editore, Palermo, p.244  e ss. Se si vuole, si rimanda al nostro piccolo studio D. Piccione, Letteratura per la salvezza. Roberto Bolaňo e Franco Basaglia, 2015, in www.forumsalutementale.it

([6]) F. Basaglia, Legge e psichiatria, In Scritti, II, Einaudi,  Torino, 1982, p. 457.

([7])  F. Basaglia, Ibidem, p.465.

([8]) S. Rodotà, L’Asinara un cuore dello Stato?. In La Repubblica, 9 settembre 1977.

([9]) Sono le profonde ed evocative parole rivolte alla memoria degli ultimi giorni del costituzionalista Carlo Esposito, da parte dell’amico S. Satta, Quaderni del diritto e del processo civile, Cedam, Padova, 1970, p. 128.

([10]) F. S. Fitzgerald, The great Gatsby, 1925, tr. It., Il Grande Gatsby, (cur. F. Pivano, 1974), Mondadori, Milano, p. 1.

Il fantasma del manicomio Perché, a quarant’anni dalla sua approvazione, la legge Basaglia è ancora un modello legislativo.

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scan10Articolo dVanessa Roghi , storica, lavora a Rai Tre per La Grande Storia. È autrice di “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro il potere delle parole” (Laterza 2017).

Il 13 maggio ricorrono i 40 anni dall’approvazione della cosiddetta Legge Basaglia (legge 180): da giorni si susseguono sulla stampa commemorazioni e ricordi, spesso commoventi, che tendono a isolare come irripetibile la grande rivoluzione compiuta nel 1978, ma il rischio è che, come in ogni anniversario, malgrado i numerosi approfondimenti, la “legge che ha chiuso i manicomi” rimanga inchiodata alla sua icona, la sequenza di un film epico o tragico a seconda di chi lo racconta perdendo così la sua funzione più importante e radicale: quella di essere, ieri come oggi, il metro su cui misurare la mutabilità del concetto di follia e la nostra possibilità di prenderci cura della malattia mentale, come corpo sociale, nella sua interezza. La 180 infatti ha resistito perché ha incontrato i bisogni di una società in trasformazione, ma anche perché è stato possibile interpretarla in maniera restrittiva, come un provvedimento dedicato ai soli “matti”.

Vorrei provare, dunque, a superare l’ingorgo celebrativo per riportare alla luce alcune questioni nevralgiche che mi stanno a cuore, come storica, ma soprattutto come essere umano, come avrebbe detto Franco Basaglia, perché il fantasma del manicomio continua ad aleggiare nella società, la contenzione è praticata, l’elettroshock pure. E gli psicofarmaci sono diventati il nuovo manicomio chimico.

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40#180Diritti, Libertà, Servizi per la Salute Mentale. Roma 11 e 12 maggio 2018. Grande partecipazione all’incontro nazionale

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salute-mentale-11-12-mag-2018zNel quarantesimo della Legge 180, più di trecento persone, provenienti da tutta Italia, hanno affollato la Protomoteca del Campidoglio per l’incontro nazionale, promosso da Unasam con diverse organizzazioni – Conferenza per la salute mentale nel mondo F. Basaglia, Fondazione Franca e Franco Basaglia, Siep Società italiana di Epidemiologia Psichiatrica, stop OPG, Psichiatria Democratica, Wapr Italia, Forum Salute Mentale, Rete italiana Noi e le Voci, Fondazione Di Liegro, Cittadinanzattiva, Antigone, A Buon Diritto, La Società della Ragione, Forum Salute in Carcere, Gruppo Abele” e con il Patrocinio di: “CAMERA DEI DEPUTATI” – “Roma Presidenza Assemblea Capitolina”.
E’ stata conferita all’evento la MEDAGLIA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

I promotori hanno presentato un Appello che valuta lo stato di attuazione del diritto alla tutela della salute mentale in Italia, chiede a Parlamento, Governo, Conferenza delle Regioni e Anci sia organizzata una Conferenza nazionale sulla Salute Mentale e indica gli obiettivi per ottenere Diritti, Libertà, Servizi per la Salute Mentale.

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La legge Basaglia compie 40 anni. Mattarella: “Non lasciare sole famiglie”

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mattarella-1030x615ROMA – Proprio oggi compie 40 anni la legge 180, nota a tutti come legge Basaglia, che rivoluzionò l’assistenza psichiatrica in Italia chiudendo i manicomi: fu approvata in Parlamento il 13 maggio 1978.

“Il 13 maggio di quarant’anni fa il Parlamento italiano approvò una riforma fortemente innovativa che modificò la concezione e i criteri dell’assistenza psichiatrica superando la logica di mera custodia dei manicomi”, ricorda in un messaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

“Si tratta di norme che hanno collocato l’Italia in posizione d’avanguardia e, ancora oggi, costituiscono un motivo d’orgoglio per la nostra cultura e la nostra civiltà”. Una riforma che per il presidente Mattarella, “continua a rappresentare un punto di riferimento nel confronto internazionale e quella legge segna ancora un punto di svolta“.

“La migliore garanzia del rispetto della dignità delle persone con malattia psichica è il sostegno alle famiglie, con la possibilità di accedere a terapie adeguate su tutto il territorio nazionale: ogni sforzo deve essere destinato allo scopo di non lasciare soli coloro che devono accudire i malati“.

Il Presidente della Repubblica ha inoltre ribadito che “non possono esistere luoghi o categorie entro i quali gli individui smettono di essere persone – aggiunge Mattarella -. La Legge Basaglia sfida la società a diventare un contesto appropriato per tutti, imponendo nelle politiche pubbliche una riflessione costante sull’identità inviolabile di ogni singola persona, e al tempo stesso sulle sue fragilità. Il coraggioso cambiamento di prospettiva ha fatto strada all’idea di una comunità dove lo
sviluppo delle capacità e la promozione dell’autonomia diventano anche strumenti terapeutici e inclusivi”.

In una società dove “sono presenti sempre ulteriori marginalità – continua il Presidente della Repubblica -, la prevenzione è diventata la nuova frontiera di un impegno volto a ridurre i potenziali fattori di trauma. Anticipare la lettura dei segnali di disagio e prestare attenzione anche alle fasce di età più giovani è oggi il modo per essere all’altezza, quarant’anni dopo, di una riforma cosi’ importante per la società intera, che ha restituito al consorzio civile persone ammalate, prima destinate a completa emarginazione”.

Articolo da –>http://www.dire.it/13-05-2018/201658-la-legge-basaglia-compie-40-anni-mattarella-non-lasciare-sole-famiglie/


40#180 Alberta Basaglia: «I dubbi sulla legge? Dove è stata applicata ha funzionato»

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BasagliaAlberta Basaglia: «I dubbi sulla legge? Dove è stata applicata ha funzionato»
Parla la figlia del padre della riforma della psichiatria: «Dicono che ha chiuso i manicomi senza aprire servizi, ma doveva crearli la politica. Mi fa male chi accusa mio padre di aver negato la malattia: voleva farla uscire dai lager per curarla»

di Francesco Battistini

Il matto dove lo metto? Dopo il terremoto dell’Aquila, quando fra le casette della new town c’era da fare lo spazio per l’assistenza psichiatrica, a un certo punto la Protezione civile di Bertolaso si pose anche il problema di sistemare i malati di mente. E lo risolse proprio come Basaglia non avrebbe mai fatto: una bella tenda a parte, separata, ben lontana dalle altre e dove non desse fastidio… 1978-2018: tanta riforma per nulla? «Il problema oggi – dice Alberta Basaglia – non è la riforma o la controriforma, è che ogni occasione è buona per rifiutare il diverso da noi. Che sia il matto, il disabile, l’immigrato».
Professione psicologa e vicepresidente della Fondazione Basaglia, coi diversi in casa lei ci è cresciuta. Fino a scrivere un tenero romanzo, «Le nuvole di Picasso», sulla sua infanzia fra matti da slegare e signore spettinate con la sigaretta sempre accesa. Una risposta all’eterna domanda se suo papà avesse ragione: «Mi chiedono spesso se quella rivoluzione abbia vinto. Ma la legge Basaglia è stata solo l’ultimo passo: prima io ho vissuto una battaglia lunga decenni per liberare un popolo di malati che stava in camicia di forza, senza diritti (nota a margine: negli Anni 60, a Gorizia, Basaglia aveva trovato un manicomio che legava ai letti perfino gli ex deportati di Auschwitz…). Quella legge è stata come il divorzio, l’aborto, le riforme dell’epoca: ha reso chiaro che non tutti siamo uguali, ma che tutti dobbiamo avere le stesse libertà. La diversità è parte della vita e i diversi hanno diritto alla nostra stessa vita».

La 180 avrà anche salvato i matti, liberandoli. Però ha condannato le famiglie dei matti, obbligandole a riprenderseli in casa…
«Mi preoccupa che regolarmente di questa legge si parli come di Franco: o facendone un santino, o demonizzando. L’anno scorso è stato presentato un decreto che è finalmente una spiegazione su come applicarla dappertutto in maniera uniforme. Si dice sempre che la 180 ha chiuso i manicomi senza aprire ai servizi. In realtà, ha dato degli indirizzi generali: spettava poi alle Regioni applicarla, ma molte non l’hanno fatto».

