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“Chissenefrega”, il libro del Pulizer Powers che racconta la malattia mentale

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di PEPPE DELL’ACQUA*

È il viaggio del giornalista e scrittore nel mondo delle cure Usa. I suoi due figli i sono ammalati di schizzofrenia, uno si è suicidato. Da lì è iniziata in cammino drammatico durante il quale ha scoperto falle nelle cure, abbandono, paura
Powers deve costatare che nel Vermont come in tutto il mondo le politiche di salute mentale sono basate sul pregiudizio della pericolosità e dell’inguaribilità. Sono programmate con approssimazione tanto che i servizi finiscono per essere lontani dalle persone e di dubbia utilità. Il ricorso inspiegabile e disumano alla contenzione, all’isolamento e a tutte le forme di privazione della libertà non poteva che restare inspiegabile. Comprende che la negazione dei diritti umani è la condizione più compromettente. Una condizione che ostacola le buone cure, le possibili riprese, il desiderio di emancipazione e invade il campo con tutto il peso dello stigma, dell’esclusione, della discriminazione.
La legge 180, che compie oggi 40 anni, segna in Italia la fine dell’internamento e ha avviato lo sviluppo di servizi territoriali, qualcosa di simile ai centri di salute mentale che avrebbe voluto Kennedy. È stata la fine di una legislazione speciale: l’internato, il malato di mente entra in scena, diventa un cittadino cui lo stato deve garantire i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari. Anche noi la chiamiamo deistituzionalizzazione ma non ha niente in comune con le politiche di taglio delle risorse che portò Reagan a chiudere con prepotenza e non curanza i manicomi. Da allora nel nostro paese non è stato più possibile ignorare i malati di mente. Questo libro coraggioso costringerà a ulteriori e attente riflessioni le associazioni dei familiari, le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, le migliaia di operatori che sempre devono sentire la necessità di arricchire le loro conoscenze e coltivare un pensiero critico. E chiede a noi tutti di uscire dall’indifferenza e diventare partecipi.
insegna Psichiatria sociale all’Università di Trieste. Insieme al neurologo e psichiatra Franco Basaglia (1924-1980) ha condiviso i motivi ispiratori di una rivoluzione medica che ha rinnovato profondamente l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica in Italia, portando nel 1978 alla chiusura degli ospedali psichiatrici

“CHISSENEFREGA DEI MATTI” è il libro che il Premio Pulitzer Ron Powersnon avrebbe mai voluto scrivere. Quando i suoi due figli si sono ammalati di schizofrenia, Ron Powers ha scoperto la miseria delle psichiatrie e l’orrore degli ospedali psichiatrici. Con sua moglie Honoree si è trovato disarmato in un mondo duro e sconosciuto. Hanno incontrato psichiatri e psicoterapeuti e facevano fatica a comprendere le loro lingue; hanno dovuto sopportare la presunzione delle certezze farmacologiche e l’evidente fragilità dei fondamenti “scientifici” dei trattamenti. Ha dovuto affrontare l’inerzia che assale una famiglia quando si trova di fronte a un rischio così imminente di disgregazione. Riconoscere la malattia in una persona cara è un’impresa tra le più sgradevoli. Bisogna superare finzioni, svelare segreti, rompere raffinati equilibri inventati per sopravvivere alla tragedia.

Il primo dei suoi due figli è morto suicida. Powers ha fatto molta fatica a “prendere le misure” per parlarne e per restare in un’esistenza così dolorosa, ruvida e amara e affrontare il travaglio per entrare in questa sua storia per raccontarla e riuscire finalmente a mettere il naso fuori, nel mondo. Nel tardo pomeriggio di un freddo giorno invernale con la moglie Honoree  partecipa  a un incontro pubblico nel parlamento del Vermont. Erano stati invitati dal Comitato per la Salute e il Welfare. C’erano i malati di mente a discutere. Affermavano con pacatezza il loro diritto e denunciavano i ritardi nelle cure dovuti alla carenza di programmi, di trattamenti adeguati e di risorse. Powers fu sorpreso dalla compostezza di queste persone e dall’abbigliamento: la tenuta di una normale giornata di lavoro nel Vermont, dice, camicie di jeans e flanella e gonne in denim; le donne con i capelli in disordine, gli uomini con la barba non fatta. Fu una rivelazione: i malati mentali emergevano dalla consueta invisibilità per portare testimonianza di sé. Si rese conto che fino a quel momento, quasi a voler tenere distante il dolore, aveva “convertito i malati mentali in astrazioni”. Aveva smesso di vederli.

• I PREGIUDIZI

Di recente è venuto a Trieste il dr. Jonathan Sherin, direttore dei Servizi di salute mentale di tutta la contea di Los Angeles. Accompagnato da numerosi suoi colleghi ha voluto visitare tutta la rete dei servizi e sapere ogni cosa sulle leggi italiane. Da alcuni rapporti dell’Oms aveva saputo di Trieste e dei suoi servizi territoriali aperti 24 ore su 24 e sette giorni su sette della legge 180 e faceva fatica a credere che un Paese potesse veramente aver chiuso tutti gli ospedali psichiatrici e si accingeva a chiudere per sempre anche gli ospedali psichiatrici giudiziari.

Il dottor Sherin mi disse molte cose della California. Il governatore Ronald Reagan chiuse gli ospedali psichiatrici di Stato con la promessa di finanziare centri di assistenza nella comunità. I centri di salute mentale voluti da John Kennedy già nei primi anni ’60 non ebbero fortuna. La promessa  di Reagan non è mai stata realizzata e ciò ha portato a decine di migliaia di persone che vivono con gravi malattie mentali in carcere e senza le cure di cui hanno bisogno.  Powers arriva per altre vie alle stesse conclusioni: la chiusura degli ospedali psichiatrici negli Usa che chiama deistituzionalizzazione, è stata un fallimento e la psichiatria pubblica quanto di peggio si possa immaginare.

• LA LEGGE BASAGLIA

*Peppe Dell’Acqua, che ha curato la presentazione dell’edizione italiana del libro “Chissenefrega dei Matti” edito da Erickson,

Articolo da ->http://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2018/06/05/news/_chissenefrega_il_libeo_del_pulizer_powers-198211446/


40#180: Le parole di Franco Basaglia

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di Massimo Bucciantini

Le quattordici conferenze che tenne in Brasile a giugno e novembre del 1979 sono il testo di Basaglia più conosciuto fuori dall’Italia. E al tempo stesso – come osserva Maria Grazia Giannichedda – sono «il modo migliore per avvicinarsi al suo lavoro e alle sue idee e per ritrovare, nelle sue parole, le radici della Legge 180». Già, le sue parole. C’è un lavoro ancora da fare sulle “parole” di Franco (di Franca e dei «goriziani»). Perché tanto si è discusso in questi mesi dell’azione che lo condusse allo smantellamento del manicomio, meno, però, delle sue parole, che accompagnano e guidano quella esperienza radicale. E il presente libro – più di altri – si presta a riflettere su questo aspetto. Tornando a leggerlo, sono rimasto colpito dall’inquietudine che lo pervade. Eppure era trascorso appena un anno dall’approvazione della legge che prese il suo nome. Non siamo cioè all’inizio di un percorso ma a un significativo risultato di messa in pratica del progetto a cui lui – insieme al gruppo di psichiatri che partecipò a quella stagione irripetibile – dedicò quasi vent’anni della sua vita. Ma l’aria che si respira in queste conferenze non ha niente di celebrativo. Si percepisce subito che Basaglia non si sente maestro di alcunché, né è venuto per esportare un modello di psichiatria o di salute mentale. Ciò che gli interessa è «organizzare qualcosa che vada al di là di queste riunioni, qualcosa che sia come un cemento che può unire le persone che vogliono lavorare in modo diverso». Quello che gli preme comunicare è l’urgenza di un agire che non può limitarsi al rapporto con i malati e con la follia, ma che deve coinvolgere «il popolo in generale» e le sue organizzazioni sociali e politiche. Ben sapendo che ogni conquista di libertà può tramutarsi nel suo contrario, in una nuova forma di oppressione. Ma questa situazione di pericolo e di incertezza non vanifica i cambiamenti, come se gli sforzi di trasformazione della società fossero destinati sempre e comunque all’insuccesso perché «il potere» ha la capacità di recuperare tutto. Scrive, al riguardo, Basaglia: «Se questo fosse vero dovremmo dire che le Brigate Rosse hanno ragione, cosa che invece non è affatto vera perché sono anch’esse manipolate dal potere: il terrorismo in Europa è un’immagine speculare dello Stato». Siamo nel 1979, a un anno dall’assassinio di Moro, e sono parole pesanti le sue. Così come lo sono quelle lanciate contro la psichiatria e la medicina tradizionali. Una lotta impari, del nano contro il gigante, di una minoranza che vuole una realtà diversa, ma che può diventare – e il nome di Gramsci ricorre più volte – una minoranza egemonica. Le Conferenze brasiliane sono abitate da parole ed espressioni che oggi ci sembrano lontane, che appartengono a un orizzonte ideologico e politico distante ere geologiche dal nostro presente. A una prima lettura siamo quasi tentati di trascurarle, di metterle in secondo piano, come se provenissero da un passato arcaico. Ma che invece non possono essere cancellate, se vogliamo provare a calarci dentro quella pratica antistituzionale, se vogliamo capirne il senso. Ecco allora che brani come questo diventano occasione di riflessione: «Penso che in un certo senso la logica terapeutica e la logica della lotta di classe siano due cose molto vicine, e che solamente con dei passi in avanti della lotta di classe si potrà creare un nuovo codice per una nuova scienza, una scienza che sia al servizio del malato». Il passaggio a una nuova scienza assume così uno dei tratti fondamentali dell’esperienza basagliana. Ma che si caratterizza appieno solo se la associamo al timbro e alla grana della sua voce, inconfondibile: «Per noi il problema era quello di trasformare la scienza in una nuova scienza, di trovare un nuovo codice che si poteva trovare solo attraverso nuove risposte all’altra classe, la classe oppressa, il proletariato e il sottoproletariato che popolavano il manicomio». Si tratta di avviare un’opera di restituzione, anche filologica e linguistica, di quel progetto. E ciò significa, a quasi mezzo secolo di distanza, provare a leggere quei testi pesando e bilanciando le sue parole, all’interno di quell’originale incrocio tra battaglia scientifica e battaglia politica su cui Basaglia ha tentato di costruire una nuova forma di umanesimo. Al tempo stesso, però, si avverte la necessità di ascoltare altre voci, di entrare in quel pezzo di storia da punti diversi. Per questo, il racconto autobiografico di Antonio Slavich (1935-2009) riempie un vuoto e vorremmo che altri se ne aggiungessero. Intanto è una testimonianza preziosa, di un protagonista. E non solo perché Slavich fu il primo allievo di Basaglia, colui che dal 1961 lavorò al suo fianco fino al 1969, fino a quando i coniugi Basaglia decisero di trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste, ma anche perché riesce, con una scrittura in terza persona limpida e coinvolgente, a rendere il clima di fermento e di continua sperimentazione che si respirava nei padiglioni di uno degli ospedali psichiatrici più periferici e insignificanti d’Italia, al confine del mondo occidentale. Ci si accorge subito che siamo di fronte a uno sguardo che cattura i dettagli, anche quando vorresti che il racconto non indugiasse ed entrasse subito nel vivo della battaglia. Anzi, in un primo momento saresti quasi portato a saltare, ad andare al dunque. Poi però scopri che questa andatura minimalista ha il merito di farti vedere le persone più da vicino e di spazzare via luoghi comuni. «Il primo incontro di Basaglia con Slavich fu sobrio, breve, cortese, nessun tu asimmetrico fra barone e allievo implume. Da quella mattina di fine ottobre del ’59, fino al ’68, Basaglia e Slavich si sarebbero dati sempre del lei». E riferendosi a Basaglia: «Il francese lo leggeva bene e molto, come l’italiano e l’inglese; il tedesco, invece, se lo faceva tradurre; quanto a parlarle, le lingue, l’unica che orgogliosamente usava era il veneziano, a meno che la cosa fosse proprio inopportuna». Ma le vicende si susseguono senza tregua, e il ricordo si fa incalzante. A cominciare dalla «bella primavera» del 1965, quando a Gorizia, arriva Agostino Pirella già primario a Mantova («lo sguardo era diritto, intelligente e un po’ ironico, uno studioso serio») e subito dopo Nico, Domenico Casagrande, e poi ancora, nell’ottobre del ’66, Giovanni Jervis, la psicologa Letizia Comba Jervis, Lucio Schittar. I sette goriziani, come li chiama Slavich. Il settimo era Leopoldo Tesi arrivato nel novembre del ’62. E attorno a questo sparuto, e a volte conflittuale, gruppo si formano in quegli anni tanti operatori, allora studenti e giovani laureandi, che diventeranno il motore della preparazione della Legge 180. Slavich racconta la genesi del libro collettivo Che cos’è la psichiatria?, curato da Basaglia e stampato dall’Amministrazione provinciale di Parma, «con il disegno autoritratto di Hugo Pratt in divisa da matto in copertina». E subito dopo affronta i nodi concettuali che portarono all’uscita dell’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. È uno dei capitoli più belli del libro, con la discussione delle contraddizioni che emersero all’interno del gruppo e provocate dalla presenza degli ultimi due reparti ancora chiusi, i reparti C uomini e donne. Il libro uscì nel febbraio del ’68. E fu un successo. Slavich ricorda così la commozione di Basaglia al momento della consegna del dattiloscritto a Einaudi: «I primi di dicembre, un pomeriggio, Franco aspettava pazientemente in biblioteca la consegna degli ultimi dattiloscritti. Li impilò in bell’ordine in un faldone da ufficio, di quelli grigi con i nastrini neri subito legati a fiocco; sollevò felice il faldone stringendolo al petto, salutò tutti, guardandoci uno a uno con uno sguardo mite carico di affetto e gratitudine: poi di scattò si girò e scendendo le scale a grandi balzi s’infilò in macchina, grattò la marcia, e si precipitò a Torino». Un’immagine fulminante.

Articolo Originale

Franco Basaglia, Conferenze brasiliane. Nuova edizione, a cura di Franca Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano, pagg. XI, 232, € 15 Antonio Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano (BZ), pagg. 271, € 16 (Collana 180. Archivio critico della salute mentale)

19 Giugno 2018 convegno sul 40° della legge Basaglia

PROGETTO-OBIETTIVO
“TUTELA DELLA SALUTE MENTALE 1994-1996″
La riforma psichiatrica varata nel 1978 con la legge n.
180, poi travasata nei contenuti sostanziali negli articoli
33 e seguenti della legge di riforma sanitaria 23 dicembre
1978, n.833, ha aperto la via a profondi cambiamenti
culturali e organizzativi a tutti i livelli delle istituzioni
pubbliche preposte al settore.
La nuova disciplina legislativa, infatti, ha postulato un
diverso approccio alla malattia mentale, modificando gli
obiettivi fondamentali dell’intervento pubblico dal controllo
sociale dei malati di mente alla promozione della salute
ed alla prevenzione dei disturbi mentali e spostando l’asse
portante delle istituzioni assistenziali dagli interventi fondati
sul ricovero ospedaliero a quelli incentrati sui servizi
territoriali.
PROGETTO-OBIETTIVO
“TUTELA DELLA SALUTE MENTALE 1994-1996″
La riforma psichiatrica varata nel 1978 con la legge n. 180, poi travasata nei contenuti sostanziali negli articoli 33 e seguenti della legge di riforma sanitaria 23 dicembre 1978, n.833, ha aperto la via a profondi cambiamenti culturali e organizzativi a tutti i livelli delle istituzioni pubbliche preposte al settore. La nuova disciplina legislativa, infatti, ha postulato un diverso approccio alla malattia mentale, modificando gli obiettivi fondamentali dell’intervento pubblico dal controllo sociale dei malati di mente alla promozione della salute ed alla prevenzione dei disturbi mentali e spostando l’asse portante delle istituzioni assistenziali dagli interventi fondati sul ricovero ospedaliero a quelli incentrati sui servizi territoriali.

