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Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [7]

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7PSICANALISI.

Disciplina fondata da Sigmund Freud. Consiste in un metodo di indagine e in una tecnica psicoterapeutica aventi lo scopo di portare a livello di coscienza contenuti conflittuali ricchi di carica energetica, rimossi nella sfera inconscia, interpretando espressioni verbalizzate liberamente, sogni, fantasie, desideri, azioni e comportamenti del soggetto da analizzare o da curare.

La tecnica psicanalitica è caratterizzata dall’atto interpretativo del terapeuta, rivolto, in particolare, alla indagine del transfert del paziente. Il nevrotico vive, nel rapporto analitico, la mescolanza spesso contraddittoria di forti sentimenti positivi e negativi legati a ricordi ed esperienze della vita infantile, vissuti nella analisi come intensamente attuali e trasferiti sulla persona dello psicanalista. Queste tecniche consentiranno al paziente di prendere coscienza dei propri “conflitti” (v.), di sciogliere i legami da questi dipendenti e di tornare, guarito, alla vita impossibile brutale e assurda che tutti conosciamo. Se questa vita lo schiaccerà, vuol dire che l’analisi non è stata condotta in modo soddisfacente, che l’Io del soggetto non è divenuto abbastanza forte e che bisognerà ricominciare tutto da capo, eventualmente cambiando psicanalista.

La durata di una analisi è varia: alcuni anni, alcuni lustri o tutta la vita. In quest’ultimo caso si tratta, per definizione, di una analisi infinita, nella quale, come le parallele, paziente e analista non si incontrano mai. L’analisi infinita dipende anche dal potere economico del paziente: se le risorse di questo, a un certo punto, si estinguono, si parlerà, in tal caso, di una analisi tendenzialmente infinita ma interrotta per cause di forza maggiore.

Bisogna distinguere tra psicanalisi e ideologia psicanalitica. La prima è una cosa seria. L’ideologia psicanalitica tende al perfezionismo asettico e a una liturgia rassicurante e conservatrice. Essa vorrebbe interpretare fenomeni di disagio individuale e collettivo attraverso un cifrario esoterico che copra le contraddizioni che li sottendono, riferendo al passato conflittuale del singolo sofferenze che hanno ben altra origine; spesso attraverso la sbrigativa ricerca di capri espiatori (padre, madre) da cui tutto dipende, e con la proposta conclusiva di una pseudointegrazione sociale.

L’apparente campo di azione della psicanalisi è diventato sempre più vasto, specialmente attraverso l’intensa opera di volgarizzazione persuasiva di alcuni epigoni di Freud. Di psicanalisi parlano i giornali maschili, femminili e neutri. Nello stesso tempo, i risultati terapeutici sono divenuti sempre meno significanti, dato che le istanze sociali aumentano il loro peso repressivo permeando sempre più sottilmente le relazioni interpersonali e familiari. In altri termini, gli psicanalisti sono chiamati a negare, con un intervento tecnico rituale, quei disturbi che la società intensamente alimenta. Essi dovrebbero proporre, affiancandosi alla ideologia che li investe di un potere non indifferente, una armonica pseudointegrazione secondo valori collaudati come funzionali e secondo gerarchie che, rispettate, promettono rassicurazione e aproblematicità.

In tal modo si offrono due diverse prospettive per due diversi tipi di pazienti, in relazione al valore fondamentale: il successo. Un paziente privilegiato, abbiente e psicanalizzato potrà ottenere dalla vita affermazione e successo a spese degli altri. Un paziente non privilegiato, non abbiente e psicanalizzato potrà soffrire di meno lavorando per la affermazione e per il successo di un altro. (Michele Risso).

PSICHIATRIA.

È la scienza che studia le malattie mentali, cercandone la terapia. In realtà, essa esprime l’atteggiamento della società di fronte ai problemi della follia.

Nella storia della psichiatria intesa in questo senso si distinguono tre fasi fondamentali, che corrispondono a tre momenti di crisi e quindi di rinnovamento. Queste tre crisi hanno tutte la stessa origine: si sono determinate ogni volta che la psichiatria si è illusa di aver trovato un metro esatto per misurare la mente dell’uomo e le sue malattie. Ma ogni volta questo metro si è trasformato in un concetto astratto che non teneva più conto della realtà umana dell’oggetto della propria indagine.

Le tre fasi possono essere così schematizzate:

1. Il momento dell’individuazione della malattia mentale come entità separata e separabile dalla delinquenza e dal peccato; momento che si traduce, alla fine del ‘700, nella liberazione dei folli da parte del Pinel e nella separazione del carcere dal manicomio.

2. Il momento dell’individuazione dei meccanismi inconsci dell’uomo e del gioco delle interazioni psichiche; momento che risale al pensiero di Freud il quale, pure avendo sconvolta l’intera struttura della psichiatria, non ha portato mutamenti radicali nelle istituzioni in cui la si mette in pratica.

3. Il momento dell’individuazione dell’uomo come soggetto-oggetto sociale, che riacquista in questa dimensione la totalità della sua funzione con il riconoscimento del gioco delle interazioni sociali.