Non è andato tutto liscio: il 70-80 per cento dei malati di mente oggi vive a casa o nel poco che s’è fatto per rimpiazzare i manicomi. Il 20 per cento è incurabile, spesso allo sbando. Chi ha danneggiato di più la riforma? I politici incapaci di legiferare o gli psichiatri un po’ troppo ansiosi di rimandare in famiglia i pazienti?
«Io non credo che la 180 sta stata il fallimento che molti pensano. È stato importante che si facesse. Un risultato? Nessuno oggi pensa più che debbano esistere i manicomi. E poi non è che gli psichiatri abbiano mandato per strada i malati di mente: la legge diceva di chiudere i manicomi, ma in molte parti d’Italia non si sono offerti i servizi alternativi. Per questo, il principale problema sono stati i politici».

Fu anche una legge approvata di fretta e nel caos, frutto del compromesso storico: i radicali volevano un referendum abrogativo, cinque giorni prima era stato ammazzato Moro…
«Sì, ma fu una legge studiata a lungo, coi contrappesi: istituiva l’assistenza h 24, i servizi, gli appartamenti per l’accoglienza dei malati… Dov’è stata ben applicata, a Trieste o in Emilia, ha funzionato».

Qual è la critica che la infastidisce di più?
«Che non si capisca Franco quando diceva “mettere la malattia fra parentesi”. Non significava negarla: voleva dire accettarne l’esistenza, ma metterla un attimo da parte per dire che il problema del malato non poteva essere tenuto nascosto nel manicomio. Bisognava portarlo fuori dai lager, sotto gli occhi di tutti, perché ce ne si occupasse».

Basaglia fu elogiato da Sartre («a Gorizia c’è stato un esempio di sapere pratico») e da Bobbio («l’unica vera riforma del dopoguerra»), fu sostenuto da Einaudi e da Bellocchio. Ma oggi non è un po’ dimenticato?
«Non ho la stessa sensazione. Di tutte le rivoluzioni del ’68, ormai disperse, questa è una delle poche rimaste. Fece aprire gli occhi, costrinse lo Stato a non far più finta di niente. L’Italia fu il primo Paese a imboccare questa strada, la nostra esperienza è un caso unico che il mondo ancora studia. Ci sono nazioni come gli Usa che sono agli antipodi, ma in Europa molti hanno preso esempio. Oggi la sinistra sembra vergognarsene, e in fondo nemmeno questa è una novità: ultimamente, la sinistra si vergogna un po’ di tutto…».

Ci furono anche eccessi, come quegli psichiatri democratici che consideravano il malato «un soggetto rivoluzionario»…
«Mio padre non ha mai detto certe cose. Era il primo a pensare che la malattia esiste, eccome se esiste, e che un matto non può andarsene libero. Chiedeva solo che fosse trattato come tutti i malati: perché un diabetico poteva curarsi al meglio e un matto solo al peggio?».

Quale fu l’atto più immaginifico del basaglismo?
«Marco Cavallo: nel manicomio di Trieste che si stava smantellando, una scultura di legno e cartapesta fatta da pazienti che erano dentro da anni e stavano per uscire. Il cavallo uscì in strada con loro, fu il segno della chiusura della clinica. La consegna del problema alla città, che infatti se ne fece carico. Testimoniò che non è vero che tutto resta uguale: le cose si possono cambiare, quando si vuole cambiarle».

Oggi proliferano le cliniche private, riservate ai pazienti ricchi. E lo psicofarmaco impazza. Che direbbe Basaglia?
«La distanza fra poveri e ricchi riguarda tutta la società, non solo la psichiatria. Con l’immigrazione e la crisi le differenze si notano molto di più rispetto ad allora, ed è chiaro che la diseguaglianza economica porta disagio, il disagio porta a reazioni che spesso hanno un che di patologico. Tornano tante cose, non solo l’uso sconsiderato dei farmaci. Prenda la contenzione, ricomparsa nei trattamenti sanitari obbligatori. Una cosa grave. Non si lega una persona che sta male: questo doveva essere un dato acquisito, ma non lo è più».

In questi 40 anni, chi ha raccontato meglio Basaglia?
«Una fiction Rai, C’era una volta la città dei matti, con Fabrizio Gifuni. Fatta bene, ben preparata e spiegata. Ho visto anche “La pazza gioia” di Virzì. La lettura della sofferenza mentale è in parte quella della riforma: l’amicizia fra la Ramazzotti e la Bruni Tedeschi, il rapporto fra due donne che esce dal problema matto-non-matto… Lì, c’è un bel po’ di mio papà».

Articolo da –>https://www.corriere.it/buone-notizie/18_aprile_30/alberta-basaglia-dubbi-legge-dove-stata-applicata-ha-funzionato-c71f4b28-4c83-11e8-99ac-c9986d6134ff.shtml

40#180 Dopo Basaglia impazzire si può

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Etica minima

Dopo Basaglia impazzire si può

di Pier Aldo Rovatti

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La legge 180, detta anche legge Basaglia, compie quarant’anni, precisamente domenica 13 maggio. È stata un evento di enorme importanza che ha chiuso due decenni di lotte contro il manicomio, Gorizia negli anni sessanta e poi Trieste nei settanta, e aperto a un “dopo” che non sembra ancora terminato. A livello legislativo una significativa integrazione della 180 è rimasta per ora bloccata dalle vicende politiche che stiamo vivendo proprio in questi giorni.

Le ricorrenze contano quando gli eventi continuano a produrre effetti sociali, ma adesso sta accadendo qualcosa che non si era previsto. È in corso un’eccezionale mobilitazione culturale e i media, a partire dai giornali e compresa l’informazione televisiva, hanno dato un rilievo speciale alla ricorrenza, con una reazione a catena di interventi tutt’altro che marginali un po’ dovunque, che hanno evidenziato che cosa la 180 ha voluto dire per noi (e per l’intero scenario internazionale) in termini di civiltà. Lì si sarebbe infatti scritta una pagina decisiva per il problema della salute mentale e per come una società moderna può e deve affrontare la presenza del cosiddetto disturbo psichico.

Un rimbombo così forte ha sorpreso tutti. E va notato che all’interesse di quanti hanno a che fare, direttamente o indirettamente con tale questione, cioè un intero mondo che comprende le associazioni dei famigliari e il grande numero di coloro che agiscono nei centri di assistenza o sul territorio, si è contrapposto il silenzio della psichiatria ufficiale. Dunque dovremmo almeno domandarci il perché di questa situazione.

Può darsi che la risposta sia anche il motivo dell’inatteso interesse per una vicenda che parrebbe ormai lontana e che invece viene avvertita come vicinissima, attuale, ancora impellente. Metterei allora al centro dell’attenzione, per suggerire una risposta, la felicissima espressione che è stata coniata a Trieste in tempi abbastanza recenti, nell’ambito dell’eredità lasciata da Franco Basaglia, e che suona così: “Impazzire si può”.

È diventato il titolo di un’iniziativa nata nel 2010 e che si ripete ogni estate raccogliendo nello spazio dell’ex manicomio (il parco di San Giovanni), testimonianze di base provenienti da ogni parte d’Italia, su come viene vissuto e organizzato il disagio mentale. L’incontro avverrà anche quest’anno tra circa un mese, ma ciò che a mio parere colpisce è il senso dell’espressione che ho appena ricordato.

Come dire: dopo la “rivoluzione” operata da Basaglia e dalla sua équipe, e grazie a essa, si è realizzato un passaggio storico che ha sdoganato la “follia” e dato ai cosiddetti folli una sorta di legittimità, una specie di lasciapassare civile, o, ancora più esplicitamente, la possibilità di un riconoscimento individuale e sociale.

Insomma, è stato scalfito e sostanzialmente svuotato quello stigma secolare che separava una parte della società dalla condizione dei “normali”, e autorizzava un isolamento quasi carcerario nei manicomi istituzionali. Questa reclusione non è completamente scomparsa e tende a riprodursi in forme più subdole e sottili, tuttavia è stata messa fuori gioco. La pazzia e le varie forme di “impazzimento” hanno cominciato a essere ospitate nella realtà di ogni giorno.

Basaglia lo aveva anche teorizzato con chiarezza in alcuni dei suoi ultimi scritti, per esempio nelle conferenze che tenne in Brasile all’indomani della 180 (e che proprio adesso sono state ripubblicate dall’editore Cortina). Si è insomma ravvivato anche un forte interesse culturale verso l’intera vicenda: ricordo solo l’uscita (presso le edizioni alpha beta di Merano, nella collana 180 diretta da Peppe Dell’Acqua) del volume postumo All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961 di Antonio Slavich, uno dei primi collaboratori di Basaglia a Gorizia; e di un altro volume, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria di Piero Cipriano (edizioni eleuthera di Milano), che verranno entrambi presentati al Salone internazionale del libro che sta svolgendosi a Torino.

Attenzione, però. L’attuale fiammata non va intesa in alcun modo come un ritorno all’anti-psichiatria che già Basaglia aveva criticato nella sua sostanza. Nessun interdetto verso le cure di chi sta male, bensì il rilancio di una liberazione dei soggetti, senza discriminazione, dal giogo della patologizzazione forzata e dalla conseguente condanna a un’irreversibile diminutio sociale.