40#180: GORIZIA 1961. Con Antonio Slavich, là dove tutto ebbe inizio

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di Paolo F. Peloso

Ha fatto molto bene l’editore Alphabeta di Merano a proporre quest’anno nella collana 180 (e dove sennò?) diretta da Peppe Dell’Acqua con consulente Pier Aldo Rovatti il libro postumo di Antonio Slavich All’ombra dei ciliegi giapponesi[i]. Gorizia 1961. Ha fatto bene per tre ragioni.
La prima è che, con questo testo, scopriamo come se si trattasse della ricerca della sorgente di un fiume la sorgente prima della Legge 180, la legge che chiude il manicomio. Che non nasce ovviamente nel 1978, anno della sua approvazione in Parlamento sulla base di un accordo tra politici, come è logico che sia per una legge. Ma non nasce neppure nel 1971, l’anno in cui Franco Basaglia arriva a Trieste deciso a dare quella spallata definitiva al manicomio che a Gorizia non era stata possibile. E neppure, come personalmente ritengo, nel 1964, l’anno in cui Basaglia sostiene pubblicamente in un congresso che l’ospedale psichiatrico dev’essere distrutto. Nasce – Slavich ci dice – subito dopo quel 16 novembre 1961 quando un uomo solo, proveniente dall’Università, mise per la prima volta piede nell’ospedale psichiatrico, che avrebbe da quel momento in poi diretto, per il primo giro dei reparti: «ciò che Basaglia avrebbe visto era prevedibile, ma i suoi occhi sensibili non vi erano ancora preparati» (p. 33).
La presa d’atto immediata della miseria della condizione del malato nell’ospedale psichiatrico e il disegno di distruggere quel luogo all’interno del quale essa si era prodotta furono dunque, per quell’uomo sensibile al dolore dell’altro e all’ingiustizia, tutt’uno. E quando Slavich, che era stato suo allievo all’Università di Padova sotto la direzione di Giovanni Battista Belloni, lo raggiunse a Gorizia una domenica dell’inizio del marzo successivo, il rigetto dell’ospedale psichiatrico aveva per lui già avuto luogo. Si trattava ora di mettere mano al lavoro, conquistando metro per metro quel piccolo ospedale per liberarlo e dimostrare così, in primo luogo a se stessi, che l’ospedale psichiatrico poteva essere distrutto.
Il libro di Antonio Slavich – del quale ho avuto il grande privilegio di essere stato forse l’ultimo degli allievi, il più giovane, a Genova – è dunque innanzitutto prezioso perché ci porta – con un’attenzione per i dettagli che nasce dalla consapevolezza di essere, dei primi anni di lotta, morto Basaglia l’ultimo testimone – a ripercorrere passo passo la lotta faticosa con la quale, a partire dal primo momento nel quale il direttore è solo, giorno dopo giorno il gruppo cresce, a volte convincendo e a volte vincendo, passando dall’essere sparuta minoranza all’egemonia.
La seconda ragione per la quale questo libro è prezioso è la capacità di farci ripercorrere, quasi giorno per giorno, una storia nata sì da un rifiuto ma sviluppatasi senza un piano preciso, e forse anche con un po’ di fortuna, dai primi gesti spontanei in favore di piccoli gruppi di malati chiusi in un piccolo ospedale psichiatrico di periferia, fino a diventare emblema nel mondo della lotta al manicomio. Come nacquero, uno per volta, uno dietro l’altro, gli strumenti pratici e i concetti che formano oggi l’essenza della teoria e della pratica della deistituzionalizzazione: l’abbattimento dei muri, il rifiuto della contenzione, l’assemblea, un modo diverso di stare insieme personale e malati. Atti ripetuti in migliaia di esperienze diverse, nelle quali è stato ogni volta necessario ripartire dall’inizio. Alcune più fortunate, altre fermatesi sul nascere perché l’istituzione, l’oppressione, talvolta la stupidità sono state più forti.
Il libro, però, non è solo importante perché ci spiega come tutto ebbe inizio e, passo passo, come si sviluppò; lo è anche per una terza ragione. Perché questa sorta di mito delle origini della nuova psichiatria italiana, finalmente raccontato nel suo svolgersi quotidiano, non è solo un evento di interesse storico ma è destinato a ripetersi – e chi scrive lo sa bene a prezzo di qualche amarezza – ripartendo ogni volta da zero e con la stessa fatica, le stesse amarezze di allora ogni volta che ci poniamo l’obiettivo di liberare un’istituzione dalle incrostazioni manicomiali che può avere assunto negli anni, qualunque sia la legge vigente. Un’incrostazione che è fatta sempre di un misto dolciastro di paternalismo; granitica certezza nel proprio sapere fatto in parte di pregiudizi sul fenomeno misterioso della follia nel suo darsi ogni volta singolare e diverso, e sul modo migliore di affrontarlo; inattaccabile e inconfessata convinzione della di un guardare dall’alto in basso di chi cura rispetto a chi viene curato; inconfessabile difesa di piccole sicurezze, comodità, privilegi; imboscate e piccole astuzie istituzionali; e a volte, più raramente, anche aperta violenza. E soprattutto di una resistenza rocciosa al mettersi in gioco e provare a cambiare sul serio.
La “Legge Basaglia” non ha vinto, non può vincere mai in modo definitivo; si tratta ogni giorno di riaffermarla con fatica ritrovando la stessa determinazione di quel momento primigenio, l’impatto di un uomo contro l’istituzione a Gorizia che gli ha fatto dire: io non firmo, io non ci sto!
E da quel giorno comincia questa storia, fatta di vittorie e più spesso di sconfitte e destinata a ripetersi ogni volta sostanzialmente uguale.
Slavich era già stato incaricato di una sintesi dell’esperienza goriziana cinquant’anni fa, nel capitolo Mito e realtà dell’autogoverno de L’istituzione negata. Ma qui, a tanti anni di distanza, non gli è richiesta la sintesi che toglie il gusto dei dettagli che rendono viva, reale un’esperienza, e poi c’è spazio per l’elemento affettivo del ricordo (del riportare al cuore), che – al di là di uno sforzo evidente di obiettività testimoniato anche dalla scelta della terza persona – in molti punti traspare.
E così incontriamo le prime curiosità, di Basaglia e sue, per la fenomenologia con il suo distacco per un anno a Wurzburg presso Erwin Straus e l’incontro diretto con Viktor von Gebsattel. E poi ritrovarsi dal marzo 1962, maestro e allievo, soli in quello spazio estraneo e nemico: «L’interno degli otto reparti, da 50 o da 100 letti, era ver­niciato a olio (marroncino o verdone) e arredato con qualche panca e pesanti tavolacci; vi stazionavano qualche divisa bianca, non proprio immacolata, e più di 600 corpi infagot­tati in tela, grigi e rapati. Nei due reparti A accettazione i corpi stavano in prevalenza a letto, alcuni legati; nei due re­parti B agitati molti erano contenuti a letto nelle celle. Nelle belle giornate, che a Gorizia erano frequenti anche a novem­bre, era il tempo delle lunghe ore d’aria: e allora tutti dove­vano stare a rabbrividire nei cortili, alcuni ingabbiati, alcuni – specie al B – anche legati agli alberi, i più stesi per terra lungo i muri, o sulle panche di pietra, o ambulanti in un moto perpetuo e senza meta. Il sommesso brusìo e lo scal­piccio erano assordanti, ma in quella mattina di sole qualcu­no, forse per compiacere il nuovo direttore, aveva acceso gli altoparlanti, da cui Mina urlava: “Tintarel-la di luu-naaaaa! Tintarella color laat-teeeeee!”. Persino Franco fu colpito dal contrasto stridente e ne sorrise, come in seguito raccontò lui stesso a Slavich con la consueta ironia» (p. 33).
Come non ritrovare in questa descrizione la scena dell’ingresso di molti di noi in manicomio, anche molti anni dopo la legge 180; il manicomio era sempre lì e l’impressione la stessa.
Da questo sguardo d’insieme l’obiettivo per i due diviene subito quello di raggiungere ogni singolo malato, restituirgli la storia personale, conoscerlo come persona, e quindi rompere in primo luogo con la tendenza all’omologazione e alla serialità. E poi, una volta scoperta la persona, cominciare a rompere con la prassi dell’incombere della pericolosità e dell’esclusione: i primi viaggi in automobile, insieme con il malato. Un giorno sarebbe stato l’aeroplano come una foto famosissima di Basaglia e dei suoi matti all’imbarco ci ricorda: ma quelle prime uscite su una 500, delle quali non abbiamo la fotografia, sono state il vero punto di rottura, l’inizio modesto e in piccolo della storia che Slavich si propone qui di riportare alla luce.
Poi si parla degli psicofarmaci, usati certo con rispetto ma introdotti da Basaglia là dove ancora non erano; della definizione, per la prima volta al XXVIII congresso SIP di Napoli del ’63, da parte di Slavich e degli altri due giovani medici che si erano aggiunti per formare la prima pattuglia dei fedeli del direttore – Leopoldo Tesi e Maria Pia Bombonato – di ciò che stavano facendo come “deistituzionalizzazione”, cioè liberazione del malato da quella che Russel Burton, un autore che ricorre negli scritti di Basaglia in quegli anni, definiva institutional neurosis. “Deistituzionalizzazione”: un faticosissimo nuotare controcorrente che da allora avrebbe segnato il discrimine tra una psichiatria “democratica” – che è facile tacciare di anarchia – e una psichiatria fine soltanto alla conservazione del proprio ordine, che è l’ordine della rigidità e dell’esclusione.
Già a settembre del ’62, poi, le prime aperture dei reparti, e i malati increduli che esitano ad uscire. Siamo ai primi di dicembre e cade la prima delle reti che circondavano i reparti; immaginiamo l’emozione di quell’attimo, e Zavoli monterà un giorno quelle immagini destinate alla celebrità ne I giardini di Abele. Chissà se in quel momento, in quel piccolo ospedale di periferia, Basaglia e i suoi immaginavano quante altre reti sarebbero cadute in Italia e nel mondo negli anni a venire dietro a quella. L’ultima recinzione, comunque, a Gorizia sarebbe stata abbattuta solo cinque anni dopo, a conferma del fatto che non fu certo tutta una marcia trionfale. Intanto la vita nei reparti veniva trasformata con gesti materiali, quelli che Racamier ha chiamato le azioni parlanti, molto più efficaci a volte delle parole: compaiono i piatti, le posate, i mobili – oggetti “pericolosi” – viene individualizzato il vestiario, l’estetica degli ambienti diventa un elemento essenziale per far sì che la miseria e omologazione non si rispecchi nella percezione miserabile di sé degli internati.
Questo dell’estetica dei luoghi è un tema centrale delle pratiche che si ispirano a Basaglia, e mi ci voglio fermare. Confesso che a vent’anni, quando conobbi Slavich, a me, che venivo dal “movimento” e dalla contestazione di tutto ciò che era “borghese”, ne sfuggiva senz’altro l’importanza. Ma negli anni mi colpì l’orgoglio con il quale Antonio mi mostrò i lavori ultimati per la sistemazione elegante in un’enorme divisione dismessa del Nuovo istituto di Quarto del “Centro socioterapico Franco Basaglia”; e quello con cui, nello stesso periodo, mi presentò i nuovi locali, ricavati nel Vecchio istituto, per il Centro diurno dei pazienti territoriali. Mobili scelti uno a uno, con attenzione e con gusto come se si trattasse di arredare casa propria. E poi mi colpì, negli anni successivi, ritrovare la stessa attenzione all’estetica, che forse doveva nascere in questi casi dallo stesso maestro che l’aveva trsmessa ad Antonio, da parte di Antonio Maria Ferro, allievo di un altro goriziano, Giovanni Jervis; e di Giovanna Del Giudice, allieva di Basaglia stesso a Trieste, quando mi mostrarono altri luoghi che avevano approntato per la cura. Gorizia, dunque, laboratorio anche in questo percepire l’importanza per chi era stato costretto a viversi misero nella miseria di scoprire attorno a sé – per sé! – ambienti sobri ma dignitosi, predisposti con rispetto.
Il lavoro dei malati intanto si trasforma da elemento di asservimento all’istituzione in elemento di consapevolezza della propria dignità e potenzialità, che trova un senso certo nell’attività ma anche nel reddito. Nella primavera del ’64 la piccola équipe è in visita a Gutersloh, il tempio dell’ergoterapia manicomiale diretto un tempo da Hermann Simon, per trarne idee ma anche per maturare un approccio critico al tema del quale proprio Slavich con Letizia Comba darà conto in un capitolo fondamentale di Che cos’è la psichiatria?[ii]. Attorno al lavoro si moltiplicano la scuola, lo sport, gli atelier, analogamente a quanto avveniva già in quegli anni nelle esperienze più vivaci di riforma dell’ospedale anche in Italia. Ma il senso di tutto questo lavorio per animare lo spazio e il tempo dentro l’istituzione non era a Gorizia solo una forma più nuova e umana di terapia; era soprattutto uno sforzo di aprire opportunità perché si sprigionasse la vita, un’opportunità di riancoraggio alla vita: «Basaglia vedeva rosso se qualcuno insinuava, fosse pure con le migliori intenzioni, che il suo Mondrian in Tintal potesse costituire in qualche modo una terapia d’ambiente, secondo il costume vigente in quell’epoca, per il quale chi giocava a pallone faceva calcio-terapia, un torneo di scopa e tresette diventava carto-te­apia, la proiezione di qualche film cine-terapia, e via inventandosi cattive pratiche e nuove tecniche terapeutiche a buon mercato, destinate ad animare a lungo il deserto dei mani­comi (ovvero, oggi, quello delle cliniche private, di molti day-hospital e dei servizi territoriali pubblici)» (p. 97).
Ed è un tema, questo, davvero destinato a trascinarsi a lungo nella riabilitazione psichiatrica in Italia, sul quale io stesso, dopo molti altri, mi sono trovato a ragionare più volte[iii].
Nasce il periodico interno autogestito da un’élite tra i malati - Il Picchio – destinato a raccoglierne le loro voci e le lamentele e accompagnare e pungolare il processo di apertura[iv]; e nasce il club “Aiutiamoci a guarire – prototipo di esperienze di autoaiuto e associazione che ancora oggi fanno tanta fatica ad attecchire e diffondersi in una psichiatria dove il paternalismo continua a essere tremendamente diffuso – che gestisce tra l’altro il Centro Sociale interno, luogo indispensabile di libera socialità.
Occupano il centro del volume due capitoli che ho trovato assolutamente preziosi per ricchezza d’informazioni e per chiarezza: Il contesto culturale e professionale Processo al manicomio. Rapporto da un convegno del 1964. Il primo è dedicato alle fonti teoriche e ai contributi principali del duo Basaglia-Slavich nella prima metà degli anni ’60, cioè nei primi anni di Gorizia. I contributi dai classici della fenomenologia tedesca, la scoperta degli autori anglosassoni contemporanei e di Minkowski, Merleau-Ponty  e Sartre, fino a Foucault. Elementi tutti, Slavich ha ragione, tra i quali non c’è discontinuità, ma che insieme contribuiscono alla costruzione di quello che possiamo definire un autonomo punto di vista teorico-pratico “basagliano” che non si sviluppa certo soltanto nella mente di un singolo intellettuale, ma nel confronto continuo tra quell’uomo e il piccolo gruppo di collaboratori che lo accompagna, e soprattutto con la realtà concretya che vive. E che ha come tratto distintivo imprescindibile l’obiettivo della distruzione dell’ospedale psichiatrico. E poi i rapporti, più complessi, con la fenomenologia italiana – preziosa nelle sue riflessioni ma troppo spesso astratta rispetto alla violenta concretezza delle pratiche d’internamento – e lo sforzo del gruppetto di Gorizia di adeguare le partiche al ragionamento teorico sull’uomo, scegliendo così di rimanere a loro volta, come Slavich dice con ammirazione a proposito dell’eccezione rappresentata da Eugenio Borgna: «fedele alle sue idee e ai suoi malati, perché consapevole sia dei limiti delle prime che delle umane sofferenze dei secondi» (p. 126)[v]. E, ancora, le radici del pensiero e della pratica basagliana nella psichiatria italiana ed europea di quegli anni: la psicoterapia istituzionale francese, la comunità terapeutica inglese e per l’Italia le sperimentazioni più interessanti in atto, come quella di Edoardo Balduzzi a Varese. Quanto all’altro capitolo, è uno affresco prezioso a tutto campo sullo stato della discussione sull’assistenza psichiatrica in Italia nel 1964: vi sono rappresentati tutti i punti di vista, i temi all’ordine del giorno, le alternative che erano in quel momento in campo per un futuro del quale tutti avvertivano comunque necessaria – chi più chi meno – la diversità rispetto all’esistente. Il convegno di Bologna è un appuntamento al quale si ritrovano tutti i protagonisti della psichiatria italiana della prima e dell’ultima parte del ‘900, e di ciascuno di essi Slavich riporta, con tratti brevi ma efficaci, il punto di vista. Era un mare tutt’altro che tranquillo, quello della psichiatria italiana in quel momento, e l’esperienza di Gorizia sembrava ancora una delle tante.
Ancora nel ’64, poi, l’apertura ad opera di Slavich della prima comunità terapeutica, un metodo che lentamente si sarebbe diffuso a tutto l’ospedale.
Con il ’65, arrivano i rinforzi, che porteranno l’équipe goriziana alla composizione che resterà famosa: prima Agostino Pirella, poi Nico Casagrande, Giovanni Jervis con la moglie Letizia Comba, Lucio Schittar, che si aggiungono a Basaglia, sua moglie Franca Ongaro e Slavich stesso, protagonisti dei primi, e forse più faticosi, tre anni. La storia, da questo momento in poi, è più nota e infatti anche la memoria di Slavich scorre i fatti in modo più veloce.
Gorizia è ormai famosa nel mondo ma lo è meno in Italia: sarà essenziale, per questo, l’interesse di uno dei più grandi e sensibili giornalisti dell’epoca, Sergio Zavoli, che dell’esperienza darà una rappresentazione fedele e completa con la proiezione, sulla RAI, del documentario I giardini di Abele (un altro documentario, La favola del serpente, meno noto e girato dalla finlandese Pirkko Peltonen in assemblea a Gorizia nell’agosto ‘68, è riportato in calce a questo articolo). Intanto, dopo la pubblicazione in tiratura limitata di Che cos’è la psichiatria?[vi], quella con Einaudi de L’istituzione negata[vii] consacra insieme la notorietà delle tesi goriziane e la saldatura ai movimenti della contestazione. Operatori curiosi e  sensibili, che saranno in parte tra i protagonisti della psichiatria italiana dei decenni successivi come Leo Nahon, Stefano Mistura o Fabrizio Asioli, e altri curiosi, artisti cominciano ad affluire a Gorizia insieme ai parmigiani Mario Tommasini e Fabio Visintini.
L’esperienza di Gorizia sembra giunta così, in soli sette anni, al suo apice, nulla parrebbe poterla più fermare; ma gli equilibri politico-amministrativi locali che avevano consentito, e in qualche misura favorito, fino a quel punto lo sviluppo dell’esperienza goriziana andavano facendosi stretti; l’amministrazione si opponeva al logico sviluppo – cui già stavano andando incontro da un tempo più o meno lungo altre realtà italiane – dell’apertura dell’ospedale psichiatrico al suo interno con la creazione di ambulatori esterni indispensabili, in primo luogo, a sostenere le dimissioni.
Non manca infine, non avrebbe potuto mancare, un capitolo dedicato alla triste vicenda dell’uxoricidio posto in essere da un degente in permesso, col quale Slavich aveva uno speciale rapporto affettivo; è l’incidente più importante e porterà Antonio stesso, insieme a tutta l’impostazione basagliana, sul banco degli imputati. Poi sarà assolto, ma non poteva non dare spazio qui, a tanta distanza del tempo, al proprio dolore, né rinunciare a offrire la propria versione.
Arricchisce il volume, oltre a un’utile glossario curato da Peppe Dell’Acqua e Deborah Borca  -  un articolo cui Slavich sembra tenere particolarmente, realizzato nel ’66, pubblicato sulla Rivista Sperimentale di Freniatria nel ‘67, omesso nella raccolta degli Scritti basagliani e dunque poco noto: Problemi metodologici in tema di psichiatria istituzionale: la situazione comunitaria. In esso un gruppo autoriale a cavallo tra la prima (Basaglia, Slavich, Tesi) e la seconda (Pirella, Casagrande) équipe goriziana propone una lettura teorica di quanto si è realizzato a Gorizia. Non mi sento, ovviamente, di proporre un’esegesi completa per la ricchezza teorica e la complessità del ragionamento che lì viene esposto, ma vorrei limitarmi a evidenziarne alcuni punti salienti, rimandando alla lettura diretta che credo sia fondamentale.
L’articolo, ricco di fondamentali riferimenti teorici, fa il punto su elementi di forza e criticità della psicoterapia istituzionale francese e della comunità terapeutica inglese. L’approccio goriziano, che ha in comune elementi tanto con l’uno che con l’altro, si distingue da entrambi perché si è dovuto innanzitutto opporre a una pressione sociale, che per ragioni storiche aveva intensità maggiore in Italia[viii],  caratterizzata da una spinta per ragioni securitarie all’esclusione sociale del malato di mente e dal carattere vistosamente di classe che l’esclusione stessa assumeva, anche in relazione al minore prestigio della psichiatria pubblica nel nostro Paese.
L’esperienza goriziana prende dunque le mosse dalla dimensione spaziale dell’istituzione: «nello spazio chiuso il rapporto interpersonale è spogliato di ogni spontaneità; si rarefà e si vanifica» (p. 260). Nella situazione aperta, entrano tendenzialmente in crisi i ruoli e questo è certamente l’aspetto di più difficile comprensione, sul quale mi è capitato, proprio per la sua complessità, di soffermarmi più volte[ix]. Il ruolo di medici, infermieri e malati, infatti, non è più distinto sul piano antropologico, essenziale; ma lo rimane sul piano di una autorità “tecnica” degli operatori, basata cioè su un sapere tecnico che può essere sottoposto a continua reciproca verifica e contestazione[x]. L’operatore, quindi, non può più contare sul fatto di essere istituzionalmente “superiore” al paziente, ma si pone di fronte a lui come persona con una persona, portatore però di un sapere tecnico che può essere utile all’altro, ma può essere anche da lui contestato, dialettizzato e negoziato. Il vissuto che ha l’operatore della perdita di questo potere “a priori”, di questo potere come status,  di questa abitudine a volte inconsapevole di parlare con l’altro dall’alto verso il basso può essere perciò, facilmente, quello di “disordine” e “anarchia” (p. 263).
Credo che questo aspetto del pensiero e della pratica basagliana sia quello che ha più difficoltà ad essere recepito nelle nuove istituzioni che la psichiatria si è data dopo la legge 180, e costituisca anche oggi il principale terreno di scontro tra una psichiatria che, anche in luoghi non manicomiali, continua a essere manicomiale (paternalistica) nella sua essenza; e una psichiatria che si sforza di praticare il più possibile stile non manicomiale nella relazione con il malato. Uno stile che non dà a priori sicurezze granitiche come granitico era il muro del manicomio, ma che è necessario rassegnarsi a dover vivere in qualche rapporto, almeno, con la dialettizzazione e la dinamizzazione dell’istituzione, con la negoziazione, e in definitiva con la necessità, almeno in qualche misura, di “vivere nell’ansia e nel rischio” (p. 264, 265)[xi]. “Ansia”, del resto, è uno dei termini più ricorrente nel libro, ed è usato soprattutto in riferimento alla figura di Basaglia. Quanto al valore terapeutico di ciò che si fa, anch’esso consiste nel rimettere: «in discussione alle radici in ogni momento la validità e il senso del nostro lavoro e delle nostre scelte quotidiane comunitarie» (p. 266). Un continuo confrontarsi con la realtà, dunque, che era per la verità già evocato da alcuni autori del movimento della Comunità terapeutica e serve a preservare dalla caduta nella duplice ideologia di considerare sempre – o all’opposto di non considerare mai – l’altro incapace di decidere e bisognoso del fatto che siamo noi a farlo al suo posto.
Temi assolutamente all’ordine del giorno, io credo e so per esperienza che gli Autori considerano da tre punti di vista: quello fantasmatico, quello ideologico e quello reale ma io ho preferito qui proporre riducendoli a quello che mi è parso il nocciolo della questione.
Il volume mi ha riportato alla memoria tante discussioni con Antonio, nel suo studio dove amava ascoltare in solitudine musica classica e lo si poteva trovare a ogni ora, o passeggiando insieme sotto i portici o nei cortili di Quarto, il tono semplice ed epico con il quale rievocava aspetti di quell’esperienza goriziana che aveva avuto la fortuna da vivere dall’inizio e considerava giustamente il momento più importante, e forse uno dei più felici, della sua vita. L’orgoglio col quale mi presentò i compagni di quella stagione meravigliosa al convegno Isole. Percorsi delle difese e della libertà del 1992: Agostino Pirella e Franca Ongaro, forse altri che non ricordo adesso, Lo ricordo ormai molto debole in salute (c’è una discreta e commuovente allusione in proposito a p. 217) preoccupato di non vivere abbastanza per poter concludere questo libro, di non poter portare a termine quello che avvertiva come un dovere di testimonianza di quei tre anni iniziali vissuti a fianco di Franco Basaglia, condividendone le speranze, le ansie, le amarezze, le fatiche, i successi sempre comunque insufficienti ad appagare. Ricordo la sua soddisfazione quando gli porsi le recensioni del suo precedente testo, La scopa meravigliante. Preparativi per la legge 180 a Ferrara e dintorni (Roma, Editori Riuniti, 2003) che avevo pubblicato nel 2004 su “Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane”, la rivista degli psichiatri liguri, e nel 2005 su “Quaderni italiani di psichiatria”, la rivista ufficiale della SIP. E così, mi piace sperare che anche la recensione a questo suo nuovo testo, al quale soprattutto teneva e che credo che – grazie anche ai curatori – sia venuto davvero bene, gli avrebbe fatto ugualmente piacere.