Che si possa “impazzire” non significa in alcun modo che ciò sia desiderabile. Vuol dire – ecco la conquista di civiltà che tutti dovremmo difendere – che chi vi si trova impaniato non debba vergognarsene, non venga considerato come un reietto o un minorato ma possa vivere nel pieno diritto di una condizione che non gli impedisca di stare tranquillamente in mezzo agli altri, godendo di una completa soggettività. Mi piace dunque credere che sia questo pungolo di civiltà che attizza un interesse come quello attuale a ripensare e riattraversare (finalmente!) l’esperienza “rivoluzionaria” di Franco Basaglia.

Da “Il Piccolo”

40#180 Intorno al ’68: i manicomi, l’istituzione negata e le nostre letture

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68-mai-affiche-689x478È soltanto un inizio

di Peppe dell’ Acqua

Nell’ottobre del 1967 Franco Basaglia presenta al  Reggio di Parma  “Che cos’è la psichiatria?”.

E’ un libro collettivo sull’esperienza che era iniziata a Gorizia nei primi anni ‘60. Edito dall’Amministrazione Provinciale di Parma verrà poi pubblicato da Einaudi e ora ritorna nelle librerie a cura di Baldini e  Castoldi.

Le immagini in bianco e nero di un cinegiornale di allora restituiscono una affollata assemblea, un giovane Basaglia, moltissimi studenti e un Franco Rotelli giovanissimo.

L’anno successivo, nel ‘68, viene pubblicato da Einaudi “L’istituzione negata”. Sempre sull’esperienza di critica del manicomio di Gorizia, il libro che vende subito 50.000 copie sarà un testo che formerà generazioni di studenti di medicina, di sociologia, di filosofia.

Nelle assemblee dei collettivi di medicina sembra essere la prova che cambiare le istituzioni sanitarie è possibile. Che cambiare il mondo si può!

Il libro riceverà nel ‘69  il premio Viareggio per la saggistica e segno dei tempi, Basaglia e il suo gruppo accetteranno il compenso in denaro per sostenere la comunità terapeutica goriziana, ma rifiuteranno di ritirare il premio in segno di critica a quelle istituzioni culturali che ancora resistevano al cambiamento.

Nel ‘69 sempre Einaudi pubblicherà “Morire di classe”, un libro di Franco e Franca Basaglia, che attraverso le fotografie di Gianni Berengo Gardini e Carla Cerati renderà evidenti la tragedia del manicomio, la miseria, l’annientamento degli uomini e delle donne: la mappa della vergogna. Il testo ricco di testimonianze riporta, tra le altre, quelle del campo di concentramento vissute da Primo Levi.

Il  manicomio e il lagher, ancora molto presenti nel comune sentire, vengono omologati dalla comune potenza di annientamento e oggettivazione.

È del ’61 la pubblicazione di tre libri che possono essere considerati, nel campo dello studio e della ricerca intorno alle istituzioni totali, un punto di svolta che segnerà gli anni a venire. Einaudi pubblica Asylum di Erving Goffman con un’introduzione di Franco e Franca Basaglia, dove la puntuale analisi sociologica della carriera dell’internato nel manicomio, come nel carcere, come in qualsiasi altra istituzione, fornisce materia per la grande contestazione alle istituzioni autoritarie e gerarchiche. Il manicomio, luogo altro, distante dalla percezione e dalla quotidianità di allora, entra prepotentemente nella coscienza della collettività. Viene pubblicata da Rizzoli, Storia della follia nell’età classica, tesi di dottorato di Michel Foucault, impegnatosi nella ricerca storica dell’istituzione manicomiale: alle radici del ricovero manicomiale, secondo il filosofo francese, vi sarebbe l’internamento nei lebbrosari medievali, i quali, una volta debellata la lebbra, divennero, nel corso dell’età classica, contenitori misti e variegati di tipi sociali d’impiccio alla macchina dello stato. E per terzo, sempre per Einaudi, uscì I dannati della terra, dove Franz Fanon, psichiatra francese delle terre d’oltremare, sceglie di lavorare nell’ospedale psichiatrico di Algeri nel momento più acuto della decolonizzazione e testimonia di quell’esperienza: la condizione di malato di mente, di africano, di colonizzato.

Non solo libri ma frequenti inchieste giornalistiche alimentano denuncie e polemiche intorno ad una intollerabile miseria umana e materiale che finalmente appare. Ed è tanto più intollerabile in rapporto alla recente  crescita economica e alle “violente speranze di cambiamento”.

Il settimanale della RAI, TV 7, che segna un timido cambiamento nell’informazione radio-televisiva, manda in onda nel 1967 un formidabile reportage, magistrale, di Sergio Zavoli sull’ esperienza goriziana. Per la prima volta i “matti” parlano, argomentano con giudizio e saggezza la loro condizione di internati, aprono irrimediabilmente la contraddizione intorno a normalità e follia.

Molti giovani vanno a Gorizia a vedere, a vivere un’ esperienza di liberazione possibile. In molte assemblee, nelle università occupate di questo si parla con sorpresa ed entusiasmo.

Non solo Gorizia apre porte e cancelli, ma anche il manicomio di Perugia si apre alla città e avvia un rapido processo di cambiamento che accende le speranze. Anche in una difficile Campania, in un manicomio privato, a Materdomini, Sergio Piro cerca faticosamente di aprire le porte e di avviare una comunità terapeutica. Le foto di Luciano D’Alessandro che frequenta tra il ’65 e ’68 l’ospedale di Materdomini e pubblica ‘’gli esclusi’’ un fondamentale libro fotografico e   apre  una stagione. Piro verrà ben presto  “fatto fuori” dalla prepotenza di interessi e baronie che in questi quarant’anni, in quella regione, poco sono cambiate.

Nascono le prime associazioni di cittadini, forse la prima in assoluto; l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali si costituisce a Firenze. Pubblicherà di lì a poco a Torino, nel 1969, “La fabbrica della follia”, un’agghiacciante libro bianco sulla condizione degli internati, sull’uso violento e indiscriminato della contenzione e dell’elettroshock. il direttore di Collegno verrà anni dopo portato in giudizio, ad accusarlo gli stessi internati che vengono accettati in aula dalla corte malgrado ancora sottoposti al ricovero definitivo. da questa storia trae ispirazione un passaggio emozionante del film di Marco Tullio Giordana, ’’La meglio gioventù’’.

Documenti fotografici vengono pubblicati su molti settimanali, i matti con la striscia nera sugli occhi. I direttori dei manicomi attaccano affermando che si viola la dignità dei malati e che si strumentalizzano, per ragioni politiche che non li riguardano, i malati stessi. Spesso i reporters vengono allontanati dalla polizia dai cancelli dei manicomi.  Le gerarchie istituzionali, i direttori, si rendono in tal modo ridicoli proprio illuminando la totale mancanza di dignità che essi stessi hanno alimentato e continuano a produrre e che ora malamente vogliono nascondere.

Non mancano tra il ‘69 e il ‘70 alcune esperienze di “antipsichiatria”, tanto radicali quanto alla fine dannose nell’alimentare polemiche e incapaci di produrre reali cambiamenti. Affermazioni come “la malattia non esiste”, che qualche psichiatra di allora utilizza come strumento di attacco alla condizione del malato di mente, diventeranno in seguito luoghi comuni  che attizzeranno le polemiche più aggressive nei confronti dei cambiamenti che da quegli anni cominciano. L’Espresso pubblica, tra il ’66 e il ’69, reportages dai manicomi e dalla comunità terapeutica goriziana di giornalisti attenti e di grande professionalità. Gli inviati sono Fabrizio Dentice, Sandro Viola, Maria Livia Serini, Sandro Butrini, Giuseppe Catalano. Alla miseria umana e materiale che trovano dovunque si aggiungono, come nel caso di Cagliari, gli interessi di spregiudicati amministratori e padroni che incassano centinaia di milioni, mantenendo condizioni disumane. L’ingresso dei privati qui a Cagliari è singolare. Alcuni reparti dell’ospedale psichiatrico di Villa Clara vengono dichiarati inabitabili per le condizioni fatiscenti e terminali degli ambienti. Centinaia d’internati vengono venduti a padroni di cliniche private senza scrupoli, dove trovano condizioni ancora peggiori dell’ospedale.

Sempre da Einaudi escono in quegli anni le traduzioni dei lavori dell’antipsichiatria inglese.  David Cooper, Ronald Laing, Aaron Esterson vengono letti da un gran numero di studenti. L’io diviso di Laing (1969) diventa una sorta di libro rivelazione.

E’ sempre del 1968 la prima legge, detta Mariotti, che modifica la vecchia legge manicomiale del 1904. Da quel momento è possibile, anche per legge, per gli internati recuperare una posizione di diritto nel trattamento. Si afferma che le persone possono essere ricoverate “volontariamente”, senza cioè dover ricorrere a norme per l’internamento che privano di diritti civili e di cittadinanza sociale.

Questa legge sembra rendere evidente quanto il problema fosse già allora  drammatico. Le amministrazioni provinciali che governano i manicomi annaspano per la difficoltà di “governare” circa 120.000 internati, circa 90 sono i manicomi tra pubblici e privati.

I socialisti di allora, attraverso Mariotti appunto e la legge, interpretarono le spinte di rinnovamento e i cambiamenti reali che nelle istituzioni si stavano muovendo.

Quanto accadeva nei manicomi veniva allora riportato costantemente nel percorso più generale della riforma sanitaria. Il movimento degli studenti, dei sindacati, le associazioni dei cittadini discutevano delle mitiche unità sanitarie locali che allora cominciavano soltanto a essere immaginate, del territorio, dei distretti socio-sanitari, della salute in fabbrica (sono gli anni di Giulio Maccacaro e dell’avvio di medicina democratica), della salute nelle periferie. A colpire l’opinione pubblica è l’esplosione di un grande serbatoio di diossina. La contaminazione dei territori di Seveso in Lombardia fa nascere i primi movimenti ecologisti.

Franco Basaglia alla fine del ‘68  partirà per gli Stati Uniti. Terrà conferenze in quelle università e a Berkley incontrerà studenti e intellettuali.

La critica alle istituzioni autoritarie, all’autoritarismo, alle gerarchie sembra passare emblematicamente attraverso il lavoro di smontamento del manicomio, e gli studenti europei e americani  sembrano trovare qui la conferma della giustezza delle loro posizioni.

Nel ‘69 comincerà ad aprirsi il manicomio di Colorno a Parma, dopo essere stato occupato dagli studenti di quella università. E poi Reggio Emilia e poi Ferrara.

Di lì a poco si aprirà il manicomio di Trieste e cominceranno le prime assemblee nel manicomio di Arezzo. Molte altre esperienze si diffonderanno  in Italia.

Dieci anni dopo, nel 1978, la legge 180 chiuderà una stagione difficile e contraddittoria, che ha aperto ad u nuovo scenario dove finalmente i cittadini anche se folli compariranno come soggetti nel pieno del loro diritto. E la storia continua.

Trieste, aprile 2018

40#180 Incontro a Salerno:” C’era una volta la città dei matti “

40#180: Borgna: “Basaglia capì che era necessario recuperare l’individuo”

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Eugenio Borgna (foto Basso Cannarsa)

Eugenio Borgna (foto Basso Cannarsa)

di EUGENIO BORGNA, primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Nova
Un grande psichiatra spiega la rivoluzione. Accanto al padre della legge è stato tra i primi a opporsi a una spiegazione puramente naturalistica delle malattie dell’anima
Questa tesi si è rispecchiata in modalità radicalmente diverse di articolare gli incontri terapeutici con i pazienti; e questo perché, mettendo fra parentesi la malattia, lo psichiatra può finalmente avvicinarsi alla sofferenza psichica guardando alla sua fragilità e alla sua umanità. La psichiatria manicomiale, che non è nemmeno oggi scomparsa nel concreto agire di non pochi psichiatri, si radicava nella esclusiva attenzione alla malattia, e non alla soggettività, alla interiorità, alla storia della vita, alla persona, di chi è curato. Questo cambiamento di paradigma si è accompagnato alla rinascita delle emozioni dello psichiatra nella conoscenza e nella cura della sofferenza psichica: non più considerata come qualcosa da analizzare con la freddezza di un chirurgo che taglia, e ricompone, un organo malato, ma come una ferita viva e sanguinante da arginare con la pazienza, e con la immedesimazione nella storia della vita dei pazienti. Senza questo cambiamento di paradigma la follia non si sarebbe fatta conoscere a Basaglia, e agli psichiatri che ne seguano il cammino ermeneutico e conoscitivo, nella sua fragilità e nella sua umanità, nella sua nostalgia di gentilezza e di solidarietà
A queste considerazioni teoriche sulla conoscenza emozionale degli stati d’animo delle persone, e delle persone che soffrono in particolare, era giunta nei primi anni del secolo scorso la fenomenologia: questo indirizzo filosofico dalle molte possibili varianti: riunificate da un comune denominatore: quello enunciato da Basaglia: solo nel mettere fra parentesi ogni conoscenza e ogni esperienza si coglie il senso radicale della vita. Sono considerazioni complesse, e nondimeno necessarie, se vogliamo conoscere il pensiero teorico di Basaglia nelle sue ascendenze culturali, così trascurate, e così dimenticate, senza le quali la sua psichiatria non si sarebbe realizzata nella sua straordinaria ricchezza umana e terapeutica. Solo mettendo fra parentesi la malattia, alla psichiatria è possibile entrare in relazione, in una immediata relazione di cura, con chi sta male, con chi si misura con l’angoscia e la tristezza, le inquietudini dell’anima, i deliri e le allucinazioni, e che solo così si sente aiutato, e compreso nel suo dolore.
Questo mio discorso intende indicare quanta importanza Franco Basaglia abbia dato alle emozioni, alla sensibilità, alle capacità di attenzione e di ascolto, di immedesimazione e di introspezione, di speranza, nel fondare una psichiatria clinica che sconfinasse continuamente nella psichiatria sociale. La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria, e Basaglia lo ha dimostrato, ma il suo magistero non si comprende fino in fondo se non viene immerso, lo vorrei ancora ripetere, nelle sue sorgenti teoriche. Cambiare radicalmente le strutture costitutive del fare psichiatria non basta se esse non sono nutrite di passione e di sensibilità, di apertura al dolore degli altri, e di decifrazione del senso che si nasconde anche nei deliri e nelle allucinazioni. Sono cose che, ripensando ai quarant’ anni che ci separano dalla approvazione della legge (Norberto Bobbio l’ha definita una fra le più importanti nella storia della Repubblica), dovrebbero essere tenute sempre presenti: premesse necessarie alla realizzazione di una psichiatria che conosca e rispetti fino in fondo la dignità della sofferenza psichica. Sono cose che mi è sembrato necessario rimettere in evidenza in queste mie ulteriori riflessioni su di una legge che nessun altro paese ha avuto la forza e il coraggio di realizzare.
Eugenio Borgna (foto Basso Cannarsa)

La conseguenza radicale e sconvolgente della legge 180 è stata la chiusura degli ospedali psichiatrici, e questo, a quarant’anni dalla sua approvazione, non può non essere continuamente ricordato nella sua rivoluzionaria significazione storica; ma non sono ugualmente ricordate le premesse teoriche che sono state a fondamento del pensiero e dell’azione di Franco Basaglia, e delle quali vorrei ora dire qualcosa. Il cuore teorico della rivoluzione, che ha cambiato il modo di fare psichiatria, si rispecchia in alcune considerazioni che nascono dalle sue conferenze brasiliane, e ribadiscono che noi psichiatri non possiamo non andare alla ricerca di un ruolo che non abbiamo mai avuto, e che ci metta, per quanto è possibile, alla pari con chi sta male in una dimensione in cui la malattia, come categoria, sia messa fra parentesi.

Articolo da –>http://www.repubblica.it/salute/2018/05/11/news/borgna_cosi_la_180_cambio_la_vita_dei_pazienti_-196088069/?ref=search

40#180: Antonia Bernardini, la storia della donna che morì “legata come Cristo in croce” nel manicomio giudiziario di Pozzuoli

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Bernardini-giornale-278x300Di Emanuele Salvato

Morì il 31 dicembre 1974 dopo giorni di agonia a causa alle ustioni riportate dopo l’incendio del letto del manicomio giudiziario femminile della città campana dove era ricoverata. Venne provocato, dopo 43 giorni consecutivi di contenzione, da un suo gesto con un fiammifero per attirare l’attenzione: voleva un bicchiere d’acqua, nessuno le dava retta. La storia al Festival dei Matti di Venezia grazie al libro di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito

“Sono stata spinta a fare quello che ho fatto perché ero sempre legata […] C’era una suora che in cambio di tutto quel lavoro forzato, mi ricompensava con giubbotto e punture […] Ci legavano come Cristo in croce”. Sono queste le ultime parole pronunciate da Antonia Bernardini al pubblico ministero nella sala rianimazione dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove è morta il 31 dicembre 1974 dopo quattro giorni di agonia a causa alle ustioni riportate su tutto il corpo, dopo che con un fiammifero ha incendiato il materasso del letto del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli dove era ricoverata. Un gesto arrivato dopo 43 giorni consecutivi di contenzione. Antonia voleva un bicchiere d’acqua, nessuno le dava retta.

Una vicenda che, all’epoca, fece scalpore rimbalzando sulle principali testate giornalistiche alimentando un dibattito pubblico sui metodi di cura adottati nei manicomi, in particolare, sulla contenzione e sulla disumanità che regnava in quelle strutture. Una storia, quella di Antonia Bernardini, che è stata dimenticata per parecchi anni ma che, grazie al giornalista Dario Stefano Dall’Aquila e al ricercatore Antonio Esposito, è tornata d’attualità nel libro scritto a quattro mani “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio” (editrice Sensibili alle foglie).

Il libro, uscito nell’ottobre scorso, verrà utilizzato come spunto venerdì 18 maggio al Festival dei Matti di Venezia per parlare del tema delle malattie mentali, delle cure e della trasformazione delle strutture di cura, oggi che i manicomi non ci sono più e che anche gli ospedali psichiatrico giudiziari sono stati chiusi e trasformati in Rems. Una vicenda che ricorda quella più recente che, nel 2009 a legge Basaglia ampiamente approvata (ha compiuto 40 anni lo scorso 13 maggio), ha visto il maestro Francesco Mastrogiovanni morire dopo 90 ore di contenzione, legato a un letto del centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, in Vallo della Lucania, dove era stato ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio.