[i] Lo strano titolo del libro si riferisce al fatto che gli alberi lungo il viale dell’ospedale psichiatrico, all’ombra dei quali ebbero luogo ante discussioni e tanti incontri di cura in quegli anni, erano per l’appunto ciliegi giapponesi.

[ii] Sul tema cfr. in questa rubrica:  P.F. Peloso,   Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo. Parte II. Lavoro, psicoterapia, istituzione, POL. it, 6 giugno 2017 (clicca qui per il link).

[iii] Ricordo per tutti scritti di Angelo Cocchi e Giorgio De Isabella, e, per ciò che mi riguarda: P.F. Peloso, R. Guttuso-Poggi, P. Ciancaglini, Riabilitare il Centro diurno: problemi, obiettivi, strategie, Psichiatria di comunità, 3, 1, 2004, pp. 23-34; P.F. Peloso, L. Basso, D. Lamonaca, C. Maberino, La vita: fattore terapeutico o antiterapeutico?, Noos, 16, 1, 2010, pp. 29-44.

[iv] Sull’esperienza dei primi giornali autogestiti dai malati negli ospedali psichiatrici italiani, cfr.: P.F. Peloso, Il primo esperimento italiano di periodico socioterapico (1961-74) redatto dai degenti degli ospedali psichiatrici genovesi, Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere,  L, 1993, pp. 231-250; per ciò che riguarda in particolare “Il picchio” cfr.: J. Foot, La repubblica dei matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978 Milano, Feltrinelli, 2014, cap. 7.

[v] Una capacità, quella di Borgna, di tenere insieme ricchezza di elaborazione teorica e sensibilità verso il malato che ritroviamo anche in uno dei suoi ultimi testi, L’ascolto gentile. Racconti clinici (Torino, Einaudi, 2017). Per la mia recensione al volume su Pol. it, clicca qui per il link. Rimando anche all’affascinante intervento a Genova di Eugenio Borgna del 9 maggio scorso, quando ho avuto l’opportunità di accoglierlo per la presentazione dello stesso volume, nella sezione video di Pol. it.

[vi] Cfr.: P.F. Peloso (2017),   Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo (clicca qui per il link).

[vii] Per il commento alla prima parte del volume cfr. in questa rubrica: P.F. Peloso, L’istituzione negata. 50 anni dopo, è ancora di lì che dobbiamo partire (1) (clicca qui per il link). La seconda parte è in corso di elaborazione.

[viii] Per la Gran Bretagna, gli Autori si riferiscono probabilmente alla più forte tradizione di democrazia e diritti civili rispetto all’Italia, e a una psichiatria che, dai tempi dei Tuke e di Conolly (una storia alla quale espressamente i teorici della Comunità terapeutica si rifanno) si è posta il problema dei diritti e della dignità del malato di mente. Tanto per la Francia che per la Gran Bretagna, poi, i movimenti di riforma dell’ospedale psichiatrico presero avvio già durante la II guerra mondiale, con largo anticipo perciò sull’Italia. Quanto alla Francia, il maggior prestigio e la maggiore considerazione sociale degli psichiatri rispetto ai colleghi italiani già dal XIX secolo è indubbio, e per un confronto tra la legislazione francese del 1838 e quella italiana del 1904, a caratteredecisamente  più securitario, entrambe vigenti in quegli anni, cfr.: Peloso P.F., Prima di tutto custodire. La psichiatria secondo la legge 36 del 1904, in: A. Arata, Cento… ottanta. Psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario. Seconda edizione arricchita con il contributo di psichiatri protagonisti, Boves (CN), Araba fenice, 2017, pp.  349-381.

[ix] Sul tema ricordo i contributi personali: P.F. Peloso, Architetture della perfezione e spazi di vita, in: Comunità: natura, cultura … terapia (a cura di C. Conforto, G. Giusto, P. Pisseri, G. Berruti), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 80-130, nonché la recensione in tre parti in questa rubrica: P.F. Peloso, 50 anni di “Corpo e istituzione”, Pol. it, 2017 (clicca qui per il link).

[x] Il tema, evidentemente, rimanda a quello, che sarebbe stato posto più recentemente, del consenso informato in medicina e delle difficoltà – ma a volte anche delle eccessive reticenze – che incontra la sua applicazione in psichiatria.

[xi] Sulla questione, rimando in questa rubrica a: P.F. Peloso, La coazione va sempre evitata. Relazione al Congresso annuale PSIVE 2016, POL. it., 2016 (clicca qui per il link).

Articolo da –>http://www.psychiatryonline.it/node/7403

A Trieste, più di 500 presenze per “Democrazia e salute mentale di comunità”

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Di Emily Menguzzato

Trieste- Cinquecento persone, da tutto il mondo. A parlare di diritti e di democrazia, a riflettere sulla centralità dei bisogni e dei desideri: a interrogarsi su tutto ciò che si immagina negato alle persone con disturbo mentale. Si conclude oggi al Parco di San Giovanni il seminario internazionale “Democrazia e Salute Mentale di comunità”, organizzato dal Collaborating Centre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la ricerca e la formazione e dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Tre giorni di conferenze, workshop ed eventi paralleli che hanno coinvolto soggetti e organizzazioni “impegnati nel cambiamento”.

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Francesco Stoppa, presentazione del libro "La rivoluzione dentro"

Francesco Stoppa, presentazione del libro "La rivoluzione dentro"

Giovedì scorso, ai saluti delle autorità e all’apertura di Roberto Mezzina, è seguita una riflessione coordinata da Massimo Cozza sulla legge Basaglia con l’intervento di Franco Rotelli sulle responsabilità condivise per l’allargamento dei diritti.Allo stesso tavolo, il costituzionalista Daniele Piccione ha attraversato i punti chiave, spesso misconosciuti della legge 180; infine Silva Bon, di Articolo 32, ha raccontato la sua potente esperienza diretta. Una tavola sulle criticità di oggi e di allora, e sugli elementi che possono essere ripresi e rilanciati, ha poi coinvolto Gisella Trincas, Don Mario Vatta, Mario Novello, Alberta Basaglia, Marco Bertoli, Ivan Brajnik. Il pomeriggio ha visto protagoniste diverse realtà di oltreconfine. Grecia, Lapponia Occidentale, Spagna, Francia, Portogallo, Argentina e Brasile. La prima giornata si è conclusa al tramonto, con la presentazione de “La rivoluzione dentro” di Francesco Stoppa, che ha dialogato con Peppe Dell’Acqua, Mario Colucci e Fabiana Martini sulla preziosa raccolta di esperienze scritte da psichiatri, filosofi e scrittori ma anche da operatori del territorio, meno conosciuti, che si occupano di salute mentale.

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"Democrazia e salute mentale di comunità" Foto di Stefano Tieri

"Democrazia e salute mentale di comunità" Foto di Stefano Tieri

Il focus di ieri ha guardato con attenzione alle esperienze locali e alla deistituzionalizzazione, in particolare alle riforme dell’Est Europa e alle buone pratiche diffuse nel mondo, anche laddove il reddito limitato rende più difficoltosa l’apertura delle strutture di stato. Gli incontri della mattinata di venerdì sono stati moderati da Fabrizio Starace e da Gian Luigi Bettoli.

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Piero Cipriano, foto di Stefano Tieni

Piero Cipriano, foto di Stefano Tieni

Nel pomeriggio, Giovanna Del Giudice ha coordinato un’intensa conversazione sulle REMS e sulle nuove marginalità. Il secondo appuntamento di “Democrazia e salute mentale di comunità” è terminato poi con un evento collaterale: Piero Cipriano ha presentato il suo libro “Basaglia e le metamorfosi della psichiatria”, dialogando con Alessia De Stefano e Giovanna Del Giudice, in un incontro guidato da Anna Sardo.

Oggi, dopo una mattinata rivolta a politiche, leggi e diritti del futuro, è attesa la chiusura di Roberto Mezzina e, nel pomeriggio, prenderà vita una riflessione sulle esperienze di cooperazione e associazionismo.

CAMPUS 40#180 Ciclo di incontri-dialoghi-formazione in occasione dei 40 anni della legge 180

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CAMPUS 40#180

Ciclo di incontri-dialoghi-formazione in occasione dei 40 anni della legge 180

sui temi della contenzione,
delle liberta’, dei diritti e dell’integrazione aperto a tutti e rivolto a giovani lavoratori e studenti tra i 17 e i 30 anni. A cura di DUEMILAUNO AGENZIA SOCIALE www.2001agsoc.it

giovedì 28 giugno, presentazione del film PADIGLIONE 25 ore 17-20, sala Bazlen di Palazzo Gopcevich, via Rossini 4 Trieste di Massimiliano Carboni e Claudia Demichelis alla presenza degli autori. Ingresso libero, sala climatizzata.

Produzione: Massimiliano Carboni e Claudia Demichelis | Altera Studio
Nell’estate 1975 un gruppo di infermieri dell’istituto manicomiale S. Maria della Pietà di Roma, influenzati dalle idee di Franco Basaglia, decidono di occupare e autogestire uno dei padiglioni del manicomio: il Padiglione 25. Inizia così per gli “ospiti” un lavoro lento e faticoso di reinserimento progressivo nella società, obiettivo finale del progetto è la definiva dimissione dei degenti. Per 12 mesi ogni aspetto della vita del reparto viene annotato dagli infermieri in un diario che testimonia il difficile e quotidiano percorso di liberazione dal regime di segregazione manicomiale. La voce di Giorgio Tirabassi accompagna lo spettatore nella lettura del diario e sono gli stessi infermieri che ripercorrono nelle interviste questa esperienza. La storia del Padiglione 25 è insieme specifica ed emblematica: una storia di pochi che si connette a quella dei molti. Attraverso le testimonianze di chi ha lavorato fianco a fianco con Franco Basaglia, il contributo delle immagini dell’archivio AAMOD e della Fondazione Franco e Franca Basaglia, l’archivio video degli infermieri stessi e infine grazie alle suggestive animazioni di Annalisa Corsi siamo riusciti a fotografare un momento di passaggio importante nella vita di un’Italia che in quegli anni cominciava a liberarsi dai manicomi. La vicenda di Padiglione 25 rappresenta ancora oggi un esempio per chi vuole riflettere sull’attuale condizione di trattamento e cura del disagio psichico.

Info 3357809282.

Con il contributo del COMUNE di TRIESTE

“Basaglia e le metamorfosi della psichiatria”: un racconto dall’ex O.P.P. di Trieste

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Di Anna Sardo

Controversa questione, il compleanno. C’è chi non aspetta altro per sentirsi una volta all’anno il re della giornata, c’è chi non vuole invecchiare, ci sono quelli che dicono che festeggiarlo ormai è demodée, ci sono quelli che sull’autobus non ti salutano, ma che spronati da Facebook ti mollano gli auguri sulla bacheca.

C’è poi chi invece, senza estetismi, vuole cogliere l’occasione per celebrare una volta in più una nascita importante, la nascita di qualcuno che stima e in cui crede.

Il quarantesimo compleanno della legge Basaglia, la 180/1978, fa un po’ lo stesso effetto; in molti sentono l’imperativo categorico a “fare memoria”, a “ricordare” un pezzo di storia che più che ricordare dovrebbero appena conoscere.

Fortunatamente non esistono solo loro. Fortunatamente c’è anche chi conosceva, praticava e stimava la 180 anche prima del duemiladiciotto.

Piero Cipriano ad esempio, psichiatra basagliano e – come lui stesso si definisce – “riluttante”, che di Basaglia vuole portare avanti i principî e le battaglie, aggiornandole alla realtà odierna. Da questa necessità nasce il suo ultimo libro, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria edito per i tipi di Elèuthera questa primavera. Entro questo libro sono in realtà racchiusi due libri diversi, naturalmente tra loro dialoganti e complementari. Il primo, scritto propriamente da Cipriano, vuole tracciare una storia della follia e dell’anti-follia, cioè della psichiatria, più agile di quella scritta da Michel Foucault nel 1961. E ci riesce. La differenza più eclatante però non sono le centottantacinque pagine di Cipriano contro le ottocento di Foucault, quanto l’introduzione di una nuova scansione temporale, a.B. e d.B.: “Come nella nostra storia occidentale esiste un prima e un dopo Cristo, nella storia della psichiatria esiste un prima e un dopo Basaglia”. Il secondo libro è invece una raccolta antologica che riunisce gli interventi di chi, indossando vesti diverse, ha deciso di stare entro i temi della psichiatria: gli Inventori (di nuove pratiche di salute mentale), addetti ai lavori, per così dire. I pazienti, che qui prendono il nome di Impazienti (o Esigenti) dando voce ai quali, Cipriano, da psichiatra, evita di incappare in quella trappola rispetto a cui già Basaglia metteva in allerta: scrivere una storia della follia fatta di nomi di psichiatri e delle loro teorie, una storia dove il nome degli psichiatrizzati – e le loro vite – non comparissero mai. Infine, i Narratori: artisti che hanno deciso di mettere la loro arte a disposizione dei temi che ruotano attorno alla salute mentale per farli risuonare nelle orecchie e negli occhi della società civile.

Questa è a grandi linee la risposta che il pubblico ha ascoltato il 22 giugno scorso, durante un dialogo tra l’autore del libro, Giovanna Del Giudice e Alessia De Stefano, psichiatre basagliane, che abbiamo promosso come Charta Sporca ai margini del convegno “Democrazia e salute mentale di comunità” organizzato da Duemilauno agenzia sociale. Il luogo prescelto non poteva che essere il parco dell’ex Ospedale Psichiatrico, l’inferno trasformatosi in una delle poche isole dove la 180 è applicata e dimostra la sua validità.

A Trieste la 180 è applicata. Ed è per questo che dimostra la sua validità. Non ci si limita a fare memoria, tessendo panegirici a simulacri vuoti, una volta ogni quarant’anni, quando fino al trentuno dicembre 2017 di Basaglia si sapeva poco e si praticava niente. Trieste ha quattro CSM (Centri di Salute Mentale), uno per ogni Distretto in cui è suddiviso il territorio locale, un SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) no-restraint, un Servizio Abilitazioni e Residenze e la Clinica Psichiatrica Universitaria, dove completare la specializzazione in psichiatria. Un servizio radicato nella città, una città-che-cura.
Tuttavia è un’isola, facente parte di un piccolo arcipelago. Se è vero che l’Italia è l’unico Paese al mondo dove il manicomio concentrazionario non esiste più, è vero anche che questo si è trasferito con le sue pratiche nel territorio, insieme ai malati.

Cipriano parla, in questo libro come nei precedenti tre – La fabbrica della cura mentale, Il manicomio chimico La società dei devianti – di manicomi diffusi e delocalizzati che, insinuatisi nelle pieghe della società, sono anche più difficili da stanare.
“Il nuovo manicomio è l’etichetta diagnostica – entri dallo psichiatra come Giulia Rossi e ne esci come schizofrenica, n.d.a. – che si appiccica come un tatuaggio indelebile, […] nuovo manicomio è il farmaco – che se somministrato non come extrema ratio ma come proxima ratio diventa esso stesso generatore di follia, diventa iatrogeno, n.d.a. – nuovissimo prossimo manicomio sarà – o è già – il medium digitale”. A questo punto la narrazione di Cipriano diventa una previsione, che profila un futuro che a tutta ragione possiamo definire distopico. A differenza del panopticon di Bentham ispiratore del manicomio di Pinel del 1793, in cui principio unico e dominante era la “separazione tra folle e folle, normale e anormale”, dice Cipriano, in quello digitale “non solo non vi è separazione, non solo è auspicata, incentivata la comunicazione, ma c’è anche esibizione spontanea perfino denudamento di sé. […] Giorno dopo giorno immettiamo in questo mare digitale parti che ci appartengono, la nostra identità, ottenendo lo scopo di una sorveglianza reciproca”.

Questi non sono solo gli allarmismi di un visionario paranoico e tecnofobo. Esiste già qualcosa che possa sostanziare tali timori. Ad esempio, il Proteus Digital Health, progetto recentemente preso in considerazione dalla Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici. Il Proteus è un sistema che “sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso del farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare […] la scarsa compliance o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione”. Cosa direbbe Basaglia. Tanta fatica per separare concettualmente il Körper, il corpo anatomico, dal Leib, il corpo-vissuto, per dopo riunirli in modo ugualmente violento, ma più subdolo e incestuoso. Prima, nel manicomio concentrazionario, erano tenuti insieme da fasce e mura esterne al corpo, ora vengono legati dall’interno.

Se almeno la metamorfosi fosse completa, se un manicomio spodestasse l’altro, senza lasciare tracce del primo! Purtroppo i manicomi sono additivi: il panottico digitale si embrica con il manicomio chimico, e con quello meccanico, e con quello nosologico – l’etichetta, per intendersi. L’etichetta che può essere diagnostica, ma anche economica, sociale, razziale, religiosa, e che contribuisce a creare e rafforzare lo stigma verso una categoria. C’è da chiedersi che vita abbia una psichiatria che slega, che accoglie, che ascolta, che lascia muovere, che non teme la libertà in un periodo storico come questo; in cui si costruiscono muri, si vive in costante allarme terroristico, dove la cultura dell’odio e della paura – spesso strumentalizzati– sono l’arma preferita e vincente dei populismi. Difficile, di fronte a tali evidenze, non essere titubanti, non fermarsi a guardare se stessi e il proprio lavoro, ed è difficile persino non riconoscersi per un attimo come una “minoranza etica, una sorta di riserva indiana chiusa in un’enclave”. Cipriano lo ammette, nel libro, così come durante la presentazione. Ma c’è una felice espressione, ossimorica perché non è la linearità ad animare questa psichiatria, coniata da Franco Rotelli che evita che anche agli occhi degli stessi basagliani il basaglismo imploda: “Siamo dei disperati portatori di speranza, questo siamo”.

Questa potrebbe essere una buona conclusione di questo discorso, resoconto, racconto, dialogo, incontro. La parola definitiva, che riconosce le condizioni in cui versa il mondo, ma che ciononostante non smette di essere creativa. Ammortizza ogni critica. Già riconosce la sua stessa disperazione, che altro puoi dire contro questa parola? Dice che i manicomi sono ubiquitari, ed è per questo che cerca a sua volta di parcellizzarsi, a radicarsi sul territorio a piccola scala, per essere ovunque, come i manicomi.

Mi scuso con i lettori che temono il rimpicciolimento del cursore sulla destra dello schermo, ma purtroppo agli psichiatri piace parlare.

Penso che “manicomio” sia la parola più ricorrente in queste righe. Ci si è messi d’accordo tacitamente, all’inizio della presentazione come di questo articolo, di utilizzare questo termine nel modo in cui l’abbiamo utilizzato; manicomio chimico, nosologico, digitale… Ci siamo fidati di Cipriano, l’abbiamo seguito nella sua definizione, anzi ci siamo anche battuti una mano sulla fronte pensando: “ma ‘sto manicomio ancora qui sta, sotto gli occhi di tutti, e anche io come gli altri non me ne sono accorto. Dal salumiere sono andato, non dall’ottico”.

La questione lessicale è fondamentale. Alla fine è il modo che abbiamo di concettualizzare il mondo, di renderlo a noi noto, e a seconda che chiamiamo quattro gambe e una tavola di legno “sedia” o “combustibile”, ci siederemo sopra o la getteremo nel fuoco.

Per cui sono grata a Giovanna Del Giudice che solleva la questione, chiedendo a Cipriano se sia appropriato chiamare manicomi le pillole e i Manuali Diagnostici. Effettivamente a una donna che vide il manicomio concentrazionario, che ci lavorò dentro per sette anni prima che sparisse dall’Italia, a una donna che nel dicembre 1971 arrivò all’O.P.P. Di Trieste, sotto la direzione di Basaglia dall’agosto dello stesso anno, e che quindi partecipò con il suo proprio corpo allo smantellamento della prigione dei matti, chiamare manicomio la prescrizione di farmaci, forse pare fuorviante. O forse è una piccola provocazione. Io non ci avevo pensato, e mi sono spaventata a questa domanda, perché con “metamorfosi della psichiatra” si intende ipso facto metamorfosi del manicomio. Negando che quelli di nuova generazione, i manicomi 2.0 (chimico) e 3.0 (digitale), siano manicomi, si rischierebbe di dover rivedere l’intera tesi.

Ma è evidente che quella di Cipriano non è una denuncia fatta pour parler, un vezzo ribelle di un allineato. Ammettiamo che gli psicofarmaci e il progetto Proteus non abbiano precisamente le caratteristiche del manicomio pineliano, o anzi assumiamo come ipotesi che, come suggerisce Giovanna Del Giudice, non siano affatto manicomi. Chiamiamoli “metodi”, “mezzi”, “strategie di cura”. Se qualcuno mi proponesse una strategia di cura, in un momento di difficoltà, non esiterei a sottoscrivere il contratto; forse non leggerei nemmeno le ultime clausole, quelle degli effetti collaterali, come ad esempio la dipendenza a vita da una sostanza, o anche due o tre, e per di più estremamente costosa. Se qualcuno mi proponesse un manicomio, quantomeno mi prenderei un giorno per pensarci, prima di lasciare la firma. Questo nel caso io avessi bisogno di cure.

Poi c’è la necessità di comunicare con la società civile, senza la quale risulta impossibile creare la città-che-cura. La denuncia deve arrivare forte e chiara, inequivocabile e sconvolgente per chiunque, anche per gli occhi più sordi e le orecchie più miopi. Svelare che il manicomio è ancora tra noi, sul suolo nazionale, nei nostri ospedali, è comunicativamente molto efficace.
Per cui sì, può essere anche un escamotage linguistico, dice Cipriano, ma risveglia le coscienze e non è una bugia. E non è una bugia, una fake news, perché continua ad esistere l’elemento iatrogeno, quello che già Basaglia, evocando Foucault, definisce come doppio della follia, “ovvero” spiega Cipriano, “ciò che la psichiatria e le sue tecniche hanno fatto della nuda follia, la follia primaria, dunque prevalentemente l’isolamento in manicomio” per Basaglia, le categorie diagnostiche, gli psicofarmaci e il reciproco controllo digitale per Cipriano.

Il capitolo quarto delle Metamorfosi della psichiatria si apre con un paragrafo intitolato Intanto gli OPG non esistono più. Dite che è poco? Perché è vero che il 95% degli SPDC italiani è ancora restraint e che spesso la legge 180 viene tradita o ignorata, è vero che il sistema sanitario è perfettibile e riformabile, ma, dice Cipriano, “non si può essere critici su tutto. Ricordarsi dell’ottimismo della volontà, ogni tanto, e non farsi sopraffare dal pessimismo della ragione”. Infatti in Italia esiste quel 5% di SPDC no-restraint, i manicomi civili sono stati chiusi da quarant’anni, e da tre sono stati eliminati gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Alessia De Stefano può confermare che altrove la deistituzionalizzazione è molto più indietro. Anzi, probabilmente deve ancora iniziare. De Stefano ha partecipato a un progetto di ricerca in diversi reparti psichiatriciolandesi, con l’incarico di esportare all’estero il modello italiano. Pare, in prima istanza, che questa operazione sia superflua e supponente, che in Olanda siano molto più avanti di noi. Pare che l’epidemia di depressione – quattrocento milioni di depressi secondo i parametri del DSM-5 – non colpisca le città dei tulipani, che il disagio mentale non abiti la popolazione olandese, che appare perennemente giovane e sana, incapace di invecchiare e di impazzire.

In prima istanza. In realtà la repressione e l’internamento sono molto più violenti che in Italia, e colpiscono non solo quella che più facilmente è percepita come devianza, cioè il disagio psichico, ma già il naturale decorso della vita, una condizione umana connaturata alla vita stessa di ciascun uomo, la vecchiaia. L’Olanda non è un paese per vecchi. Tenuti lontano dalla società della performance, in quanto individui non performanti, non viene data loro la possibilità di partecipare al suo evolversi. Il principio di prestazione è condizione necessaria e sufficiente per permettere al soggetto di essere incluso nella vita sociale. Doppio vantaggio, perché così i giovani, liberi dal fardello degli anziani genitori, possono sfruttare al meglio tutte le loro energie, per raggiungere livelli di performance sempre più elevati, ritmi di lavoro sempre più serrati, orari di servizio sempre più prolungati. Liberati dal fastidioso onere di prendersi cura dei vecchi, i giovani sono così ancora più liberi di sfruttare la loro libertà per auto-sfruttarsi. “Il soggetto moderno non è più il soggetto disciplinare il cui corpo è incastrato in obblighi e in luoghi del sorvegliare e del punire e i cui luoghi della massima punizione sono galere e manicomi. Il soggetto moderno è adesso tenuto a una prestazione, la sua psiche è incastrata in un imperativo performativo e i luoghi della cura per ottimizzare questa necessità prestazionale sono il lettino dell’analista o lo studio dello psicoterapeuta o la farmacia dello psichiatra” dice Cipriano evocando il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, che raccoglie la lezione foucaultiana e prova a superarla. “La troppa libertà determina un eccesso di lavoro autoimposto. Questo eccesso di lavoro senza padrone determina stanchezza. Questa stanchezza, ogni forma di stanchezza, i nuovi codici diagnostici la rubricano ansia o insonnia o stanchezza o depressione o bipolarità o anedonia eccetera”, continua Cipriano. Naturalmente la libertà di cui parlano lui e Han non è solo quella dei cittadini olandesi che rinchiudono gli anziani nelle case di riposo, ma una libertà connaturata alle esigenze del neoliberismo, e quindi di ogni Paese occidentalizzante.

Ed è così che quella stessa società che aveva tenuto con sé il giovane prestante, una volta sfruttato a sufficienza gli diagnostica una qualche depressione o bipolarità o anedonia e lo esclude a sua volta, relegandolo, per tornare all’Olanda nei manicomi concentrazionari, perché là, come nel resto del mondo esclusa l’Italia, esistono ancora.

Bisogna quindi raccontare, ed è questo in primis il compito di Alessia De Stefano in Olanda e successivamente in Giappone, che in Italia i manicomi-lager non esistono più, da quarant’anni. Che da tre anni non esistono più gli OPG, che esiste una percentuale, per quanto esigua, di SPDC che rifiuta di legare ai letti gli esseri umani. Bisogna raccontare le vite delle persone, non solo diffondere una statistica sintomatologica.

Foucault, Basaglia, Cipriano che vogliono smascherare il potere psichiatrico cosa fanno? Foucault con la Storia della follia, Basaglia nelle Conferenze brasiliane, Cipriano con Basaglia e le metamorfosi della psichiatria. Iniziano raccontando la storia del manicomio, indissolubilmente legata a quella psichiatria, da Pinel al punto in cui loro stessi si sono trovati gettati nella stessa storia che stanno raccontando. Raccontano il male e il bene, la violenza e le promesse di giustizia, mantenute e tradite; Cipriano e Basaglia parlano sì delle teorie dei medici, ma riportano le vite delle persone che ascoltano non da dietro un lettino o nel loro studiolo, ma fuori, nella città, nel bar all’uscita dell’ospedale di Roma. Dopo averla narrata e conosciuta la storia della psichiatria, loro hanno deciso di abitarla, di continuare a definirsi psichiatri, riluttanti rivoluzionari non allineati, ma pur sempre psichiatri.

Vorrei concludere saccheggiando due righe delle Conferenze brasiliane, perché, da quello che ho capito, da questo testo muovono tutt’ora molti Inventori di nuove pratiche di salute mentale; spero che Basaglia non si offenda; è un omaggio, non un furto.

“Trasformando il campo istituzionale in cui lavoro, io cambio la società, e se questo è onnipotenza, allora viva l’onnipotenza!”.

Articolo da ->http://www.chartasporca.it/basaglia-metamorfosi-psichiatria-piero-cipriano-trieste/

OBBIETTIVO 180 salute mentale e diritti di cittadinanza in Italia a quarant’anni dalla Legge 180

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Venezia, 1 settembre 2018: Obbiettivo 180

In occasione di ISOLA EDIPO rassegna dedicata ad arte, cinema, letteratura, musica, cibo e attualità all’insegna della cooperazione, del rispetto dell’ambiente, della persona e della sostenibilità:

OBBIETTIVO 180: salute mentale e diritti di cittadinanza in Italia a quarant’anni dalla Legge 180

In una stagione profondamente segnata dal ritorno di una cultura securitaria, antidemocratica e istituzionalizzante, nel quarantennale dalla Legge 180, abbiamo pensato fosse importante dare vita a un incontro nazionale rivolto a medici, infermieri, operatori, utenti, familiari e società civile. Pensiamo sia necessario aprire uno spazio di discussione e confronto tra tutte quelle reti e quelle esperienze che in Italia oggi lungo tutta la penisola promuovono una cultura inclusiva in cui i servizi alla persona siano parte integrante delle città, al fine di dare vita a un laboratorio itinerante condiviso e partecipato per il consolidamento dei diritti di cittadinanza attraverso la tutela e la completa applicazione della legge Basaglia.

L’incontro è promosso di COOPERSAM – Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo Franco BasagliaDSM Trieste Centro Collaboratore OMS, Edizioni Alpha Beta Verlag/Collana 180FORUM SALUTE MENTALEUNASAMstopopgIMPRESA A RETEFestival dei MattiCentro Sperimentale Pubblico “Marco Cavallo” di LatianoMah, Boh, L’officina delle possibilità180 Amici L’AquilaCittadinanza e Salute e Forum Veneto Salute Mentale.

Ospite d’onore, a chiusura della giornata, sarà il regista e fotografo Raymond Depardon a cui verrà consegnato il “Premio per l’Inclusione Edipo Re alla carriera“. 

A conclusione della giornata di dibattito, verrà proiettato il film documentario: San Clemente*

San Clemente è il nome di un ospedale psichiatrico ubicato in una piccola isola al largo di Venezia. Qui passano le loro giornate pazienti dai trascorsi diversi, seguiti da vicino dalla cinepresa di Depardon nei loro scambi e negli incontri con dottori e familiari. Siamo nel 1980, l’ospedale è sul punto di chiudere e Depardon, dopo un primo reportage fotografico, torna a San Clemente per documentare il percorso in atto che investe i luoghi, i corpi e i volti delle persone.

La giornata verrà accompagnata dalle installazioni video a cura di Studio Azzurro, dedicate a una ricostruzione visiva della storia che ha portato in Italia alla chiusura dei manicomi.

*Il 2 settembre, in occasione dell’incontro CRITICA DELLE ISTITUZIONI, dedicato alla creazione partecipata di una cartografia dell’uso della contenzione e delle buone pratiche tra centri d’accoglienzaSPDCRemsospizicase di cura, verrà proiettato in anteprima italiana, sempre alla presenza del regista, “12 Jours” l’ultimo film documentario di Raymond Depardon presentato a Cannes nel 2017, dedicato ai servizi psichiatrici in Francia.

I due incontri e le due proiezioni di Raymond Depardon sono realizzati in collaborazione con Le Giornate Degli Autori.

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“L’altra città, teatro d’estate”“Il Giardino dei Ciliegi” di A. Čechov a Monte Sant’Angelo

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di Maria Francesca Notarangelo

Sabato, 25 agosto 2018, alle ore 20,30, andrà in scena, presso l’Auditorium delle Clarisse di Monte Sant’Angelo, lo spettacolo intitolato “Il Giardino dei Ciliegi” di Anton Pavlovič Čechov , a cura del Laboratorio Off della “Piccola scuola di teatro” del “Teatro del Cerchio” di Parma.

Gli allievi-attori, guidati dalla regia di Gabriella Carrozza, si cimenteranno sull’ultimo capolavoro teatrale dell’Autore.

“Il Giardino dei Ciliegi” è la storia struggente di una nobile famiglia aristocratica russa in decadenza, costretta alla vendita all’asta della casa d’infanzia e del suo giardino. Nessuno riuscirà ad impedirla, poiché tutti i personaggi continueranno nella propria inazione, ognuno incapace di prendere decisioni importanti, finché ad acquistare il giardino sarà Lopachin, figlio di uomini che sono stati servi nella casa degli antenati di Ljuba e che, a seguito dell’emancipazione dei servi, hanno ottenuto la libertà e si sono arricchiti. Alla fine, ognuno andrà per la sua strada, verso una nuova vita, una nuova società che sta nascendo, sotto i colpi della scure che si abbattono sugli alberi del giardino, simbolo della fine della vecchia società aristocratica.

Una riscrittura del testo essenziale, – sottolinea Gabriella Carrozza, attrice e formatrice teatrale - corredata da una caratterizzazione dei personaggi, basata sulla sensibilità degli attori, così come questi hanno interpretato il dramma di ciascun personaggio“.

In scena, si svelano vissuti interiori narranti, condizionati  dagli scenari ambientali.

“Abbiamo rivisto -dicono gli attori- i colori della casa, le sue pareti, i colori della stanza dei bambini, il profumo dei fiori del giardino; ci siamo chiesti cosa loro avessero provato in quei giorni e abbiamo provato a raccontare la storia come loro l’avrebbero raccontata, ognuno con il suo vissuto. Abbiamo raccontato anche la commedia nella tragedia, sottolineando il comico che Čechov ha sapientemente disseminato qua e là nella storia. Il nostro “Giardino dei ciliegi” -concludono- non è la storia della disfatta di una famiglia, impotente davanti alla forza del destino. Abbiamo voluto rappresentare, invece, uomini e donne che affrontano un cambiamento, ognuno a suo modo, pur rimanendo se stessi”.

L’evento teatrale rientra nell’iniziativa “L’altra città, teatro d’estate”, organizzata dal laboratorio “Ridere insieme…”, del Centro Diurno “Genoveffa De Troia” di Monte Sant’Angelo e dal Centro di Salute Mentale di Manfredonia in occasione dell’anniversario dei 40 anni della “legge Basaglia”.

La serata sarà il connubio culturale di due esperienze drammaturgiche.  Lo spettacolo sarà preceduto da brevi interpretazioni scelte a cura del laboratorio “Ridere Insieme…” musicate dal cantautore Antonio Silvestri, in modo da creare una sapiente contaminazione tra arte e salute, nonchè una rete di relazioni emotive, ricordando Franco Basaglia, che ha voluto restituire la parola ed i diritti negati a tante persone, recluse perché ritenute diverse.

Dalla soglia della porta uno sguardo nella vita di Franco Basaglia

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statue nella villa
Come il pensiero di Franco Basaglia ha cambiato il mio modo di lavorare.

Di Gianluca Monacelli

“Le foto raccontano del manicomio veneziano di San Clemente chiuso tardivamente negli anni novanta, dopo la legge Basaglia, la 180, del 1978. <<Ricordo che m’infilai dentro il manicomio di San Clemente senza permessi e cominciai a scattare. Il giorno dopo Basaglia mi mandò a chiamare. Andai a Trieste pensando: mi vorrà rimproverare per l’intrusione. Al contrario, mi spalancò le porte dei manicomi italiani dicendo: “scatta più foto possibile, così finalmente vedranno e crederanno”. Basaglia era un uomo elegante, affascinante, con una grande capacità di parlare in pubblico. Un tribuno. Ero li come reporter, ma lui, senza sapere nulla della mia vita, aveva immediatamente indovinato le mie origini, il mio punto debole>>.

Raymond Depardon

Qualche tempo fa in uno dei miei tanti viaggi di ritorno da Trieste, luogo dialettico di tras-formazione e de-cronicizzazione rispetto al lavoro logorante e a rischio di manicomialità nei Servizi psichiatrici territoriali laziali, sono andato a trovare un mio amico a Fiesso d’Artico (VE).