“Abbiamo deciso di recuperare questa storia – spiegano Esposito e Dall’Aquila a Ilfattoquotidiano.it – perché ci siamo resi conto che, dopo il clamore suscitato all’epoca, poi se ne è persa quasi totalmente memoria. Eppure, la storia di Antonia Bernardini può essere considerata simbolica perché, qualche anno prima dell’approvazione della legge Basaglia che farà chiudere i manicomi, portò prepotentemente nel dibattito pubblico dell’epoca il tema di queste strutture come luoghi d’orrore e disumanità, dove il malato era abbandonato a se stesso e si praticava la contenzione fisica, ma anche farmacologica, come metodo di ‘cura’ quasi sistematico”. La morte di Antonia, per come avviene, porta anche alla decisione di chiudere il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli e finiscono sotto processo il direttore dell’istituto, il vicedirettore, una suora e tre vigilatrici. Condannati in primo grado, vengono tutti assolti in appello.

La storia di Antonia è fatta di sofferenze, problemi economici e una salute mentale fragile. Antonia ci prova a farsi una vita ‘normale’, cerca di costruirsi una famiglia. Si sposa giovanissima e ha una figlia con un uomo dal quale si separa nel 1972. Gli psichiatri dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, dove è stata ricoverata in più occasioni, le diagnosticano una ‘distimica recidivante’, insomma depressione. Lo stigma della malattia mentale la perseguita da sempre, ma la sua discesa agli inferi del manicomio giudiziario inizia una mattina d’autunno del 1973. Durante una crisi depressiva, Antonia, all’età di 40 anni, decide di andare a Reggio Emilia, dove già l’avevano curata per questi disturbi.

Alla stazione Termini, mentre è in fila per il biglietto, ha una banale discussione con una signora. Interviene un giovane che la spintona e lei reagisce schiaffeggiandolo. Il giovane si qualifica come carabiniere, la Bernardini viene arrestata e mandata a Rebibbia, da dove, constatate le sue condizioni mentali, viene trasferita prima all’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà e poi al manicomio giudiziario di Pozzuoli per essere sottoposta a osservazione in attesa del processo. A Pozzuoli rimane un anno e due mesi nel corso dei quali viene ripetutamente sottoposta a forme di contenzione, legata al letto. Quello stesso letto in cui trova la morte dopo quarantatré giorni consecutivi di contenzione. Antonia accende un fiammifero per attirare l’attenzione degli infermieri e incendia il materasso che prende fuoco avvolgendola nelle fiamme. Voleva solo un po’ d’acqua e d’attenzione. Muore per le gravi ustioni riportate dopo quattro giorni di agonia all’ospedale Cardarelli di Napoli. Era il 31 dicembre del 1974.

“La storia di Antonia Bernardini – spiegano ancora Esposito e Dall’Aquila – può essere considerata simbolica anche oggi, perché nonostante la chiusura dei manicomi e tanti passi in avanti fatti in tema di cura della salute mentale, in Italia, si fa ancora molto uso dei Tso e della contenzione, sia fisica che farmacologica”. I dati del ministero della Salute, pubblicati lo scorso 2 maggio, dicono che su 98mila ricoveri nei reparti ospedalieri che si occupano di salute mentale, sono stati 8mila i Tso applicati. Stime ricavate dall’associazione “A Buon Diritto” e dalla campagna contro la contenzione nei luoghi di cura “E tu slegalo subito” evidenziano che nel 60% degli Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) italiani si fa ricorso alla contenzione, il che vuol dire 20 contenzioni ogni 100 ricoveri.  “A Trieste – dicono ancora Esposito e Dall’Aquila – abbiamo il numero più basso di Tso e nelle strutture non viene praticata la contenzione, che si usa laddove il servizio pubblico non funziona come dovrebbe”.

Articolo da –>https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/18/antonia-bernardini-la-storia-della-donna-che-mori-legata-come-cristo-in-croce-nel-manicomio-giudiziario-di-pozzuoli/4362257/

40#180: “E mi no firmo”, così cominciò la rivoluzione gentile della 180

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legge-895-il-regolamento-di-attuazione-della-legge-180-50Di Toni Jop

Un po’ si giocava e un po’ no. Ma Franco stava steso sul suo letto, da un tempo che lui non percepiva con chiarezza, nella casa di Piscina San Samuel, a Venezia e attorno a lui andavano e venivano Franca (Ongaro, la moglie), Rayr Terzian (neurologo di fama, amico intimo di famiglia), Alberta (la figlia), Enrico (il figlio), Enrica (moglie di Enrico), io, marito di Alberta. Sapeva che le cose non sarebbero andate bene per lui, ma riusciva a scherzare, quando non dormiva. Così, pensando che presto se ne sarebbe andato da questa terra, rifletteva su quel che avrebbe lasciato, incompiuto. E cercava di capire chi, dopo di lui, avrebbe portato avanti quell’immenso lavoro, quella lotta infinita, quella vera rivoluzione culturale, politica e solo in terzo luogo sanitaria, che stava rannicchiata alle spalle di una legge, la 180 – 1978 – , quella con cui aveva, lui sopra ogni altro essere umano, demolito i manicomi, restituito dignità ai sofferenti psichici, messo l’umanità italiana in condizione di affrontare senza panico e disperazione alcune tra le sue paure più forti. Franca arrivava con la teiera calda in mano e un paio di giornali, guardava Franco e gli diceva: “Dunque, vedemo, – parlava anche in veneziano – femo un elenco di persone che faranno bene il loro lavoro di liberazione e di cui ci si può fidare, Franco, vustu che scrivemo, anca?”, sì dai stendiamo un elenco, borbottava pallidissimo il padre della legge. Chissà che fine ha fatto quella lista – stesa anche ridendo, giuro – di paladini di una nuova tavola rotonda cui affidare la prosecuzione della liberazione. Si sghignazzava anche perché Franco dava di tanto in tanto risposte, o sentenze, sorprendenti sui nomi che gli venivano proposti. Alcuni li accoglieva senza esitazioni – Agostino Pirella, Antonio Slavich, Franco Rotelli, Beppe Dell’Acqua, Mario Tommasini, Domenico Casagrande, Sergio Piro, Maria Grazia Giannichedda, Giovanni Berlinguer ad esempio – su altri, dopo aver scosso la testa e aver illuminato i suoi occhi acqua marina, poneva veti del tutto inattesi: di quelli, nonostante le apparenze, non si fidava. E non dirò mai chi fossero gli esclusi. Franca, raramente, insisteva: “Dai, Franco, non puoi metterlo fuori: è uno bravo che si è mosso bene…”, e lui invece non si spostava “E mi no me fido…”. Il gioco finì quando fu chiaro a tutti che l’elenco pareva abbastanza numeroso e solido, tranquillizzante: c’era un piccolo esercito pronto a tenere alta la bandiera, anche quando Basaglia fosse sparito dalla circolazione. Un compito enorme: nessuno aveva capito quanto nella riforma attuata ci fosse espressamente di Franco Basaglia e quanto dovesse essere accreditato ad un parterre di intelligenze davvero notevoli che lo avevano seguito lungo la strada, facendo tremare benpensanti, classe medica, istituzioni. Di più: la legge 180 aveva decretato che l’Italia era il solo posto al mondo di una certa rilevanza in cui la sofferenza psichica non veniva, e non viene, ghettizzata d’istituto. Pazzesco, no? Dopo l’abolizione della pena di morte, certificata nel Settecento in Toscana prima che in ogni altro angolo della terra, ecco che questo paese sul quale si sputa volentieri poteva vantare di aver demolito i manicomi e ogni contenzione psichiatrica in netto anticipo sul resto del mondo. Muovendo le pedine senza mostrare soldi, senza impugnare potere, guadagnando nessun ruolo strategico nel consesso dei potenti: la rivolta basagliana era innervata di scienza e di inattaccabili principi di umanità che assieme avevano scardinato vecchi ordini delle cose, a cominciare dalle relazioni di potere che ne consentivano la conservazione. Ordini profondi, molto profondi che stanno alle radici della percezione individuale e della società. Il medico non era più il medico in camice bianco che intimidisce e ferisce armato di aghi e bisturi, l’infermiere non era più il butta-dentro di un campo di concentramento per espulsi sociali, il paziente smetteva di essere detenuto e il suo problema cessava di essere il solo riferimento dell’attenzione sanitaria per dare spazio e centralità al corpo e alla sua complessiva esperienza sociale trattenuta dalla mente.