Mi ero fermato come ospite per poi andare a curare come fotografo, un progetto sulla comunità ebraica chassidica del ghetto di Venezia. Eh sì, eticamente e professionalmente il mio interesse è sempre stato per le minoranze e l’abiura del pregiudizio in ogni sua forma. Non è un caso che la mia vocazione lavorativa ordinaria sia quella nella relazione di aiuto con le persone con disagio mentale. I matti e i folli ghettizzati dentro i manicomi e liberati da Basaglia. Non a caso un veneziano. E non è un caso che uno dei miei progetti di reportage fotografico siano appunto gli ebrei. Questa comunità di persone non rappresentano una delle più sofferte, odiate, contestate e violate popolazioni? Il ghetto non è stato un manicomio omogeneo e i lager un manicomio finale?

Credo nella documentazione fotografica e orale dei fatti storici minori. Di quelle piccole cose che sfuggono alla grande storia ma che di essa ne fanno parte e nella cui sommatoria la realizzano appieno e questo mi ha portato in questa storia di avvicinamento con Franco Basaglia. Ed è quello che voglio raccontare, come un cammeo sulla sua persona.

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L'unico muro quello di casa
Il mio amico Livio dice che vuole farmi una sorpresa. Ha scoperto che intono casa sua la gente del posto gli ha detto che c’è una villa. Un posto particolare appartenuto a quel medico strano. Quello che ha aperto i manicomi. Ma sì, certo…la gente parla di un certo Basaglia… el dotor dei mati. Nemo profeta in patria…

Così arriviamo in una piccola frazione. Lungo una strada che costeggia la ferrovia, si erge una recinzione a protezione di una Villa oramai decadente, ma che ancora riflette il prestigio e la beltà di un tempo antico. Da un cancello e una recinzione si scorge un edificio, di stile palladiano, immerso nel verde. Decidiamo di suonare per avvisare della nostra presenza e chiedere di poter visitare il luogo. Nulla. Non risponde nessuno. Sembra disabitata. Il cancello principale è però aperto. Facciamo capolino e chiedendo permesso entriamo. Sembra di essere introdotti in un posto altro. Abbandonato come la residenza prestigiosa magica ne la bella e la bestia. Poi scorgiamo accanto alla villa una dependance che presenta segni di presenza. Damigiane di vino, una bicicletta e degli attrezzi di lavoro. Da una specie di porta sormontata da piante si apre un viottolo verso la villa principale. Magnifica visione… ma è proibitivo…

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sentiero davanti la porta della villa
Ed ecco che ci viene incontro un uomo a chiedere spiegazioni. Si chiama Ennio. Il mio amico in dialetto gli racconta di essere stato un infermiere, che ha lavorato al manicomio di San Servolo prima e poi nel presidio psichiatrico del posto e che l’altro, io, sono un medico psichiatra.  Basagliano! Gli spiega che siamo venuti a conoscenza che forse quella è la villa appartenuta e vissuta appunto dai Basaglia. E l’omone, con la sua treccia bionda e i suoi occhi azzurrissimi come un vichingo, si apre in un sorriso e dice: certo! “Questa villa è appartenuta ai Basaglia” e inizia a raccontare:

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Villa Basaglia
“Intorno al 1923 la famiglia Basaglia acquista una casa per trascorrere l’estate. Una casa risalente ai dogi veneziani. Si tratta di una villa aristocratica, stile Palladio, attorniata da un giardino con statue a semicerchio interrotte da un sentiero principale che porta attraverso un bosco al cancello principale che dà sulla strada. Da lì, dalla strada, se non sei del posto mai potreste immaginare che sia proprio la casa appartenuta fino intorno gli 60 alla famiglia Basaglia. Eppure a guardar bene su una recinzione, forse l’unica dei Basaglia, c’è un simbolo: una V con ricamata una B.

La casa dove il bambino e poi ragazzo Franco Basaglia potevi forse scorgerlo correre tra gli alberi, giocare, sognare. Tornare da giovane adulto da Padova per riposarsi dagli studi universitari. Era la casa estiva dell’intera famiglia Basaglia. La casa era divisa tra i diversi parenti .

E’ così che, come in un favola, attraverso il racconto fluido di Ennio, figlio della balia dei Basaglia m’inoltro attraverso i suoi ricordi di bambino quando con la madre viveva nella casa. Ennio racconta: “mia madre fino a prima di morire si sentiva con la signora Franca Ongaro Basaglia a Venezia”. Si volevano bene anche se non si vedevano più con la signora Franca.

E continua: “sapete, prima di essere un ricco benestante Franco Basaglia era un signore vero. Lo era nel portamento, nel modo di essere…nell’esserci con tutti noi”.

“Ero bambiImage may be NSFW.
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vista entrata di casa con statue
no e ricordo ancora di quella volta che fece scandalo qui nel paese per quella sua spontaneità ardita, diretta che aveva nel fare e nell’essere. Era una mattina presto di una domenica quando, d’improvviso uscì di casa di gran passo verso il sentiero della villa.  Poi uscì dal cancello per recarsi nervosamente verso il paese. Arrivato in centro paese andò a prendersi un caffè, ma la gente che lo osservava rimase disorientata. Sapete, il dottore era uscito di casa con la sola giacca da camera ovvero quello che allo stato attuale dei fatti è il nostro pigiama. Scapigliato ma elegante. E fu rumore qui. La gente all’epoca non era abituata a vedere gente, specie per bene, ad andare per il paese così. Spontanea, alla mano. Ma lui sembrava incurante di queste cose… Passò voce che fosse un po’ bizzarro, forse come i suoi matti.”

Ennio continuò: “Lui era diverso dagli altri della famiglia. Erano tutti conservatori provenienti da una famiglia agiata.

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basamento pozzo
Ricordo che raccoglievano le tasse della pesa in diverse regioni italiane. Il prestigio della famiglia Basaglia si può vedere da quel pozzo.”  Ed Ennio indicò la parte esterna di marmo di un basamento veneziano, che in genere si trova sui pozzi d’acqua presenti nei campi veneziani. Ci spiegò: “questo pezzo fu preso in un campo veneziano e portato qui a decorare il pozzo e la casa!! Non è che tutti potevano avere e fare una cosa del genere…”

“Quando acquistarono la casa fecero costruire un canale per irrigare le campagne. Alla mattina presto i buoi e i contadini passando da qui andavano per i terreni. Era un gran lavorare..

Franco però non era come gli altri, era sì elegante, borghese ma anche altruista. Ti ascoltava e non si formalizzava. Ti guardava dritto negli occhi con dolcezza ma attenzione. Sentivi che ti capiva mettendoti a tuo agio. A volte poteva sembrare strano, con il suo sguardo altrove, ma sempre attento a quel che dicevi!!! Le racconto un ultima particolarità: “ecco quando ci fu la ritirata dei tedeschi paradossalmente per la storia di Franco Basaglia che studente venne rinchiuso in carcere dai fascisti, questa parte di casa – indicandomi la parte posteriore dove ci sono dei capanni – venne attrezzata a contenere i carri armati. E accadde che un pezzo di artiglieria scoppiò e una parte di casa prese fuoco… Image may be NSFW.
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dove misero i carri-armati

Non la faccio entrare perché il tetto con gli stucchi iniziano a cedere da quando c’è l’alta velocità, mostrandomi la ferrovia davanti la casa.

Quando i Basaglia vendettero non sa quanti libri di Franco furono bruciati nel cortile. Che peccato… Gli stessi libri che mi avrebbero fatto scoprire il pensiero riformatore di Basaglia, quindi formato e preparato a cercar di essere uno psichiatra diverso. Basagliano.

Come psichiatra mi sono sentito stretto nella dimensione universitaria e manualistica di diagnosi, prognosi e cura. Sono sempre stato attraversato da una visione forte di rapporto dialettico con la persona anche sofferente che fosse sottratta alle etichette diagnostiche e a un rapporto paternalistico, in cui il protagonista della propria vita fosse e rimanesse lei/i la persona con la sua storia le sue esperienze e il suo modo altro di vivere l’esistenza.

Di Basaglia e del suo gruppo quando mi sono specializzato non ne sapevo molto, anzi direi pressoché nulla. Un grave difetto formativo. Poi vinsi il mio primo concorso e andai a lavorare in Veneto. Lì con quella curiosità dei giovani mi sono accostato ai racconti degli infermieri più esperti e navigati che mi parlarono del loro lavoro con i malati psichici dentro i manicomi e delle brutture che ospitavano. Mi raccontarono di come pian piano aprirono il manicomio di San Servolo a Venezia e quelli dell’interland della provincia di Venezia, proprio come aveva fatto poco tempo prima Basaglia a Trieste. Così mi parlarono di come fossero stati valorizzati dal suo gruppo di psichiatri, Nico Casagrande ad esempio, e di come avevano creduto nell’idea di restituire la libertà ai malati e di contestare l’ineludibilità della malattia psichica attraverso la normalità attenta alla vita e all’inclusione sociale. E così iniziai a conoscere Basaglia e il suo gruppo di lavoro attraverso la storia raccontata a viva voce dagli operatori e dai pazienti più anziani. Da allora è iniziato per me un percorso mai interrotto, una necessità di capire, conoscere queste persone, le loro idee, il loro lavoro ad iniziare da Basaglia. Mi sono identificato completamente con l’esperienza e la cultura Basagliana circa 13 anni fa quando un ministro della salute indicò che fosse: “giunta l’ora di mettere mano alla legge 180, perché si trattava di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie”. Così mi sentii chiamato ad alzare gli scudi della ragione e del cuore per fronteggiare una così mal parata e m’iscrissi a quello che pensavo potesse esserne un antidoto: Psichiatria Democratica.

Studiando il pensiero di Basaglia ti accorgi che si tratta di una cognizione articolata, profonda, e complessa. Non sempre facile da comprendere. A tratti è complicata ma sempre lineare e coerente.

Conoscere il pensiero e lo stile basagliano ha orientato e cambiato il mio modo di lavorare..

Il ‘pensiero lungo’ di Basaglia e dei basagliani – si è tradotto nel radicarmi in un modo di vedere la psichiatria attraverso le lenti della Salute Mentale. Un concetto che travolge e allarga la visione ordinaria della psichiatria tradizionale e sposta tutto sulle persone con disagio che diventano i protagonisti del cambiamento. Consiste proprio nel rivolgersi alle richieste di aiuto da parte delle persone in un modo inclusivo, che vada oltre il disagio psichico in senso stretto, medicalizzante, e si apra all’aspetto sociologo e relazionale dialettico e paritetico con la persona altra e non alla malattia, sospendendo così ogni giudizio (epochè).

Sentire e leggere a voce viva le storie di vita delle persone, detti matti, per aiutarle a trovare possibilità nuove che sembravano impossibili come quelle trasformate nel divenire nel e tra e il dopo il manicomio di San Giovanni a Trieste.

Risulta fondamentale quindi considerare di avere davanti ai miei occhi non il malato, ma una persona portatore di disagio, con il quale ricercare insieme risposte che non siano precostruite o prefabbricate, ma che si realizzino in modo partecipato con il ‘lui’. Soggetto e non oggetto. Quindi ritagliare sulla persona, i suoi limiti, le sue potenzialità, l’ambiente in cui vive, la sua visione del mondo e una più autentica risposta di salute.

Questo è il difficile equilibrio che tendo sempre a preservare nel mio lavoro, anche nelle situazioni di crisi, ad esempio quando vengo chiamato a casa di un ragazzo che non mi conosce, incastrato tra i suoi pensieri altri e il divenire mondano. La sfida diventa quella di aprire delle possibilità di cura insieme, di riuscire a suscitare e a dare fiducia, di dare parola. Cercare di trovare insieme a lui, alla sua famiglia, al Servizio territoriale risposte funzionali e rispettose. Individuare delle soluzioni che siano aperte alla collettività, al luogo dove le persone vivono. Risposte che tentino di abbattere i muri del pregiudizio e che non marchino il soggetto nella definizione passiva di malato. Mi impegno ad avere uno sguardo che vada oltre il sintomo e che si allarghi ai bisogni vivi: avere un ruolo attivo nella società (lavoro); avere una casa propria da vivere e curare; avere delle relazioni affettive autentiche. Insomma, poter avere la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo anche con la propria diversità. Il senso è quello di far emergere “un mondo indifferenziato di bisogni “e quindi la “legittimazione di un loro profilo soggettivo” e una cultura in cui l’espressione dei bisogni possa avere una valenza liberatoria.

Nel concreto, essere basagliano oggi, come tecnico del sapere pratico, con la responsabilità di un Servizio difficile, in una zona sociale di degrado urbano, con alto rischio di devianza come il territorio di Ostia, si traduce nell’essere esempio e di spronare i colleghi più giovani a guardare oltre la psicopatologia e i neuroni fornita loro dall’Università a senso unico, preparandoli ad un operare nel territorio pensando all’incontro con l’altro con l’idea che:

  1. non esistono risposte prefabbricate che vadano bene per ogni situazione: ogni intervento dovrebbe essere ritagliato e costruito sulla particolare vicenda umana che si sta aprendo dinanzi a noi;
  2. ogni risposta per essere una “buona pratica”, deve possedere in sè il contemperamento di due piani apparentemente contraddittori: il riconoscimento alla persona sofferente di un protagonismo  - ovvero piena voce all’interno della prassi terapeutica – e il controllo sociale di cui siamo investiti come tecnici dall’istituzione (inventata) per motivi sanitari. Nello stesso tempo la risposta deve essere in grado di fronteggiare il pericolo contrapposto di deriva sociale allorquando si ha un rifiuto delle cure da parte di chi in quel momento declina – per la sua sofferenza – ogni forma d’intervento proposta;
  3. è fondamentale il fare assieme (tecnico- utente) e confrontarsi nel gruppo di lavoro (equipe allargata) per fare meglio e superare le paure formali medico-legali che legano tecnici e Servizi in precetti distanziati dalle prassi delle buone pratiche;
  4. si debba mettere periodicamente in dubbio la correttezza delle prassi che si stanno applicando, costruendo una cultura aperta condivisa di Servizio, rispettando chi si oppone e cercando di convincere con i fatti;
  5. avere sempre una visione etica della questione psichiatrica;
  6. continuare a credere e ad operare pensando che l’impossibile può diventare possibile quando ci proviamo. Fare per non subire e farlo con gli altri;
  7. infine, considerare che lo sforzo di applicazione pratica insito nella legge 833 agli art. 33, 34 etc, costituisce la bellezza della stessa Legge Orsini n. 180/78; ribattezzata ‘Legge Basaglia’. In quanto impone e costringe ‘i tecnici del sapere pratico’ ad inventare, costruire e realizzare interventi ‘sulle persone e per le persone’ rispettandole nella loro dignità di cittadini con le loro garanzie istituzionali e costituzionali che ne derivano.

Una legge di civiltà che rappresenta una prospettiva unica, quella di mettersi dalla stessa parte dell’altro e di vedere e sentire il mondo come lui, cercando di aiutarlo a trovare il suo personalissimo “registro” che gli consenta di vivere con la sua verità folle nel modo più pieno ed autentico possibile.

Foto: Gianluca Monacelli presso Villa Basaglia

Riferimenti bibliografici:

Basaglia F. L’istituzione Negata 1968. Einaudi

Basaglia F.; Scritti vol. 1 e vol.2 1981 Einaudi,

Basaglia F. Che cos’è la psichiatria Ed. Baldini e Castaldi, 1997

Basaglia F. in Conferenze Brasiliane Fogli d’Informazione 1979 nuova edizione Cortina Ed. 2000

Borgna E L’indicibile tenerezza Feltrinelli 2016

Casagrande D., Monacelli G. Relazione presentata al Corso di aggiornamento Psichiatria Democratica cantiere in formazione su “Il lavoro di Salute Mentale: Operatori, Competenze, Stato dei Servizi”. Roma, 1-2 dicembre 2016. IISS Leonardo Da Vinci, Via Palestro, 38 Roma. In via di pubblicazione Fogli di Formazione.

Colucci M.;  Di Vittorio P. Basaglia. Quel che resta della follia. Monadadori 2001

Dell’Acqua  Peppe. Non ho l’arma che uccide il Leone..   la vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni. Ed alpha beta Verlag. Merano. 2014

Foot J. La Repubblica dei matti. La feltrinelli 2014

Piccione D. Il pensiero lungo La feltrinelli 2013

Repubblica Articoli domenica 23 agosto 2015; Repubblica”, 29 dicembre 2005

Ricci A.; G. Valent. A cura di, Quaderno Rosso. Moretti e Vitali editori, 2017

Rotelli F. A cura di. L’Istituzione inventata /Almanacco Trieste 1971 -2010. Ed Alpha Beta Verlag. Merano 2015.

Rotelli F.. Per la normalità. Microtesti. Collana dentro fuori. Trieste, 2008.

Da allora, “e per sempre” si evitò il camerino

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contenzione
Di Peppe Dell’Acqua

A Trieste, dove ho iniziato a lavorare nel 1971, era già raro il ricorso alla contenzione meccanica. Nell’ordinato e magnifico frenocomio dell’imperial regia asburgica città, gli infermieri e i medici parlavano con orgoglio del rifiuto di questa pratica. Fascette e camice di forza, se pur in dotazione in alcuni reparti, erano usate molto poco. Quasi mai, dicevano gli infermieri più anziani.

A San Giovanni si usava una più civile (?) forma di contenzione: i camerini di isolamento e i letti a rete: un letto chiuso da alte reti di corda robusta ai quattro lati e in alto.

Durante la notte arrivavano ai reparti accettazione uomini e donne con l’ordinanza del ricovero coatto, il più delle volte “cinghiati e barellati”. Ovvero legati come salami sulla barella. Il compito del medico e dell’infermiere di turno consisteva nel liberarlo dalle cinghie e rinchiuderlo nel letto a rete. Altri, non solo nei reparti di accettazione, se disturbatori, insonni, clamorosi, incontenibilmente deliranti, agitati venivano rinchiusi, nudi, nel camerino di isolamento, uno stanzino due metri per due con dispositivi tali da impedire qualsiasi forma di autolesionismo con solo un terzo di materasso e una coperta a prova di lacerazione.

Per quanto più “civile”, questa pratica restava inaccettabile.

Era Basaglia a dirlo a noi giovani apprendisti.

La contenzione è inaccettabile, inutile, violenta e generatrice di violenza. Fu da quelle prime notti che cominciò ad apparire il confine, un limite invalicabile alle cure e ai trattamenti. La violazione del corpo, la privazione della libertà, la mortificazione erano tutt’altro che cura.

Da allora tutte le nostre pratiche sono state condizionate da quel confine, da quella premessa, da quella scelta di campo.

Non fu facile. Gli infermieri, per quanto d’accordo con il rifiuto della contenzione, si dicevano incapaci, mancanti di mezzi: “siamo pochi in turno e dobbiamo badare a più di 50/60 persone”.

Basaglia chiese a noi giovani medici e agli studenti volontari di partecipare alla sfida. Insieme agli infermieri, contro la contenzione.

Prima di tutto slegare le persone che arrivavano “cinghiate”. Disporsi all’ascolto e all’accoglienza. Arginare con il proprio corpo, con gli sguardi e con le parole le tensioni, i sussulti, le paure. E così, quando nei reparti qualcuno urlava la sua disperazione, bisognava ascoltare. Il medico di turno, se necessario, restava per tutta la notte con gli infermieri.

Parlavamo, ci disponevamo intorno alla persona. Preparavamo il caffè da bere insieme. Cercavamo, anche per noi stessi, il senso di quella disperazione, di quell’esplosione, di quella rabbia.

Da allora, “e per sempre”, si evitò il letto a rete, il camerino di isolamento, la porta chiusa.

Le radici di Basaglia che qualcuno vuole tagliare

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diverso
Eppure Basaglia fa lezione in California malgrado la negligenza di chi ci governa

di Allegra Carboni, studentessa del corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Udine

Dévora Kestel dallo scorso dicembre ricopre il ruolo di Direttrice del Dipartimento di Salute Mentale e di Abuso di sostanze presso l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS). Lo stesso incarico è stato ricoperto in passato da Benedetto Saraceno. Se si spulcia tra i curricula di Saraceno e Kestel si scopre senza troppe difficoltà un’esperienza che li accomuna: parte della loro formazione è avvenuta nelle città di Trieste e di Udine, sotto il diretto insegnamento di Franco Basaglia. Sarà solo una banale coincidenza? Il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste riveste dal 1987 il ruolo di Centro Pilota dell’OMS ed è stato riconfermato Centro Collaboratore OMS per la Ricerca e la Formazione in Salute Mentale anche per il quadriennio 2018-2022. Si tratta di una funzione guida, di assistenza e supporto all’OMS, un punto di riferimento per gli altri Paesi che intendono intraprendere percorsi di deistituzionalizzazione. Dévora Kestel ha voluto, cominciando il suo lavoro a Ginevra, tornare a Trieste e a Udine per visitare i servizi di salute mentale. Non un rappresentante delle istituzioni ha trovato il tempo per incontrare la direttrice dell’OMS, che invece nei primi mesi di lavoro è stata ricevuta dal segretario dell’ONU, da presidenti in carica, da ministri della salute. Tuttavia, malgrado la colpevole disattenzione dei governi locali, l’impresa della regione Fvg, la psichiatria, non solo è sopravvissuta alla morte di Basaglia, è andata oltre.

Recentemente, come ha raccontato Giulia Basso sulle pagine del Piccolo (leggi Los Angeles chiama Trieste per avviare una rete di assistenza psichiatrica), è emersa anche l’intenzione di aprire nella Contea di Los Angeles un centro di salute mentale comunitario ispirato al modello triestino, ulteriore dimostrazione che quest’ultimo rappresenta una buona pratica che a distanza di quarant’anni continua a influenzare le politiche di salute mentale in tutto il mondo. Come scritto da Allen Frances – psichiatra e professore emerito presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali della Duke University School of Medicine di Durham, Carolina del Nord – sull’Huffington Post meno di due anni fa, «gli Stati Uniti sono il posto peggiore al mondo per avere una malattia mentale, mentre Trieste è il migliore. […] Trieste è il migliore perché ha a cura le persone con disturbi mentali e le tratta come persone» (vedi Chissenefrega dei matti: il caos e lo strazio della salute mentale). Proprio grazie all’iniziativa di Frances è nato il progetto Trieste in the United States, e a novembre 2017 una delegazione del Dipartimento di Salute Mentale della Contea di Los Angeles ha visitato Trieste per conoscere il modello basagliano e avviare una collaborazione. Los Angeles può essere considerata la capitale dei senzatetto degli Stati Uniti: dare vita ad un modello ispirato al sistema sanitario triestino sembra essere l’ipotesi più concreta, e visionaria, per far fronte a tale situazione. Nel 2020 nascerà un centro di salute mentale per un’area di 100.000 abitanti a Beverly Hills (vedi www.accoglienza.us).

Eppure, nonostante le premesse appena esposte, il sistema basagliano è a rischio per le confuse politiche regionali che si prospettano all’orizzonte: da dichiarazioni di membri della giunta e di qualche responsabile di azienda sanitaria è emersa infatti l’intenzione di riorganizzare i servizi territoriali, nel senso di accorpare servizi e dequalificare la preziosa prossimità che negli anni hanno coltivato nel territorio. Una spesa già molto esigua destinata alla salute mentale, il 3,5% su tutta la spesa sanitaria, in linea con la media nazionale, sarebbe destinata ad ulteriori riduzioni. Certamente per erogare un servizio di qualità, oltre alla rivoluzione culturale – oramai ben assimilata dai più – e alla presenza di operatori motivati servono risorse e attenzione alla crescita di culture e conoscenze. C’è chi ritiene erroneamente che quanto destinato alle politiche sanitarie sia una mera voce del bilancio troppo gravosa da sopportare, rispetto a cui bisogna intervenire con tagli netti per abbattere almeno in apparenza i costi, di certo elevati, necessari per mantenere anche alcuni dipartimenti riconosciuti come modelli eccellenti e a cui si ispira tutto il resto del mondo. Una riflessione va però fatta a monte: i costi pubblici da sostenere per mantenere determinati livelli di erogazione dei servizi non sono da considerarsi semplici spese, bensì investimenti. Vi sono nel mondo fin troppi esempi tangibili di elevati livelli di disagio sociale strettamente correlati a quello fisico e sanitario. Garantire un servizio sanitario equo ed efficiente è di fatto un modo per contrastare la povertà: non bisogna infatti dimenticare che, come afferma l’OMS, «le disuguaglianze nella salute hanno origine dalle condizioni sociali in cui gli individui nascono, crescono, vivono, lavorano e invecchiano, ossia dai cosiddetti determinanti sociali della salute. Intervenire su tali determinanti risulta essenziale per creare società eque, e costituisce per tutti i decisori un imperativo etico». Pertanto investire sulla salute, in particolare sulla salute mentale, equivale a risparmiare sui costi della spesa sociale.

Pare assurdo pensare che Trieste, culla della rivoluzione basagliana, rischi di pagare la negligenza e l’imperizia di coloro che ci governano. Altrettanto paradossale è l’asimmetria tra le priorità e le politiche del Friuli Venezia Giulia, regione dove peraltro la soddisfazione dei cittadini rispetto alle cure nel campo della salute mentale è riconosciuta, e le richieste che provengono dal resto del mondo.

Evidentemente aveva ragione Montale quando nel 1971 scriveva che la storia non è magistra di niente che ci riguardi.

1974: Dieci obiettori a San Giovanni

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Scritto nel luglio 2018 da Angelo Bettoni, ingegnere, già Presidente dell’ALER di Brescia, obiettore di coscienza a Trieste nel 1974

“Ritorno in manicomio dove i pazzi mi sembrano come quegli alberi che vidi una volta in America dopo il passaggio di un uragano, con le radici in alto e i rami sotto terra”.

(La marchesa e i demoni, M.L. Marsigli, Feltrinelli)

“Mentre chi soffriva di altre malattie, dal raffreddore al cancro, era per tutti un individuo colpito da lievi disturbi o gravi aggressioni, il pazzo non era più un uomo, ma era solo la sua malattia; dunque una mostruosità che perdeva, nel sentire collettivo, i tratti distintivi dell’umanità, i suoi diritti fondamentali. Non era oggetto di riflessione, di pietà, di solidarietà, quanto piuttosto di indifferenza o di orrore; appunto una mostruosità più che un uomo, una malattia più che un uomo malato”.

(Basaglia, una biografia, Claudio Magris, Lint editoriale)

Sono arrivato a Trieste nel luglio 1974. Sarei dovuto partire militare nel gennaio del 1973 ma eravamo i primi obiettori di coscienza dopo la legge del 1972, ed ancora il governo discuteva se metterci in prigione, o farci fare i pompieri, o, come chiedevamo noi, farci fare un servizio civile. Prevalse il buon senso, la decisione fu servizio civile, ma con 8 mesi in più del servizio militare, che allora durava 12 mesi: non si sa mai che fossimo dei lazzaroni che semplicemente non volevano fare la naia.

Ho pianto entrando al manicomio. L’ospedale psichiatrico di Trieste era bello, come dirò poi, ma il vedere i matti che giravano, sentire odore di umanità, pensare che avrei passato lì due anni della mia giovinezza, mi scioccò.

E invece fu da subito un’esperienza meravigliosa.

Il manicomio di San Giovanni a Trieste era stato costruito dagli austriaci nei primi anni del ‘900. Prima ancora era stato il parco di caccia di un certo barone Renner, e la direzione del manicomio, un villino, si chiamò da sempre villa Renner. I padiglioni erano quindi belle costruzioni austriache, poste sul versante della collina che dal mare sale verso l’altopiano, una fila di edifici posti nel verde a destra ed a sinistra della strada che saliva.

Prima di Basaglia, arrivato a Trieste nel 1971, a sinistra stavano le donne, ed a destra gli uomini. Entrando dal basso, all’inizio c’erano, a destra ed a sinistra, le due accettazioni, poi i padiglioni in fila, caratterizzati dal tasso crescente di violenza dei ricoverati: i tranquilli, i semi-agitati, gli agitati, e poi, vabbè, i sudici.

Ho lavorato lì, con altri sei obiettori, per 20 mesi. Siamo stati usati come drappello d’attacco, di supporto agli infermieri, prima per aprire il reparto delle donne violente, delle pazze furiose, poi per aprire, per quanto possibile, il reparto dei sudici (questi erano, evidentemente, i più regrediti).

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Perché aprire? Franco Basaglia così rispose ad un giornalista che gli chiedeva se esista la malattia mentale: “La malattia mentale esiste, ma il matto che noi fabbrichiamo è il doppio della sua malattia”. Ecco perché distruggere i manicomi come fino ad allora conosciuti e gestiti: per non raddoppiare il già gravissimo danno che la malattia mentale determina, approfittando anche dell’utilizzo degli psicofarmaci che, da qualche tempo, permettevano di tenere sotto controllo gli eccessi comportamentali dei pazienti senza costringerli fisicamente.

Va subito premessa anche un’altra considerazione di primaria importanza, forse la più importante di tutte: Basaglia, uomo di rigorosa formazione scientifica, ha scritto diversi libri, ma è appartenuto a quella categoria di intellettuali che hanno scelto di misurare nella realtà dei fatti la portata delle loro teorie. Nel periodo in cui l’ho frequentato, dal 1974 al 1976, Basaglia viaggiava molto, ma per il resto era il punto di riferimento per tutti gli operatori del manicomio, matti compresi, che lo conoscevano. Soprattutto il manicomio era lì con tutto il suo carico di problemi, e l’opera di Basaglia a Trieste è servita a dimostrare che l’istituzione paracarceraria poteva essere superata, a favore di piccoli centri più agili, più umani. Dai 1.106 ricoverati a Trieste nel 1971, alla fine degli anni 70 i ricoverati erano poco più di cento.

Al reparto O, quelle delle donne agitate, Basaglia assegnò un bravissimo medico, Renato Piccione (molti anni dopo direttore emerito del Dipartimento di salute mentale di Roma E), allora ventiseienne, due obiettori, ed un paio di operatori volontari (Trieste, all’epoca, ospitava volontari provenienti da tutta Italia e dall’estero).

Ogni mattina alle 8 si teneva in reparto la riunione di tutti gli operatori: il medico si informava sulla notte trascorsa, si valutavano le condizioni delle diverse pazienti, una sessantina, si decidevano le diverse occupazioni quotidiane, si parlava di medicine, ma anche di cibo, di sigarette, di abbigliamento. Poi, dopo una mezz’ora o poco più, si usciva dalla riunione, e lì c’erano le matte, c’erano tutte queste povere donne con la loro follia ed i loro dolori.

Uno dei primi argomenti affrontati in riunione fu quello dei pasti, dove al solo cucchiaio allora in uso vennero affiancati coltello e forchetta. Reinsegnammo alle degenti, in diversi casi, l’uso di questi elementari strumenti, introducemmo anche l’utilizzo dei tovagliolini, ed il pasto, con le persone che smisero di mangiare con le mani, cominciò ad essere un momento meno nauseante della vita di reparto. Per un gruppo di degenti più autonome di altre, il pasto, preparato nella cucina centrale dell’ospedale, divenne una fase del tutto autogestita, dalla preparazione dei tavoli, alla spartizione del cibo, alla pulizia finale. Ricordo di un’oligofrenica grave (i matti di normale intelligenza convivevano con le persone con deficit, non era il tipo di malattia ad unirli, ma il grado di violenza da loro espresso nel corso della loro vita istituzionale – e tale scelta non era certo dovuta alla volontà di inserimento degli handicappati) che, da persona abituata a subire per alcuni suoi limiti oggettivi ogni atto che la riguardasse, assunse nuova importanza sia ai propri occhi che di fronte alle altre degenti nel ruolo di colei che distribuiva la minestra alle altre commensali.

Sostituimmo le vestaglie manicomiali con abiti personali, introducendo di conseguenza l’uso dell’armadietto personale, con chiave individuale, che divenne il primo spazio privato di cui le persone dopo lunghi anni poterono usufruire. Si smise così di vedere degenti che deambulavano tenendosi stretti borse o sacchetti dove tenevano chiuse le loro povere cose.

Successivamente fu deciso di tenere, quotidianamente, l’assemblea di reparto, sempre alla presenza di tutti, operatori e degenti. Si discuteva ancora di cibo, di sigarette, di vestiti, ma anche si cercava di affrontare gli episodi della giornata precedente, si cercava di capire il perché di uno sgarbo, di una manifesta sofferenza, di un insulto, di una violenza. Ho incominciato lì a capire che dietro ad ogni episodio non c’era lo sbalzo d’umore, l’atto inconsulto, il raptus incontenibile, ma c’era sempre una motivazione che spesso si riusciva a far emergere. Si iniziò a dare risposte diversificate a problemi individuali diversi. Queste donne, che alcuni mesi prima avevamo inutilmente cercato di far parlare, ponendo loro domande che erano rimaste per lo più prive di risposte, iniziavano pian piano ad aprirsi scoprendo che c’era chi si occupava concretamente dei loro problemi quotidiani e delle loro prospettive di vita.

Si arrivò così ad organizzare le prime uscite, brevi gite in città, alla chiesa di San Giusto, al mare di Barcola, all’altopiano di Opicina, di gruppi più o meno numerosi, con mezzi di trasporto pubblici, o nostri, o dell’ospedale. La gita o anche il semplice giretto in città divennero un momento molto importante. In un primo tempo toccava a noi stimolare le persone perché curassero il proprio aspetto prima di un’uscita, ma in un secondo momento la cura del proprio corpo e del proprio aspetto ridivenne un’abitudine per diverse persone. Andavamo nei bar, nei negozi, nei grandi magazzini a fare spese personali, cercavamo, per quanto possibile, di recarci nei luoghi della città e dei dintorni che avessero rivestito un particolare significato per le persone.

Il maggior risultato di queste gite all’esterno del manicomio fu che si poté dimostrare nei fatti la relatività del concetto di pericolosità. Benché in reparto avvenissero ancora, sporadicamente, episodi di violenza, mai mi capitò di avere la pur minima preoccupazione durante le gite all’esterno con queste persone marchiate come “pericolose a sé e agli altri”.

Fu a questo punto, dopo le assemblee e le gite, che si giunse, attraverso diverse fasi, all’apertura della porta del reparto. Ciò era stato fino ad allora impossibile, perché, per evitare che si registrassero fughe massicce di degenti, bisognava prima diminuire l’angoscia e la brutalità della vita interna del reparto. Netta era stata all’inizio anche l’opposizione delle infermiere a tale novità: aprire le porte significava un radicale cambiamento di mentalità, e comportava un deciso aumento di responsabilità.

Il maggior problema, ampiamente discusso nelle riunioni del mattino, era costituito da due persone che, tuttora angosciate dal loro permanere in reparto, sicuramente all’atto dell’apertura sarebbero fuggite. Furono adottate le seguenti soluzioni. Una delle due, secondo le categorie giuridiche manicomiali dell’epoca, fu trasformata da “coatta” a “volontaria”, riducendo così anche i rischi per la responsabilità di medico e infermiere. Entrambe furono poi assunte come lavoratrici presso una Cooperativa che svolgeva diversi servizi dentro all’ospedale, con dipendenti regolarmente pagati secondo i contratti di lavoro. Il loro ruolo all’interno del reparto assunse quindi tutta un’altra importanza, facendo venir meno l’ansia di fuga. Dopo un inziale continuo controllo e accompagnamento da parte nostra, il rischio di una loro sparizione tramontò.

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Dopo sei mesi di intenso lavoro, quando la vita di reparto era ormai radicalmente mutata; quando la violenza era ormai solo un ricordo su cui capitava anche di poter scherzare, e si manifestava solo con rarissimi episodi ormai comprensibili e correttamente gestiti dalle infermiere, indubbiamente maturatesi durante quel periodo di cambiamenti; quando una degente quarantacinquenne, già ricoverata in manicomio in Australia (dove nei primi anni 50 emigrarono circa 10.000 triestini), riportata a Trieste sotto scorta e qui ricoverata per venti anni, fu dimessa per tornare a vivere in famiglia; quando alcune anziane furono accolte in casa di riposo; quando la vita aveva ripreso ad avere un senso, perché le persone potevano, entro certi ovvi limiti, andare e venire liberamente, perché la comprensione e l’attenzione all’altro erano ormai patrimonio di cultura del reparto, fu allora che, con la disponibilità di nuove, articolate strutture, in cui ospitare le diverse persone, fu possibile smembrare definitivamente il reparto O, il reparto delle donne agitate.

Mi piace, in chiusura, ricordare un episodio occorsomi con Fedora C., che nel 1975 stava in reparto da quasi trent’anni. Figlia di un generale, aveva frequentato il liceo classico (sia chiaro, era un’eccezione la presenza di una persona di estrazione borghese, tutti i matti dell’ospedale psichiatrico provenivano dalle classi più povere della popolazione). Rinchiusa poi in manicomio, era, quando la conobbi, già anziana e di pessimo aspetto. Dopo un po’ di frequentazione, iniziò a ridimostrare le buone abitudini di cui era stata intessuta la sua vita prima del ricovero a vita. Una volta la condussi in uno dei bellissimi caffè di Trieste, un bar molto elegante ed aristocratico della vecchia città teresiana. Dopo qualche tempo di attesa per l’ordinazione, stufa di aspettare, Fedora, visto un cameriere che ci passava accanto, sollevò un poco il posacenere di cristallo, facendolo tintinnare sul piano di cristallo del tavolino, ed apostrofò il cameriere: “Garçon!”. Come un fiore che sboccia dall’asfalto, sopra i decenni di bruttezza, di violenza, di follia, di angherie, l’antica raffinatezza di Fedora era gemmata.

Un’idea che smette di essere utopia e diviene realtà, questo ha significato la vita di Franco Basaglia.