Un mondo nuovo, sì, che aprendosi lasciava intravvedere mille possibili connessioni con la rete di rapporti su cui si fonda la fenomenologia umana, a cominciare dalla struttura della sanità, e che metteva in discussione più complessivamente il potere, i poteri e i loro bisogni. La 180 aveva e conserva la natura di un passepartout utile e funzionale a carico, ai danni, di tutti i sistemi ai quali tira giù le gonne o i pantaloni e finalmente di loro si vede ciò che sta preferibilmente nascosto nella trama istituzionale: la violenza, la stupidità, la vanità, il conformismo, il controllo, il costo reale, anche economico, di questi lacci di contenzione, delle porte chiuse a chiave, delle pratiche mediche degne più di una medicina gotica che di un processo di recupero di un io sofferente annullato dalla segregazione e da una spaventosa oggettivazione. La “180” è stata ed è tutto questo, effetto e motore di civiltà e di scienza. La legge 180 ha demolito non solo le mura dei vecchi lager: ha abolito un incubo che afferrava tutto e tutti, anche i bimbi ai quali poteva accadere di essere minacciati, certo all’interno di un paradosso tuttavia niente educativo, di venire rinchiusi in manicomio se non avessero smesso di comportarsi in un certo modo. E quando ci si serviva di questi orrendi grimaldelli nel tentativo di ricomporre un ordine che si riteneva minato dall’indisciplina non si faceva appello all’indimostrabilità dell’”uomo nero” che sarebbe venuto a prelevare il “cattivo”, ma ad un modello di mostro perfettamente reale, concreto, replicato in mille città con crudeltà variabile, nota, temuta. Antonio Slavich, psichiatra della prima onda, ricorda, di questa storia di liberazione, il primo passo compiuto presso il manicomio di Gorizia, nel 1961. Franco si stava insediando da direttore, i suoi nuovi sottoposti gli avevano presentato l’elenco delle contenzioni da sottoscrivere e Basaglia rispose loro, in veneziano: “E mi no firmo”. “E mi no firmo”, una battuta anti-accademica che suona come incidente grave sulla strada del potere, nonché immenso rifiuto degno di un’epica nuova che stava aprendosi alla storia del nostro paese e del mondo intero. Si capisce anche perché a Basaglia molte Università chiusero la porta e la cattedra in faccia: sapeva come garantirsi l’ostracismo dei suoi colleghi che alla storia non passeranno comunque mai. A molti di questi era invece molto caro lo stile di uno psichiatra come Mario Tobino, buon letterato, autore di un testo abbastanza “chiave”: “Per le antiche scale”, dolente viaggio nella sua professione e nel luogo della sua professione. A Tobino piaceva l’umanizzazione dell’istituzione ma amava in qualche modo quella dolenza, amava perfino la culla di quel dolore, amava le mura e le scale del manicomio. Fosse dipeso da lui, i manicomi avrebbero perduto piacevolmente i tratti mostruosi che ne disegnavano l’esercizio di potere, ma sarebbero rimasti in piedi in virtù di un riformismo zuccherato che a molti sarebbe piaciuto, al sistema politico e sanitario, intanto.

Franco era convinto invece che non si potesse abbellire il mostro, che andasse distrutto, mentre veniva impostata una nuova attenzione al disagio psichico e le istituzioni dovevano piegarsi a quella attenzione che dignità della persona, libertà, l’obiettivo di una sanità finalmente capace di cogliere senso e cause profonde della sofferenza anche psichica, imponevano con molta evidenza. Erano altri tempi, verissimo, e Franco non nasceva dal nulla, ma nel campo di una critica delle istituzioni e del potere, tra Sartre, Foucault e Laing – per citarne tre, tutti suoi amici – mentre si scaldavano i motori del Sessantotto. L’enorme differenza tra un pensiero imponente per bellezza e per lucidità e la 180 sta tutta in Franco Basaglia con i suoi collaboratori: gli altri – pensatori, i filosofi – pensavano e pensano, ma lui pensava e intanto cambiava le carte in tavola, operava, agiva, modificava l’assetto della materia. Franco faceva la rivoluzione, la facevano Beppe Dell’Acqua, Rotelli, medici, infermieri e pazienti, tutti assieme. A Trieste, dopo i primi fuochi di Gorizia e Parma. Ma è proprio quel tappeto di pensieri di liberazione così fervido nell’era che si definisce “Sessantotto” a garantire il supporto “logistico” all’azione di Basaglia. Tanto che artisti, intellettuali, scrittori, politici, uomini di spettacolo lo caldeggiarono, lo difesero, da mille luoghi volarono spesso a Trieste per seguire da vicino lo svolgimento della sola vera rivoluzione, del tutto incruenta, combattuta in Europa nel Dopoguerra. Fu Franco, quarant’anni fa, a presentarmi Dario Fo, uno che a Trieste “militava” spesso e volentieri e sarebbe diventato un mio caro amico. Curioso, poi, che a volerlo a Trieste fosse stato il presidente della Provincia democristiano, Michele Zanetti, e che a picchiarlo più avanti, nel corso di uno degli abituali réseau triestini aperti ad un mondo curioso, interessato, fossero state frange autonome che lo accusavano di lavorare alla normalizzazione delle contraddizioni sepolte sotto il terreno del disagio mentale.  Basaglia non era solo: quel che accadeva a Trieste mentre il manicomio veniva fatto a pezzi e i “matti” se ne andavano a spasso per la città era seguito ovunque, era un fatto globale.

Ora quel contesto non esiste più e i pensieri più brevi e tristemente marginali sembrano governare il presente. Basaglia se n’è andato tanti anni fa, i suoi collaboratori, quelli che hanno praticato sul campo la liberazione stanno soprattutto nel fortino di Trieste, dove le cose funzionano. I manicomi sono stati cancellati, è vero, ma pochi hanno fatto ciò che sarebbe stato necessario per rendere fluida, funzionale ovunque l’articolazione dell’assistenza e dei percorsi terapeutici. Lo Stato non ha dato corpo a quella che si poneva come una legge quadro, che aveva bisogno di strumenti attuativi per respirare a pieni polmoni. Ci pensano le Regioni, spesso con stile molto trasandato, i servizi di diagnosi e cura presso gli ospedali sono chiusi a chiave, la chimica si limita a rendere in apparenza obsoleta, anti-estetica la contenzione fisica, quella dei legacci. I centri di salute mentale raramente restano aperti come dovrebbero 24 ore su 24, il personale spesso non è motivato, formato, riemergono le vecchie spaccature tra classe medica e infermieri, le cliniche private fanno quello che vogliono al chiuso dei loro cancelli, drenando denaro pubblico, l’assistenza domiciliare – decisiva per sollevare le famiglie da un carico davvero enorme – è troppo spesso un miraggio, la connessione tra impianti terapeutici e vita aperta sul lavoro quasi non esiste più. Sembra un rapporto di guerra, e forse lo è davvero, una guerra. Staremo a vedere cosa produrranno lungo questa trincea i nuovi padroni della scena, trecce di pensiero di estrema destra comunque declinato dall’Italia all’Ungheria, alla Polonia. Aria di riflusso, eccome. Chi sbaglia paga, chi rompe le balle deve andarsene, il più forte giustamente massacra il più debole, ogni mezzo è buono per conquistare il successo, chi ha commesso un reato serio deve essere rinchiuso e si deve buttar via la chiave, se sei una vittima – immigrato, malato, malmenato – vuol dire che te lo sei meritato: scomparsi Sartre, Foucault, Laing e Cooper, questa è la piattaforma ideologica alla quale si ispirano vecchi marpioni e nuove generazioni. Franco sapeva che sarebbe accaduto, nonostante quell’allegro elenco di militanti della liberazione stilato sul suo letto di morte. Sapeva, e lo scrisse, che sarebbero venuti tempi grami, in cui la rivoluzione sarebbe stata inghiottita, i suoi successi insonorizzati, i suoi orizzonti cancellati, ma spiegò che “noi avremo comunque dimostrato che si può fare” e da questa certezza non si torna più indietro. A dispetto della restaurazione e di qualunque bolso congresso di Vienna.

Articolo da –>https://www.strisciarossa.it/e-mi-no-firmo-cosi-cominciola-rivoluzione-gentile-della-180/


40#180 Un’ora sola ti vorrei

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L'ex manicomio di Mombello. Foto di Asbruff via Flickr

L'ex manicomio di Mombello. Foto di Asbruff via Flickr

Franco Basaglia avrei voluto conoscerlo, e Rosa non era soltanto la più bella del paese

di Valentina Furlanetto

“Un’ora sola ti vorrei” cantava Fedora Mingarelli nel 1938. Franco Basagliaaveva 13 anni, viveva a Venezia, quartiere san Polo, secondo di tre figli, buona borghesia veneziana. A una sessantina di chilometri di distanza, in piena campagna veneta, anche Rosa aveva 13 anni. Seconda di cinque, famiglia di contadini, pochi libri, molti calli alle mani. Rosa già allora era la più bella del paese, aveva profondi occhi scuri, zigomi alti e pronunciati, lunghe trecce castane. Nelle foto è la più alta, la più altera.

Quattro anni dopo Franco Basaglia studiava al liceo classico di Venezia e Rosa camminava sul ciglio della strada, dieci chilometri al giorno all’andata e dieci al ritorno, per andare in fabbrica. Aveva 17 anni, era sempre la ragazza più bella del paese, le sue sorelle la rimproveravano perché era vanitosa e aveva la testa fra le nuvole. Faceva l’operaia in filanda. Camminava diritta e fiera lungo la strada quando venne investita da un’auto, il conducente scappò, forse un nobile o un gerarca fascista, chi altro poteva disporre di un’automobile in campagna? La trovarono a terra, incosciente. La commozione cerebrale le lasciò in eredità frequenti crisi epilettiche e venne più volte ricoverata in manicomio, reparto neurologia. Più volte venne sottoposta a elettroshock. Tutte le volte senza anestesia. Sentiva ogni cosa, la scossa elettrica che attraversava il cervello, il dolore lancinante, il corpo che perdeva il controllo, l’urina che usciva involontariamente, l’umiliazione di essere trattata come una cavia. La scossa elettrica la lasciava prostrata, inebetita, violentata. Era sempre bella, ma lo sguardo era diventato assente.

Intanto era arrivata la guerra, Franco Basaglia non nascondeva le sue simpatie antifasciste, arrestato, passò qualche mese in detenzione. Rosa sposò – contro il parere dei parenti – un giovane come lei, altrettanto fragile e bello, traumatizzato da quello che aveva vissuto al fronte: si rifugiava nei boschi per non dover più sparare neanche a una gallina. Lei andava in fabbrica in motorino, con un pezzo di cartone sotto la giacca davanti e uno di dietro, per ripararsi dal freddo. Quando le crisi epilettiche arrivavano la gente si spaventava.