13 maggio 1978

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liberta
[Scritto tratto da (Tra parentesi) La vera storia di un'impensabile rivoluzione, spettacolo con Massimo Cirri e Peppe Dell'Acqua, in scena dal 15 al 24 maggio presso il Teatro Rossetti di Trieste]

Nel gennaio 1977 Michele Zanetti e Franco Basaglia annunciano che il magnifico frenocomio dell’imperial regia città di Trieste– si chiamava così quando è nato, sotto l’Austria – finalmente chiude. Poi c’è un’altra accelerazione, una delle tante in questa storia, perché si sta discutendo in Italia della riforma sanitaria e bisognerà affrontare la questione dei manicomi, sono un pezzo della sanità, la salute mentale. E poi bisogna fare ancora più in fretta, perché nella primavera del ‘78 c’è un referendum del Partito Radicale che chiede l’abrogazione della vecchia legge che sostiene il manicomio. Allora c’è il rischio di un vuoto legislativo, bisogna stralciare un pezzo della riforma sanitaria e decidere alla svelta. E non è facile decidere in quei mesi, perché sono i mesi in cui viene rapito Aldo Moro, Primo Ministro, rapito dalle Brigate Rosse, poi viene ucciso il 9 maggio 1978. Il giorno dopo si riunisce la Commissione che deve decidere. Aldo Moro c’entra tantissimo in questa storia. C’entra tragicamente e c’entra anche per la luminosità del suo lavoro. C’entra tragicamente perché, proprio il giorno prima che si riunisca questa Commissione, il suo corpo viene trovato in via Caetani, nella famosa Renault rossa. È stato assassinato. Aldo Moro è stato uno dei più giovani, forse il più giovane costituente, nel ‘48. Nel ‘48 è stato l’estensore dell’articolo 32 della Costituzione. L’articolo 32 è un articolo che non pretendo che voi ricordiate, neanche io conosco tutti gli articoli, però quello dice che i cittadini, chi si trova sul territorio del nostro Paese ha diritto alla salute e alla cura, nel rispetto del diritto e della dignità, e della libertà. Bene, a queste parole che Aldo Moro scrive e che poi discute, discute con La Pira, con Calamandrei, discute con Togliatti, si aggiunge anche che nessuno può essere sottoposto a trattamento obbligatorio sanitario, se non per precise disposizioni di legge. Aldo Moro muore così, invece, senza difesa, nell’indegnità e nell’illibertà più totale. E Aldo Moro c’entra perché questo articolo 32, che vogliamo ricordare qui, è ciò che poi costituisce la Legge 180, che stiamo cercando di ricordare. È proprio lì che c’entra Aldo Moro. Quel giorno, Aldo Moro è morto, la Commissione si riunisce per l’ultima riunione ed è presieduta da Gabriella, una giovane staffetta partigiana di Treviso: è Tina Anselmi, democristiana, dirige con grande cura e con grande autorità questa Commissione, non facile. Alla fine, quasi per sincerarsi lei e gli altri del buon lavoro che hanno fatto, chiede a tutti e a se stessa: «Ma i matti, quelli che stanno in manicomio, i malati di mente sono o no cittadini per i quali vale il diritto costituzionale?», in quel momento gli arriva sulla testa la colomba dello Spirito Santo – sorrido per non emozionarmi, perché davvero questa cosa è accaduta – e tutti si illuminano e dicono che sì, da quel momento i matti saranno cittadini, e cittadini a maggior ragione, proprio perché matti.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [1]

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copertina
Alessia de Stefano, psichiatra, referente romana del Forum Salute Mentale, facendo un trasloco ha fatto un prezioso ritrovamento. Tra gli scatoloni è infatti riapparso il dodicesimo numero dell’Espresso, uscito il 12 marzo 1971 e contenente il Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti, documento curato da Franco e Franca Basaglia.

Seppure alcune definizioni risultino certamente superate, quella che riproponiamo è una pubblicazione integrale, in dieci puntate estive. Iniziamo oggi con l’introduzione alla ricerca.

Il 12 febbraio scorso, dopo due anni e mezzo di indagini, il pubblico ministero ha chiesto al giudice istruttore del tribunale di Gorizia l’incriminazione di Franco Basaglia, il più famoso psichiatra italiano, anzi un papa dell’antipsichiatria europea, come lo ha definito, inpropriamente [sic], Le Monde. Se il giudice accetterà le argomentazioni del pubblico ministero, il professor Basaglia sarà processato, insieme con uno dei suoi più diretti collaboratori, il dottor Antonio Slavich, per omicidio colposo. L’omicidio è stato materialmente compiuto da un uomo dimesso per esperimento dal manicomio di Gorizia. Ma l’uomo, sostiene il pubblico ministero, era matto: la responsabilità del suo gesto (ha ammazzato la moglie a colpi di scure) ricade su chi lo ha fatto uscire, «ponendo in oblio i dettami della scienza», come c’è scritto nella requisitoria. E a farlo uscire è stato Basaglia, che allora dirigeva il manicomio, in complicità con lo Slavich.

La richiesta di incriminazione riguarda perciò non tanto la persona di Franco Basaglia quanto le denunce da lui formulate e le proposte da lui avanzate in anni di continua ricerca e di rigorosa sperimentazione. Se si arriverà al processo, insomma, si arriverà di nuovo a un processo sostanzialmente ideologico, politico.

Da circa un decennio la denuncia delle violenze, degli inganni e delle contraddittorietà del nostro sistema manicomiale e insieme la proposta di una sua radicale trasformazione, sono state imposte da Franco Basaglia all’attenzione non solo della scienza medica e psichiatrica ufficiale ma anche e forse soprattutto a quella dei sociologi, dei moralisti e dei politici. Partendo dall’analisi della condizione umana all’interno dei manicomi e dalla ricerca delle cause dell’esclusione dalla società di una percentuale sempre più alta di cittadini, la polemica condotta da Franco Basaglia ha presto coinvolto tutte le istituzioni del mondo contemporaneo, con una insistenza particolare su quelle del nostro paese.

Per questo un eventuale processo contro Franco Basaglia finirà col coinvolgerci tutti. Il problema, è chiaro, non è più quello della vicenda personale di un matto uxoricida. Anzi, non lo è mai stato. Non per nulla, all’inizio della lunga istruttoria, il pubblico ministero aveva chiesto una perizia che decidesse sulla liceità scientifica degli esperimenti avviati da Basaglia nel manicomio di Gorizia; non per nulla nessun perito ha accettato l’impossibile incarico. Gli esperimenti di Basaglia, presi in sé, sono vecchi quanto la psichiatria: discuterne la liceità scientifica sarebbe come discutere la luce del giorno. Tant’è che da decenni in tutti i manicomi si sono sempre dimessi i matti e che sempre si sono verificati incidenti senza che per questo nessun direttore di manicomio venisse mai incriminato. Come nessuno ha mai incriminato uno psichiatra per le violenze esercitate sui pazzi all’interno dei manicomi.

A rendere sospetti gli esperimenti di Basaglia sono semmai altre cose, quelle che egli denuncia prima e propone dopo l’esperimento: l’analisi delle cause per cui un uomo diventa matto, la ricerca dei mezzi per imporre alla società di riprenderselo.

Ecco: se si arriverà al processo sarà per discutere di queste cose, non di un tragico incidente banale nella sua meccanica; e neppure di un conflitto scientifico fra scuole diverse, che non esiste.

Per questo, mentre nelle librerie compare un suo nuovo saggio scientifico, La maggioranza demente, L’Espresso è lieto di poter offrire in esclusiva ai propri lettori l’ultimo lavoro di Franco Basaglia. È un dizionario sociale della psichiatria che egli aveva scritto, come sempre in collaborazione con la moglie, su nostra richiesta e che sarebbe già uscito da qualche settimana se lo sciopero dei poligrafici non ne avesse tardato la pubblicazione. Ma, essendo nel frattempo venuta la richiesta di incriminazione, il ritardo forse giova a rendere più comprensibile l’organicità del documento e a coglierne intera la provocazione, anche sotto i passi più impegnativi quanto a linguaggio e a riferimenti scientifici.

Questa ricerca

Questo abbozzo di dizionario della psichiatria vuole essere un’analisi critica della psichiatria come branca della medicina, e delle condizioni pratiche in cui si trovano ad agire i tecnici di questo settore specifico. Ciò che importa rilevare (e il discorso risulta di una tale ovvietà che lo si deve puntualizzare perché la realtà possa essere riscoperta in tutta la sua violenza) è che anche nel campo della salute si ripropone il meccanismo del privilegio: l’uomo nasce, si ammala e muore con le prerogative della propria classe. Nascere, ammalarsi e morire diventano tappe solo apparentemente comuni nella vita dell’uomo; mentre l’elemento determinante nello svolgersi di un carriera umana o di un’altra è sempre l’appartenenza alla categoria del privilegio o la sua esclusione.

Se è vero che nella nostra società si tende a livellare tutte le esperienze ad un unico comportamento comune socialmente controllabile, è anche vero che, al nostro attuale livello di sviluppo socio-economico, solo la classe privilegiata può permettersi di gestire in proprio la propria vita, la propria salute e la propria malattia, vivendole come proprie esperienze. Il potere contrattuale fra chi dà e chi riceve, anche se si tratta della prestazione di un servizio sanitario, è ciò che determina il modo di svolgersi di ogni esperienza e, quindi, ciò che determina ogni carriera umana: il pagante, il mutuato, il povero assistito dal comune hanno, nella malattia, carriere diverse che portano a evoluzioni spesso diverse della malattia stessa, e non solo in psichiatria. La malattia non è dunque un valore negativo assoluto, ma è sempre relativa al potere contrattuale del malato rispetto ai servizi che dovrebbero occuparsi di lui.

Il principale obiettivo della lotta contro le istituzioni psichiatriche, sviluppatasi in questi ultimi anni in Italia, consiste dunque nel denunciare il carattere della psichiatria come ideologia: cioè nel rivelare la sua funzione discriminatoria e classista, rivolta a fornire una copertura scientifica a delle contraddizioni sociali spesso estranee alla malattia.

Ma se la psichiatria si è rivelata un’ideologia, è possibile accettare la medicina, di cui la psichiatria fa parte, come scienza neutrale, accontentandosi di inserire in questo contesto il malato mentale che finalmente sarà trattato come tale e curato? Il passo successivo dovrà essere l’individuazione pratica della medicina come ideologia, attraverso l’analisi del suo metodo basato esclusivamente sulla terapia dall’alto. Esso si fonda infatti sulla radicale contraddizione fra salute e malattia, dove la salute è ritenuta un valore assoluto, mentre la malattia un accidente oggettivabile dalla scienza. In questo processo di oggettivazione il malato si separa dalla propria malattia (quindi dal proprio corpo) ed è costretto a delegare al medico la difesa dalla malattia e quindi dal suo corpo stesso. Si ripropone in questo senso in medicina il processo di alienazione da sé e dalle proprie esperienze che favorisce lo sfruttamento e il dominio sull’uomo.


Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [2]

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A


ALIENAZIONE MENTALE

Termine con cui si è inteso definire la condizione dell’essere fuori di sé in un periodo storico in cui il soggetto di questa alienazione continuava a far parte del corpo sociale. Le interpretazioni demoniache o magiche della pazzia (vedere la relativa voce di questo dizionario) non sancivano la disumanità dell’alienato quanto la presenza del demoniaco e del disumano nell’uomo.

L’assorbimento dell’alienato nell’ambito della patologia generale segna l’inizio di una nuova scienza: la psichiatria (v.) costantemente alla ricerca del proprio oggetto, su un terreno e con strumenti inadeguati alla realtà che tenta di scoprire (v. Trentatré). L’alienato scompare cioè come problema contraddittorio dell’umano, per diventare agli occhi del medico il malato mentale e agli occhi della società quell’al di là dell’umano da cui ci si deve salvare. Per questo il problema dell’alienazione mentale è diventato un problema di difesa sociale, dove l’alienazione è ridotta a un fenomeno curabile soltanto con l’internamento. La psichiatria si configura a questo punto come la scienza della patologia della diversità. Con l’inserimento della dimensione sociale (v.) nella psichiatria sembra che tale scienza tenda a rivedere globalmente l’oggetto della propria ricerca, in rapporto all’ambiente familiare, lavorativo eccetera. La malattia mentale sta dunque rientrando nella comunità da cui era stata separata e la psichiatria sembra sempre più incline a occuparsi della patologia della totalità.  Ma se il sociale non può essere inteso solo come un insieme di rapporti interpersonali, di relazioni e reazioni a livello sociologico e deve invece essere considerato anche un insieme di rapporti sociali di produzione, l’alienazione mentale torna a imporsi come un fenomeno che coinvolge l’uomo nella sua totalità. Cioè l’uomo contemporaneamente alienato dalla malattia e dalla paradossale logica del capitale, che fa passare per umano, naturale e irreversibile ciò che contribuisce al proprio sviluppo: l’alienazione mentale e la disumanizzazione dell’uomo.

ANTIPSICHIATRIA

Negli ultimi anni si sono sviluppati in diversi paesi movimenti psichiatrici tendenti a distruggere la vecchia immagine della malattia mentale. Pur partendo da questo denominatore comune e arrivando a una prassi professionale analoga, ciascun gruppo si fonda su presupposti teorici diversi.

l gruppo dell’antipsichiatria inglese, di cui Ronald Laing e David Cooper sono i principali rappresentanti, rifiuta l’idea tradizionale della follia. La follia viene anzi considerata un valore positivo, in quanto negazione esplicita dell’attuale società, ritenuta responsabile dell’instaurarsi di molte forme morbose. Per questa strada si tenta di spiegare la malattia mentale come il rifiuto di una vita non vivibile; e i sintomi della malattia, restando collegati al contesto in cui si manifestano, risultano meno incomprensibili di quanto la psichiatria tradizionale si ostini a ritenere. Meno politicizzato del movimento antipsichiatrico italiano, quello britannico opera soprattutto a Londra attraverso una trama capillare (network) extraistituzionale, nel tentativo di offrire un’alternativa al manicomio. Siamo tuttavia in una fase di capovolgimento: alla devianza si contrappone il suo rovescio, ossia la malattia intesa come un valore; la crisi psicotica viene interpretata come un segno di salute; la pazzia viene integrata nella società dopo una secolare segregazione; si convive con la follia dopo averla totalmente esclusa. Ma i limiti dell’antipsichiatria sono gli stessi contro cui cozza la psichiatria: la struttura della società e gli strumenti del potere sull’uomo, sano o malato.

C


CARTELLA CLINICA

Più che un documento in cui risulti la storia del paziente, sembra spesso una pezza giustificativa che l’ospedale prepara per motivarne il ricovero. La formulazione della diagnosi illumina di un colorito particolare ogni atto o avvenimento della vita del paziente, mettendo in evidenza soltanto gli aspetti che possono essere interpretati sotto questa luce. Nella cartella clinica non solo viene ricostruita (a posteriori) la malattia ma anche la storia del paziente, una storia che sembra sia stata vissuta soltanto in funzione di quella malattia e, soprattutto, in funzione del ricovero.

Come il malato costruisce la storia della propria vita selezionando gli avvenimenti più lusinghieri per presentare agli altri un’immagine di sé accettabile, così la cartella clinica sembra rivolta a individuare gli elementi più negativi, i fallimenti più nascosti, gli avvenimenti più vergognosi che abitualmente l’individuo riesce a celare; e ciò per costruire un quadro del malato perfettamente rispondente all’ipotesi diagnostica. Gli stessi elementi collezionati nella cartella clinica di un malato istituzionalizzato restano fatti privati personali per chiunque non entri in una istituzione psichiatrica. All’internato invece non resta più niente di personale e meno ancora di privato. E la cartella clinica, con l’elenco delle sue stranezze e dei suoi errori, diventa perciò un nuovo strumento antiterapeutico che si aggiunge agli altri, aiutando a fissarlo in quella sua immagine di pazzo, ormai pubblica e quindi irreversibile.

CASE DI CURA PRIVATE

Istituti previsti anche dalla legge (v .) sugli alienati, che consentono da un lato ai malati mentali abbienti o convenzionati con mutue privilegiate di sfuggire alla stigmatizzazione (v.) del ricovero manicomiale; e dall’altro ai proprietari e gestori di realizzare cospicui guadagni attraverso l’assorbimento del malato mentale nel ciclo produttivo.

Quando l’ospite di una casa di cura privata esaurisce le sue risorse economiche o supera il limite di 180 giorni di malattia riconosciuto dalla mutua, diventa automaticamente pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo e bisognoso di ricovero coatto in manicomio (v.).

COMPLESSO.

Termine d’uso corrente, derivato dal linguaggio analitico (avere un complesso, essere complessato eccetera) che è andato gradualmente perdendo valore presso gli psicanalisti (vedi psicanalisi), se si eccettuano le espressioni e i concetti di complesso di Edipo o di castrazione, ormai diffusi anche nell’uso quotidiano (con questo Edipo…, eccetera).

Si tratta comunque di un insieme organizzato di rappresentazioni e ricordi a forte colore affettivo, a livello – parzialmente o totalmente inconscio.

COMUNITÀ TERAPEUTICA.

Nata in Inghilterra, il paese che conta una lunga tradizione nei tentativi di rinnovamento delle istituzioni psichiatriche, si fonda essenzialmente, secondo i principii di Maxwell Jones, suo più autorevole rappresentante, sull’uso della interazione di gruppo come forma di apprendimento sociale. Con essa si tenta una cogestione comunitaria della malattia attraverso il reciproco sprigionarsi di valenze terapeutiche fra medico, malato e tutti gli altri componenti della comunità. L’accento viene posto qui sul momento pratico-organizzativo; quindi sulla gestione della vita istituzionale come messa in discussione pratica del sistema gerarchico, autoritario, custodialistico, tipico delle vecchie organizzazioni manicomiali.

Ma nel momento in cui la comunità terapeutica si costruisce in nuovi dogmi e nuovi miti, questo riconquistato margine di libertà viene da capo a mancare. La nuova istituzione cioè torna a chiedere al malato di identificarsi in una definizione della malattia diversa da quella precedente ma altrettanto vincolante e irreversibile. E anche qui ci si trova di fronte a un rovesciamento: fine della comunità terapeutica diviene l’adattamento del malato guarito alla stessa situazione sociale da cui era partito. Una volta smantellata la struttura manicomiale tradizionale e resa possibile la riabilitazione del malato nella istituzione, come non riconoscere nella istituzione buona la medesima funzione di controllo che caratterizzava l’altra?

In questo modo, la comunità terapeutica rischia di ridursi a un pur necessario strumento di umanizzazione del manicomio, il cui compito comunque seguiterebbe a essere quello di affermare la validità di una norma (v.) definita e imposta dall’esterno, oltre i confini di competenza tecnico-specialistica degli psichiatri e dei loro collaboratori.

CONFLITTO

Concetto derivato dalla psicanalisi (v.). Se ne parla quando in un soggetto si oppongono esigenze interne e contrarie. Il conflitto può essere manifesto (per esempio fra un desiderio e un’esigenza morale o fra due sentimenti contrastanti); o latente, nel qual caso si esprime in modo deformato e può manifestarsi attraverso sintomi, disturbi della condotta o turbe del carattere. Tuttavia il conflitto è costitutivo dell’essere umano, come espressione della contraddizione insita nell’uomo. La psicanalisi ha messo in evidenza e teorizzato il problema della contraddizione. Le successive varie scuole psicanalitiche invece hanno creato delle tecniche volte a risolvere il sintomo, come espressione del conflitto, non attraverso la presa di coscienza della contraddizione bensì attraverso l’eliminazione di uno dei poli di essa.

CONTENZIONE

Pratica manicomiale mediante la quale il malato agitato, furioso o incoerente viene assicurato e protetto al fine di prevenire gli eccessi della follia di cui soffre. La legge (v.) ne prevede l’applicazione secondo canoni rigidamente fissati dai diversi ruoli gerarchici che costituiscono la piramide manicomiale.

La contenzione crea qualche inconveniente. Recentemente si è venuti a conoscenza di casi di persone morte nel letto di contenzione a Varese e a Torino. Ma quando lo psichiatra ordina che un malato mentale venga contenuto, è la scienza che avalla e giustifica questo suo atto, anche se esso è esplicitamente una dichiarazione di impotenza.

I recenti progressi della psicofarmacologia hanno ovviato il fenomeno degli eccessi della follia e di conseguenza quello degli eccessi della contenzione. Tuttavia gli psicofarmaci (v.) da importanti mezzi terapeutici possono diventare, nelle nostre istituzioni, nuovi mezzi di contenzione chimica più che strumenti selettivi di cura, se sono usati solo come difesa e giustificazione dell’istituzione.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [3]

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D

DEVIANTE

Il termine è stato importato nella nostra cultura come astratta elaborazione ideologica di un problema altrove reale. A livelli socio-economici diversi corrispondono forme diverse di definizioni culturali: il problema definito con questo termine resta da noi perciò patrimonio di una élite culturale ristretta e il termine stesso si riduce a una specie di ammiccamento fra privilegiati capaci di decifrare un messaggio segreto e di scoprirvi riferimenti in chiave.

Nella nostra cultura il problema del deviante, ossia di colui che devia dalla norma (v.) resta affidato alla competenza della medicina o della magistratura, le quali riescono ancora a spiegarlo e a controllarlo attraverso le definizioni di personalità psicopatica (v.) o di delinquente.

Nelle culture di quei paesi (generalmente più progrediti del nostro) nei quali l’ideologia della diversità non è più sufficiente a controllare in istituzioni chiuse le devianze che pongono in discussione la norma, il problema viene trasferito anche alla competenza della sociologia. Si tende così a creare nuove forme di organizzazione sociale aventi lo scopo di garantire il dominio e il controllo del numero sempre crescente di marginali ottenuto, attraverso i meccanismi di esclusione della produzione, nelle fasi avanzate di sviluppo del capitale. Una recente statistica americana, presentata in una sua relazione dallo psichiatra sociale Jurgen Ruesch, calcola per esempio nel 65 per cento del totale della popolazione statunitense la quota di disadattati o devianti.

DIAGNOSI

Momento in cui il medico trae le conclusioni del suo lavoro interpretativo sulle condizioni del paziente e ne deriva un adeguato indirizzo terapeutico.

In psichiatria, non potendo rifarsi all’obiettività dell’esame clinico, ogni interpretazione della malattia mentale, da quella organicistica a quella psicogenetica o sociologica, deve assumere, come valore assoluto infranto dalla condotta deviante (v.), il limite di norma (v.) di volta in volta fissato dalla stessa natura dell’interpretazione: la norma organica, quella psichica e quella sociologica.

In questo senso lo psichiatra si trova a costruire il suo concetto assoluto di malattia sulla base di una definizione relativa del concetto di norma.

La diagnosi si riduce quindi per lo più a un puro giudizio di valore da cui trarre misure e sanzioni che non possono avere carattere terapeutico, dato che ci si limita allo smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è. La psichiatria tradizionale, fondandosi soltanto sul suo bagaglio semiologico e facendo riferimento a questo concetto puramente relativo di norma, si trova cioè impotente a decifrare il proprio oggetto. Un medico generico, per esempio, può chiedere al paziente di pronunciare la parola trentatré per compiere un determinato rilievo polmonare. Ma lo psichiatra non dispone di un eguale strumento. Il dramma dello psichiatra è di non essere ancora riuscito a trovare il suo trentatré.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

Qual è la differenza fra un nevrotico, uno psicotico e uno psicopatico? Per lo psicotico 2 + 2 fanno indifferentemente 4, 6, 10, eccetera, a seconda del grado del suo rapporto con il reale. Per il nevrotico 2 + 2 fanno 4, e il fatto gli provoca uno scoppio d’ansia per il suo instabile rapporto con il reale. Per lo psicopatico 2 + 2 fanno sempre 4, ma ciò gli provoca sovente una rabbia antisociale.

F

FOLLIA

Termine dotto col quale si definisce in modo aulico il concetto volgarmente espresso dal termine pazzia (v.) (v. anche: alienazione mentale).

G

GUARIGIONE

Nel caso della malattia mentale, del cui processo morboso è difficile stabilire l’inizio, il termine guarigione è puramente convenzionale. Abitualmente, serve per indicare l’avvenuto riadattamento del paziente alle regole del gruppo sociale cui egli appartiene. Guarire significherebbe insomma ridurre l’esperienza della malattia a un comportamento comune, definito aprioristicamente sano.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [4]

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I

IMBECILLE, CRETINO, IDIOTA.

Campionario diagnostico col quale, in neuropsichiatria infantile, vengono etichettati “scientificamente” alcuni tipi di bambini la cui evoluzione psichica è ritenuta al di sotto della norma. Queste voci sono entrate nel linguaggio comune, offrendo strumenti di stigmatizzazione empirica alla conversazione quotidiana (Io non sono un imbecille, tu sei un cretino, ci considerano tutti idioti, eccetera).

INCIDENTE (fuga, omicidio, suicidio, eccetera).

Qualsiasi incidente avvenga nella istituzione psichiatrica, viene abitualmente imputato alla malattia, chiamata in causa come unica responsabile della imprevedibilità del comportamento dell’internato: la scienza, nel definire il malato incomprensibile, offre cioè allo psichiatra lo strumento per deresponsabilizzarsi nei confronti di un paziente che, per legge, egli dovrebbe controllare e custodire.

Responsabile di fronte alla società che gli delega il controllo dei comportamenti devianti (un controllo che non ammette, a differenza di altre specialità, rischi e fallimenti), lo psichiatra non fa altro che trasferire la responsabilità di tali comportamenti nella malattia, limitandosi a ridurre al minimo la possibilità di azione del malato, trasformato in un oggetto all’interno di una istituzione, il manicomio, che ha il compito di prevedere lo imprevedibile. L’incomprensibilità di un atto toglie ogni responsabilità a chi vi assiste o all’ambiente in cui esso si compie, dato che definendolo come un atto ”malato” si chiama in causa soltanto l’impulso abnorme e incontrollabile connaturato con la malattia.

Nel caso dell’istituzione chiusa, di tipo custodialistico tradizionale, scopo primario è sempre quello dell’efficienza dell’organizzazione: il malato è un oggetto all’interno di un sistema nelle cui norme e regole deve identificarsi. E’ dunque l ‘istituzione che, proponendosi come una realtà priva di alternative e di possibilità personali, dà al ricoverato le indicazioni verso l’atto che si presume egli debba compiere. In questa situazione coatta, dove tutto è controllato e previsto in funzione di ciò che non deve accadere, la libertà non può essere vissuta che come l’”atto proibito”, impossibile ad attuarsi, in una realtà che vive solo, per prevenirlo. Lo spiraglio di una porta aperta, una stanza incustodita, una finestra socchiusa, un coltello dimenticato sono l’invito esplicito a un’azione auto o etero distruttiva per prevenire la quale esiste l’istituzione. Dove non ci sono alternative, l’unico futuro possibile è la morte, come rifiuto di una condizione di vita invivibile, come protesta al grado di oggettivazione in cui si è ridotti, come l’unica illusione possibile di libertà, come l’unico progetto possibile. Ed è troppo facile identificare queste motivazioni con la natura della malattia, come la psichiatria classica ci ha insegnato.

L’unica responsabilità che l’istituzione concede all’internato è dunque quella dell’incidente, che essa si affretta a trasferire nel malato e nella malattia, rifiutandone ogni legame e partecipazione. Il ricoverato che, durante la lunga degenza (v.: “lungodegente”), si è trovato spogliato e deresponsabilizzato in ogni movimento, si ritrova completamente e automaticamente responsabile di fronte al suo unico atto di libertà, che quasi sempre coincide con la morte.

In questo senso l’incidente (di qualunque natura esso sia) non è che l’espressione del vivere la regola istituzionale fino in fondo, portando alle estreme conseguenze le indicazioni che l’istituzione fornisce al malato.

Nel caso di un’istituzione aperta, la finalità globale dell’istituto è il mantenimento della soggettività del ricoverato, anche se la cosa può andare a scapito dell’efficienza generale dell’organizzazione. In questa realtà, la libertà diventa norma e il degente si abitua a usarla. Ma perché ciò avvenga è necessario che tutta l’istituzione (cioè i diversi ruoli che la compongono) sia interamente coinvolta e presente in ogni momento e in ogni atto, come sostegno materiale e psicologico del malato. In questo contesto l’incidente non è più il tragico risultato di una mancata sorveglianza, ma di un mancato sostegno da parte dell’istituto.

La porta aperta diventa una indicazione per una presa di coscienza sul significato della porta, cioè della separazione, dell’esclusione di cui i malati sono oggetto in questa società. L’ospedale agisce stimolando la presa di coscienza da parte del malato di essere un escluso reale: ciò che è stato fatto di lui e il significato sociale che ha avuto l’istituzione in cui è stato rinchiuso. Che significato ha l’incidente in questo contesto? Un malato che può venire dimesso e che si trova rifiutato dalla famiglia, dal posto di lavoro, dagli amici, da una realtà che lo respinge violentemente come uomo di troppo, che cosa può fare se non reagire contro chiunque abbia per lui la faccia della violenza di cui è oggetto? In questo processo chi può, onestamente, parlare solo di malattia; e di chi sono le responsabilità più dirette?

L

LEGGE PSICHIATRICA.

L’insieme delle norme giuridiche (approvate nel 1904 e tuttora vigenti) che stabiliscono l’esclusione totale dei malati di mente mediante il loro isolamento in “manicomio” (v.). Cardine della legge è il principio della custodia dell’alienato, intesa come privazione della personalità umana sia in linea di fatto (attribuzione del malato a una istituzione totale che lo trasforma in oggetto), sia in linea di diritto (trasferimento della capacità giuridica ad altra persona, il tutore, attraverso l’”interdizione” (v.). La custodia è abbinata alla cura, ma l’attuazione della prima in modi coercitivi (paragonabili alla carcerazione ma a un livello ancora deteriore) esclude la seconda.

La preoccupazione della legge non è dunque diretta alla cura della malattia o alla prevenzione, di cui non si fa neppure cenno, bensì e unicamente a proteggere la società contro la “pericolosità” (v.) dell’alienato e contro “il pubblico scandalo” del suo comportamento. Il punto di riferimento rimane così esterno alla malattia ed è costituito dal riflesso delle concezioni correnti (ossia imposte dalla classe dominante) in materia di moralità e di ordine pubblico.

In coerenza con tutto questo, l’autorità di pubblica sicurezza, la famiglia, “qualunque interessato” sono i giudici preliminari del ricovero. La decisione finale spetta al magistrato, il quale si limita ad appropriarsi acriticamente del parere dello psichiatra. Si attua così una mediazione giudiziaria che costituisce un capolavoro di ipocrisia giuridica: a un organo apparentemente neutrale e irresponsabile, ma sostanzialmente espressione della classe dominante, è demandata l’applicazione del marchio della pazzia, con evidente sollievo per i reali artefici dell’esclusione.

La legge attribuisce un potere carismatico allo psichiatra, arbitro indiscusso di ricoveri, dimissioni, trattamenti terapeutici, adozione di mezzi coercitivi. Ma al tempo stesso gli garantisce lo scarico di responsabilità, in basso verso gli infermieri che rispondono dei malati loro affidati; in alto verso il giudice che avalla le sue decisioni.

La legge psichiatrica è oggetto di progetti di riforma. Un passo è stato compiuto nel 1967 con la previsione del ricovero volontario accanto al ricovero coattivo. Si è fatto in modo cioè che il malato potesse formalmente decidere da solo la propria esclusione sociale. Sono previsti passi successivi, che dovrebbero abbattere gli aspetti più medievali e ripugnanti del sistema manicomiale. Non è previsto un mutamento di fondo che potrebbe incidere radicalmente nella trasformazione dell’assistenza psichiatrica: il riconoscimento della malattia di mente come malattia sociale. (Giangiulio Ambrosini).

LUNGODEGENTE.

Termine tecnico che sostituisce la vecchia definizione di “cronico” per il malato mentale da anni “‘istituzionalizzato” (v.) nel “manicomio” (v.). Con questa denominazione si presume di dare nuova dignità al ricoverato, conservandone tuttavia intatto il ruolo e il destino. Qualcosa di analogo all’operazione con cui si chiamano netturbini gli spazzini, agenti di custodia i secondini, necrofori i becchini.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [5]

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M

MANICOMIO.

Deposito dove vengono inviati per il popolo i pazzi, per gli intellettuali i folli e dove, per i medici, vengono custoditi e curati i malati di mente. Per il pazzo, il folle, il malato di mente si tratta di un’istituzione totale, chiusa, oppressiva, dove vige la regola carcerario-punitiva, la cui finalità è la lenta eliminazione del proprio contenuto. Il manicomio è costituito da una piramide gerarchica che vede all’apice i medici con a capo il direttore, poi gli infermieri e alla base i malati. Tutti subiscono, anche se a livelli diversi, lo stesso processo di “istituzionalizzazione” (v.) che cristallizza i ruoli e congela i rapporti, dividendo l’insieme in corpo curante e pazienti: cioè superiori e inferiori, dominatori e dominati.

Il fatto che gli internati dei nostri manicomi appartengano tutti a un’unica classe (il proletariato e il sottoproletariato) testimonia l’esistenza di una doppia psichiatria che ricorre a definizioni scientifiche e sanzioni pratiche diverse, a seconda delle condizioni sociali ed economiche del paziente.

In questo senso la funzione delle istituzioni manicomiali si chiarisce in una esplicita azione di circoscrizione e di controllo degli elementi di disturbo sociale, dove la malattia ha un gioco molto marginale.

MATTO.

Termine d’uso comune per indicare gli affetti da “pazzia” (v.).

N

NEVROSI.

Nella definizione classica, la nevrosi è ritenuta un disturbo della personalità, caratterizzato dall’ansia come elemento determinante. Ma da quando l’ansia è diventata di proprietà della psichiatria, l’uomo “normale” non può esteriorizzare le sue emozioni senza essere definito nevrotico: la distanza fra salute e malattia in questo caso viene a cadere, tanto che l’essere nevrotico sembra diventato uno stato caratteristico dell’uomo normale.

Tale stato di nevrosi universale è di solito giustificato con la tensione provocata dalla vita “moderna”. Ma se i limiti di “norma” (v.) sono definiti esclusivamente in base a un concetto di produttività alienata, l’uomo, sano o malato che sia, difficilmente riesce a identificarsi nell’Io ideale che gli viene proposto. Egli è allora costretto a chiudersi nel conflitto con se stesso, alla ricerca continua di questa identificazione. Quando i margini di libertà individuale sono ristretti e i modelli in cui identificarsi sono ridotti in stereotipi rigidamente prestabiliti, la società aumenta il margine di tolleranza nei confronti dell’ansia provocata dalla mancata identificazione in quei modelli. E ciò perché l’ansia stessa risulta socialmente controllabile, come sintomo di norma-malattia. In questo senso, la differenza fra il nevrotico e l’uomo cosiddetto normale è solo quantitativa, tanto che, d’accordo con Ronald Laing, potremmo includere fra le diverse diagnosi psichiatriche anche quella di “stato di uomo normale”.

NORMA.

Complesso di regole che definiscono i valori di una data società in rapporto al tipo di credenze, organizzazione sociale, livello economico, sviluppo tecnologico-industriale che la caratterizza. Si tratta di un insieme di valori relativi che acquistano peso e significato assoluti solo nel momento in cui vengono infranti (v.: “Deviante”). Essi si traducono cioè in norme giuridiche deputate a sancire la situazione in atto. Di conseguenza, sanciscono il sistema di valori della classe dominante quindi il privilegio della classe che stabilisce i limiti di norma rispetto all’altra, che li subisce. Per la psichiatria italiana la norma è stabilita dalla “legge” (v.) sui manicomi e sugli alienati, del 1904.

O

OSPEDALE PSlCHIATRICO.

Eufemismo per “manicomio” (v.). La terapeuticità implicita nel termine è annullata dall’impossibilità di riabilitare persone inabili, per una società che non ha bisogno di persone riabilitate.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [6]

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P

PAZZIA.

Termine d’uso comune con il quale vien definito chi si vuole escludere dal consorzio sociale. (Esempi: cose da pazzi, ma tu sei pazzo, uscire pazzi). Tale termine, di comprensione universale, è invece bandito dal gergo scientifico ufficiale che preferisce sostituirlo con quello apparentemente meno stigmatizzante di malato di mente, termine che conserva la medesima funzione emarginante non riuscendo lo psichiatra a uscire dalla adialetticità della scienza cui fa riferimento.

PERICOLOSITÀ.

In nome della presunta o reale pericolosità del malato mentale esistono i manicomi, creati a difesa della cosiddetta società libera. Il concetto di pericolosità deriva direttamente da quello di incomprensibilità con cui la psichiatria dichiara la propria impotenza di fronte a malati mentali che non ha saputo curare, né comprendere. Ciò che dovrebbe essere una saggia e onesta accettazione dei propri limiti di fronte a un problema, si tramuta in pratica in una suddivisione manichea fra quello che si comprende e che diventa buono umano giustificabile, e quello che non si comprende e diventa pericoloso imprevedibile osceno.

L’istituzione psichiatrica, fondata su questo pregiudizio dell’imprevedibilità e della pericolosità della malattia mentale, proponendo al malato una realtà priva di alternative e di un futuro, dà al ricoverato le indicazioni verso l’atto pericoloso che si presume debba fare. Dove non esiste futuro, l’unico progetto possibile è l’annullamento, così nell’istituzione come nella realtà esterna dove l’uomo senza alternative, sano o malato di mente, riconosce la morte propria o altrui come l’unico atto possibile in una realtà in cui non trova posto. (v: “Incidente”).

PERIZIA PSICHIATRICA.

È la delega data dal giudice allo psichiatra perché decida se l’imputato può essere sottoposto a processo o essere senz’altro inviato in manicomio. Il verdetto dello psichiatra resta senza appello e costituisce una vera e propria deroga di fatto al principio del giudice naturale. La firma, come sempre, è dell’autorità giudiziaria, il contenuto è del tecnico. Ed è un contenuto particolarmente grave, se affermativo di malattia mentale, perché sostituisce alla reclusione in carcere la restrizione in un manicomio giudiziario a tempo indeterminato. Con l’assurdo che se il malato guarisce per avventura prima di un tempo minimo fissato dalla legge, non può uscire dal manicomio prima della scadenza del termine legale. Né può godere di amnistie o di condoni od ottenere la grazia, perché il manicomio non è reclusione, è “misura di sicurezza”.

La perizia non attribuisce soltanto ampi poteri allo psichiatra, ma gli fornisce notevoli vantaggi. Essa rende economicamente, dà prestigio se legata a casi giudiziari clamorosi, crea un legame di solidarietà con il giudice che difficilmente si potrà contraddire indagando penalmente sui metodi di gestione manicomiale del suo perito psichiatra di fiducia. E infine non impegna, perché l’imputato finirà in un manicomio giudiziario e non sarà motivo alcuno di fastidio per lo psichiatra che non lo vedrà più nel proprio manicomio. (Giangiulio Ambrosini).

PERSONALITÀ PSICOPATICHE.

Secondo la definizione dello psichiatra Schneider, si tratta di «persone che soffrono e fanno soffrire gli altri». È evidente che tale definizione si stacca da un concetto puramente diagnostico per esprimere un giudizio di valore in cui l’abnorme viene riferito a uno schema di valori medici, psicologici e sociali accettato come naturale e irriducibile, mai come qualcosa di legato al sistema sociale di cui l’individuo fa parte.

Dalla classificazione che alcuni continuano a fare degli psicopatici, ciò che risulta ancora una volta essenziale è la “stigmatizzazione” (v.) di chi devia dalla norma; stigmatizzazione ottenuta attraverso giudizi di valore che mettono a fuoco l ‘immoralità e la dissolutezza. Qualunque cosa faccia lo psicopatico è sempre “sbagliata”, perché il giudizio precede ogni sua azione come un marchio di fabbrica: se un atto è sbagliato, è sbagliato anche il suo contrario. L’errore iniziale è non avere accettato le regole del gioco: le motivazioni del rifiuto possono essere di natura diversa ma non hanno peso sul giudizio che se ne formula. Ed è esprimendo giudizi di questa natura che si arriva, in molti processi penali e civili, alla “perizia psichiatrica” (v.).

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