Intanto, nel 1949, Franco Basaglia si laureava in Medicina e Chirurgia, mentre Rosa metteva al mondo la seconda figlia. Undici anni dopo Rosa aveva 34 anni e tre figlie, la terza gravidanza gliela avevano consigliata i medici per curarsi. Aveva 34 anni e tutti i capelli bianchi. “A causa degli elettroshock” dicevano in paese.

Nel 1959 le tre bambine entrarono in orfanotrofio. Rosa venne ricoverata nel manicomio di Sant’Artemio di Treviso che in settant’anni ha accolto 45 mila persone. C’erano i “tranquilli”, i “ribelli”, i “protestatari”. A metà degli anni Sessanta le figlie andavano a trovarla ogni settimana. Di nascosto dai colleghi, dagli amici e dai fidanzati per vergogna. Di nascosto dai datori di lavoro per paura di perdere il posto in quanto parenti di una malata mentale.

Nel 1968 Ornella Vanoni presentava a “Canzonissima” la sua sofisticata versione di “Un’ora sola ti vorrei” e Franco Basaglia pubblicava “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico” dove raccontava l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia dove aveva tentato di trasferire il modello della comunità terapeutica, una vera e propria rivoluzione: via le fasce per legare i pazienti, via le terapie elettroconvulsivanti, aveva aperto i cancelli dei reparti. Aveva promosso il rapporto umano con il paziente. Nessuno si sarebbe dovuto più vergognare di nessuno. Nessuno sarebbe stato più trattato da animale. Ma era ancora presto.

Il 13 maggio 1978, 40 anni fa, fu varata la legge 180. Franco Basaglia aveva vinto: si aprivano i manicomi, i pazienti tornavano persone.

Ma era troppo tardi per Rosa, per le decine di vasetti di pillole colorate che riempivano il suo comodino, per la fronte segnata dalla terapia elettrica, per la mente svuotata, appannata, intorpidita da anni di ricoveri. “Un’ora sola ti vorrei” è diventato il titolo di un documentario straordinario girato nel 2002 dalla regista milanese Alina Marazzi che si può vedere su YouTube. E’ un lavoro sulla memoria, un atto di amore verso Liseli, la mamma di Alina, giovane e ricca signora milanese, internata in un manicomio svizzero per aver dato segni di instabilità. Allontanata dai figli, dalla famiglia, nascosta, dimenticata, Liseli scrive lettere ai suoi bambini, le stesse cose che diceva Rosa: “Non mi fanno venire a casa, vorrei vedervi, ma non mi fanno vedere le vostre fotografie. Come state? Qui tutte le giornate sono uguali. Prendo le mie pillole. A presto”.

Sui giornali si discute dell’eredità lasciata da Franco Basaglia. Una rivoluzione incompiuta, “tradita’’, dice qualcuno, sottolineando quello che manca – fondi, personale, assistenza alle famiglie. Ma molto è stato anche fatto. Oggi Liseli e Rosa sarebbero state trattate da esseri umani, non da cavie. Liseli non l’ho conosciuta, Franco Basaglia avrei voluto. Rosa era mia nonna.

Articolo da –>https://www.ilfoglio.it/il-figlio/2018/05/18/news/unora-sola-ti-vorrei-195481/

40#180 Dal caso Moro alla legge Basaglia quarant’anni dopo, è l’anno che verrà

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eccebombolocDi Ilaria Romeo

“Meno botti del solito a mezzanotte – annota nel suo diario l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti alla data del primo gennaio 1978 – Sono grato ai silenziosi perché il mio anno si inizia con un mal di testa di prima classe” Un mal di testa decisamente premonitore quello di Giulio Andreotti alla apertura di un anno foriero per l’Italia di grandi eventi, molti dei quali epocali.

Dal rapimento di Aldo Moro all’elezione di Sandro Pertini a presidente della Repubblica, dalla morte di due papi alla nascita della prima bimba ‘in provetta’, il 1978 è un insieme di momenti storici per il nostro Paese e non solo.

Il 1978 politico inizia in Italia il 7 gennaio con la Strage di Acca Larentia a Roma: due giovani militanti missini, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vengono uccisi durante l’assalto a una sezione del Partito in via Acca Larentia (quartiere Appio). Due mesi più tardi, il 18 marzo, verranno uccisi con otto colpi di pistola a Milano, in via Mancinelli vicino al centro sociale Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, conosciuti come Fausto e Iaio, di anni 19. In pochi metteranno in dubbio che fossero state persone di estrema destra a ucciderli, ma nessuno è stato mai condannato per la loro morte.

In un clima politico e sociale sempre più rovente (l’inflazione che rasenta il 20 per cento; l’ascesa di Licio Gelli; l’economia sommersa che secondo i dati Censis assorbe dai 4 ai 7 milioni di persone, tra il 15 e il 20 per cento delle attività in Italia; lo stragismo prima, il terrorismo poi), l’11 marzo, dopo una lunga crisi di governo durata quasi due mesi, Giulio Andreotti forma il suo quarto esecutivo monocolore Dc sostenuto anche da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani.

Cinque giorni più tardi, il 16 marzo, le due Camere vengono convocate per discutere e votare la fiducia. Quella mattina in via Fani, a Roma, un commando delle Brigate rosse rapisce Aldo Moro -presidente della Dc e principale sostenitore dell’intesa con il Partito comunista della ‘terza via’ berlingueriana – e uccide i cinque uomini della sua scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi.

Il corpo senza vita di Moro verrà ritrovato nel baule di una Renault 4 rossa in via Caetani, una laterale di Via delle Botteghe Oscure, 55 giorni dopo, il 9 maggio. Quello stesso giorno a Cinisi per ordine del boss mafioso Gaetano Badalamenti sarà ucciso dalla mafia Peppino Impastato.

Come scriverà qualche mese dopo su «La Stampa» Lietta Tornabuoni: “L’iconografia nazionale si inverte: se nel 1968 l’esemplare immagine italiana rappresentava folle di lavoratori o studenti nelle manifestazioni di massa, nel 1978 rappresentava singoli cadaveri abbandonati e sconnessi sull’asfalto insanguinato, o abbandonati e riversi dentro le automobili”.

Il 13 maggio, a pochi giorni dall’omicidio di Aldo Moro, il Parlamento italiano emana la legge 180, altrimenti nota come legge Basaglia dal nome dello psichiatra che sul finire degli anni ‘60 e durante tutti gli anni ‘70, prima nel manicomio di Gorizia e poi in quello di Trieste, attuò lo scardinamento dei cancelli della psichiatria. Nello stesso mese di maggio, il 22, è approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Nei giorni 11 e 12 giugno 1978 gli italiani sono chiamati a decidere se abrogare o meno la legge del 22 maggio 1975, n. 152 sulle ‘Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico’ (legge Reale) e se abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Pochi giorni dopo, il 15 giugno, a seguito delle numerose accuse rivelatesi in seguito infondate che lo vedevano implicato nello Scandalo Lockheed, Giovanni Leone rassegna le dimissioni dalla carica di presidente della Repubblica sei mesi prima dalla scadenza naturale del mandato. Sarà sostituito dal partigiano e socialista Sandro Pertini, eletto presidente della Repubblica italiana al 16º scrutinio l’8 luglio.

Intanto il 25 luglio nasce al Royal Oldham Hospital di Oldham (Regno Unito) Louise Brown, la prima bimba in provetta; la procreazione assistita (o fertilizzazione in vitro) ottiene un successo scientifico che origina discussione di gravissima profondità presso tutte le culture, generando, a breve, l’originarsi della bioetica.

Il mondo cattolico è di lì a poco turbato da un’altra serie di avvenimenti: il 6 agosto dopo 15 anni di pontificato muore Papa Paolo VI. Il Patriarca di Venezia Albino Luciani viene eletto papa. Sceglierà di chiamarsi Giovanni Paolo I, diventando il primo papa della storia ad avere un doppio nome. Il suo pontificato però durerà appena 33 giorni e la sua morte, avvenuta all’improvviso nella notte del 28-29 settembre 1978, sarà un evento inatteso e scioccante per la Chiesa cattolica. Il 16 ottobre il cardinale polacco Karol Wojtyla verrà eletto papa con il nome di Giovanni Paolo II. È il primo papa non italiano dai tempi di Adriano VI (15221523). Il suo pontificato sarà il più lungo della storia, dopo quelli di San Pietro e Pio IX.

L’anno si chiude con una bella notizia: il 27 dicembre la Spagna diventa una democrazia dopo 40 anni di dittatura. Qualche giorno prima, in Italia, la legge 23 dicembre 1978 n.833 aveva istituto il Servizio sanitario nazionale mutando radicalmente l’organizzazione sanitaria nel nostro Paese.

Mentre al cinema esce Ecce bombo, il secondo film di Nanni Moretti e Lucio Dalla cosparge di ironica malinconia la cupezza degli anni di piombo e la fine della speranza (“Si esce poco la sera compreso quando è festa e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra” dirà ne L’anno che verrà), la Juventus vince il campionato di calcio. Bettega con 11 reti è nuovamente il principe dei bomber, con Boninsegna che lo tallona a quota 10. Causio, Cuccureddu, Bettega e Zoff, 30 presenze su 30, sono i fedelissimi di una squadra che, di lì a poche settimane, si vestirà quasi tutta di azzurro, nel Mundial argentino.

Sul fronte musicale il 28º Festival della canzone italiana si tiene al Teatro Ariston di Sanremodal 26 al 28 gennaio ed è presentato da Maria Giovanna Elmi (alla seconda conduzione consecutiva) con la collaborazione di Stefania Casini, Vittorio Salvetti e Beppe Grillo. La canzone vincitrice di quest’edizione, …e dirsi ciao dei Matia Bazar, così come le altre che completarono il podio, la seconda classificata Un’emozione da poco della sedicenne Anna Oxa e la terza Gianna di Rino Gaetano, ebbero tutte un ottimo riscontro di vendite, sia in Italia sia all’estero (tutte e tre riuscirono a conquistare il primo posto in hit parade).

Silvio Berlusconi rileva intanto Telemilano, una televisione via cavo operante dall’autunno del 1974 nella zona residenziale di Milano 2. A tale società due anni dopo viene dato il nome di Canale 5, ed assume la forma di network a livello nazionale, comprendente più emittenti. L’escalation della società appare subito folgorante: nello stesso anno trasmette il Mundialito, un torneo di calcio fra nazionali sudamericane ed europee, compresa quella italiana. Per tale evento, nonostante gli iniziali pareri sfavorevoli da parte di ministri governativi, ottiene dalla Rai l’uso del satellite e la diretta per la trasmissione in Lombardia, mentre nel resto d’Italia l’evento viene trasmesso in differita.

“L’anno che sta arrivando tra un anno passerà…” continua a cantare Lucio Dalla ed al 1978 succede, inesorabilmente, il 1979 di Guido Rossa, Michele Sindona, Mino Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Boris Giuliano, Cesare Terranova e Lenin Mancuso… Ma questo è un altro anno e  un’altra storia….

Articolo da–>https://www.strisciarossa.it/dal-caso-moro-alla-legge-basaglia-mezzo-secolo-dopo-e-lanno-che-verra/

40#180 L’anno che cambiò il volto della sanità italiana

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Di Pietro Greco

Nell’anno 1978, quarant’anni fa, la sanità italiana cambiò radicalmente volto. Era tra le meno moderne d’Europa, divenne la più avanzata. Con tre mosse affatto nuovo: il 13 maggio, appena quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani, viene varata la legge 180 sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La nuova norma, meglio nota come “legge Basaglia”, spalancava le porte chiuse dei manicomi, carceri spesso terribili, e restituiva la dignità e persino la parola ai ”matti”. Certo, la legge non è stata sempre applicata al meglio. La sua parziale applicazione ne ha scaricato troppe volte la gestione sulle famiglie, lasciate sole in molte regioni d’Italia. Ma la 180 fu un grande evento di civiltà.

Passano appena nove giorni e il 22 maggio il Parlamento approva in via definitiva la legge 194 sulle “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, più nota come “legge sull’aborto”. Anche in questo caso si trattò di un enorme salto di civiltà, sia perché consentiva di contrastare finalmente la piaga dell’aborto clandestino sia perché riconsegnava alle donne il controllo del proprio corpo.

Il 23 dicembre di quel medesimo 1978, infine, il Parlamento varava la legge 833 per la “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, con cui al diritto alla salute venivano dati finalmente corpo e sangue. Il servizio creava una sanità finalmente universalistica: da questo momento tutti i cittadini italiani – di ogni età, sesso e ceto –

potevano avere accesso alle medesime prestazioni sanitarie. Una rivoluzione. Che ha fornito un contributo decisivo a far aumentare l’aspettativa di vita degli italiani, fino a raggiungere livelli tra i più alti del mondo. E con costi bassissimi.

Con queste tre mosse l’arretrata sanità italiana cambiò passo e divenne, in breve, tra le più avanzate del pianeta sia da un punto di vista concettuale (formidabile estensione di quei diritti che oggi chiamiamo di cittadinanza scientifica) sia da un punto di vista pratico: i “matti” iniziarono a uscire dalle carceri simili a lager in cui erano sprofondati; il destino e persino la vita delle donne furono finalmente sottratte alle mammane (o, per le più ricche, ai viaggi all’estero); la sanità acquisiva finalment e i principi di uguaglianza e di efficienza. Sì, di efficienza, perché come hanno documentato successive indagini internazionali, quella italiana si impose come le prime due o tre del pianeta per rapporto costo/prestazioni.

Questo formidabile cambiamento è avvenuto grazie all’impegno di diverse persone. La legge 180 deve non solo il nome, ma la sua concezione a Franco Basaglia. Sebbene votarono contro, la legge 194 sull’aborto deve molto alle battaglie dei radicali. Il servizio sanitario nazionale fu un felice prodotto dell’incontro tra il pensiero laico e socialista (del PCI e del PSI) e quello della dottrina sociale della Chiesa, che trovava espressione politica in una parte della DC.

La “rivoluzione sanitaria” del 1978 sembrerebbe, dunque, il frutto di azioni casuali che traevano ispirazione da fonti le più diverse. E, invece, quei tre capisaldi nascevano con uno spirito coerente che faceva riferimento al clima culturale del “compromesso storico”. Furono il risultato, forse il migliore, della stagione che aveva portato il Partito comunista di Enrico Berlinguer e la Democrazia Cristiana di Aldo Moro a incontrarsi per un governo inedito del paese.

Tra i protagonisti di quel cambiamento strutturale – potremmo dire di quella bioetica quotidiana applicata – ce ne fu uno in particolare: Giovanni Berlinguer, il fratello medico di Enrico. Sia perché era a quel tempo uno dei teorici più raffinati dell’interpretazione della salute come un diritto universale e irrinunciabile dell’uomo sia perché si rivelò un abile politico, capace di mediare tra laici e cattolici anche in quei campi – come quello dell’aborto – in cui le distanze erano enormi, quasi impossibili da superare.

Si deve soprattutto a lui se la breve stagione del compromesso storico si chiude, almeno in campo sanitario, con un bilancio oltremodo positivo. E se, ancora oggi, possiamo menare vanto per la nostra sanità, che malgrado non poche e talvolta gravi lacune, continua a essere tra le più giuste ed efficienti ed efficaci al mondo.

Articolo da->https://www.strisciarossa.it/lanno-che-cambio-il-volto-della-sanita-italiana/

L’Avvenire e la 180: Tre Articoli su Basaglia

Libri bellissimi anche per chi non si occupa di manicomi

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0061Piccoli passi, muri ridipinti, uniformi sostituite da vestiti, giri in Cinquecento, per gente che aveva preso solo ambulanze

di Adriano Sofri

Ho incontrato Peppe Dell’Acqua, che è sempre un piacere. Dell’Acqua (Solofra, 1947) è dei protagonisti della rivoluzione che aprì i manicomi e volle trasformare i matti in cittadini. L’esperienza di Dell’Acqua è legata soprattutto a Trieste, città nella cui lingua covava una bella premessa, perché a Trieste si dice “matto” per dire una persona, “un bon mato” per dire una brava persona. Lui l’ha raccontata nei suoi libri, in particolare “Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni”. Dal 2010 ha inaugurato una collana, “180. Archivio critico della salute mentale”, Edizioni Alpha Beta, Merano, che è diventata lo strumento più ricco per chi abbia interesse alla questione della salute mentale. Mi ha regalato l’ultimo titolo, “All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961”, il cui autore è l’esule fiumano poi bolzanino Antonio Slavich (1935-2009). E’ un libro bellissimo che racconta passo dietro passo – piccoli passi, infatti, muri ridipinti, uniformi sostituite da vestiti, giri in Cinquecento, per gente che aveva preso solo un’ambulanza – la riforma che Basaglia e Slavich e pochissimi altri realizzarono in quella città e in quel manicomio di frontiera, e che da lì si sarebbe estesa altrove. Libro bellissimo anche per chi ritenga di non avere alcun movente per occuparsi di un manicomio, perché Slavich ha un tratto franco e ironico, drammatico e misurato, che spinge la lettrice o il lettore a fare il tifo per lui e Basaglia e i loro matti, anche quando si sbrigano a richiudere da dentro le porte che improvvisamente, dopo secoli, si sono spalancate davanti a loro, come se vi sentissero un errore e un rischio. Slavich aveva già raccontato la propria esperienza ferrarese, successiva (“La scopa meravigliante”, 2003) e rinunciato a raccontare una amara esperienza genovese, interrotta poi da una lunga malattia. Questo, che è il racconto tardo della sua prima esperienza, è anche forse il più bel libro sul ‘68 di questo sgangherato cinquantenario.

In un giro breve di anni, da quando i malati “erano legati al letto o agli alberi e morivano come le mosche” a quando Gorizia diventò, suo buon o malgrado, “il luogo migliore per andare a passare l’estate” per studenti, intellettuali, artisti e pellegrini di quel Terzo mondo interno, la loro esperienza ebbe un primo compimento. Basaglia, dopo un anno americano, andò a Parma e Slavich lo seguì, scegliendo di ricominciare daccapo. Si conoscevano da dieci anni, maestro e allievo (e vice): Basaglia allora, in veneziano come sempre, gli propose di darsi del tu.

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Articolo da Il Foglio

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