È quindi evidente che la storia della psichiatria è la storia dell’atteggiamento della scienza (perciò della società di cui la scienza è espressione) nei confronti dell’abnorme. Ed è stata finora una storia di esclusione: in nome di una soggettività dell’uomo ogni volta riscoperta, si tornava a confermare la natura ambigua dell’abnorme; per il quale i giudizi “scientifici” non sono mai stati liberi dall’interferenza di “giudizi di valore”. Ciò significa che ogni volta si tornava ad accomunare, in una nuova istituzione, malattia, vizio, miseria e povertà. Per questo l’analisi storica della malattia mentale e della sua scienza può chiarire il processo attraverso il quale, a cicli successivi, si è liberato il malato dall’istituzione in cui di volta in volta lo si identificava, per rinchiuderlo e rioggettivarlo in una istituzione successiva.

Dopo le varie tappe “liberatorie”, il ciclo sembra ancora una volta compiuto: l’istituzione è tornata al suo carattere segregativo. La psichiatria ha perduto il suo oggetto, che continua faticosamente a costruire e che le continua a sfuggire, e si pone alla ricerca di una nuova istituzione che non sia più limitata fisicamente alla struttura spaziale del “manicomio” (v.).

In epoca di rivoluzione post-industriale, gli scienziati dell’alienazione, consorziatisi con gli studiosi delle scienze sociali, stanno organizzando un pool cibernetico dell’alienazione, a difesa dell’uomo e della sua malattia; andando alla ricerca di un nuovo campo di indagine in cui ritrovare il nuovo oggetto in una istituzione totalizzata che sarà ora l’intera società. (v. anche: “Deviante”).


Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [8]

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8PSICOFARMACI.

Sotto questo nome vengono raggruppate tutte quelle sostanze ad azione psicotropa, che agiscono cioè sullo stato psichico e sul comportamento. L’era farmacologica comincia negli anni ‘50 grazie alla scoperta di alcuni farmaci che, con la loro azione sedativa, avviano per chi sa approfittarne la possibilità di un rapporto prima inesistente col malato. Ma se l’uso del farmaco si limita soltanto a garantire le tranquillità dei reparti, l’unico risultato è un nuovo totale annientamento dei ricoverati attraverso l’immissione massiccia dei farmaci come elemento gravemente istituzionalizzante (v.: “Istituzionalizzazione”). In definitiva si può dire che gli psicofarmaci hanno avuto e hanno tuttora un’azione terapeutica sia sui pazienti che sugli psichiatri, nel senso che costringono questi ultimi a mutare radicalmente il loro atteggiamento pessimistico nei confronti della malattia mentale, e ad assumerne un altro che implichi il riconoscimento del malato come persona ancora esistente, con esigenze personali che vanno oltre le regole dell’istituzione che lo segrega.

L’uso indiscriminato dei farmaci nelle istituzioni ha portato alcuni autori a parlare di una nuova forma di “contenzione” (v.) chimica, nel senso che i farmaci possono appunto essere usati con l’unica finalità, decisamente antiterapeutica, di mantenere la calma nei manicomi.

PSICOSI.

Sono sindromi cliniche che presentano una sintomatologia delirante da ricondurre a disturbi della coscienza o della personalità. Esse sono caratterizzate da un modificato rapporto con la realtà, quando questa realtà significhi non solo il mondo fisico che ci circonda ma anche il mondo psichico interiore del soggetto, il mondo nel quale e per il quale egli vive. Tale modificazione si rivela attraverso idee “sviate” (conseguenza dell’alterata assimilazione dei valori che legano l’Io al suo mondo) e idee “deliranti” (nelle quali il processo che assegna a tutti i fenomeni del mondo il loro significato e il loro grado di realtà viene sviato, sovvertito).

Una volta fatta la diagnosi, datale una veste clinica, applicata un’etichetta (schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, paranoia, eccetera), la definizione di “malato” diventa una realtà totalizzante che investe l’intera personalità dell’individuo. Ogni suo atto, gesto, pensiero rientrano in questa connotazione, come se il mondo in cui e di cui egli vive non continuasse a muoversi, a esistere e a interferire su di lui con la stessa forza ambigua e dissociante del suo pensiero dissociato.

PSICOTERAPIA.

Merita questo nome ogni metodo di trattamento di disturbi psichici o psicosomatici che si serva di mezzi psicologici e che abbia come base il rapporto tra medico e inalato. Alla psicoterapia appartengono quindi il colloquio in senso lato, la suggestione, l’ipnosi, il training autogeno, le terapie del comportamento, la rieducazione psicologica, eccetera. La “psicanalisi” (v.) fa parte della psicoterapia: e si può dire che ne è la componente più importante.

La società che determina i disagi, li traduce in bisogni e mette sul mercato i prodotti atti a soddisfarli, richiede sempre di più l’opera di psicoterapeuti. Tale opera è necessaria e insostituibile ma offre risultati modesti poiché le cause di disagio e di sofferenza rimangono immutate e tendono a intensificarsi. Dato l’aumento delle richieste, la psicoterapia è costretta a uscire dal rapporto duale medico-paziente e a interessarsi di dinamiche e cure familiari e di gruppo. Sembra che tali interventi diminuiscano gli attriti all’interno delle famiglie e dei gruppi e aumentino l’efficienza e la produttività dei soggetti che vi si sottopongono. Alcuni, dopo terapie di gruppo, si sposano; altri, dopo le terapie familiari, divorziano.

Si avvicinano i tempi delle grandi terapie di massa. La più moderna di queste è il gioco del calcio o, meglio, il tifo calcistico. Esso fa soffrire e godere le masse per avvenimenti che non le riguardano, fa dimenticare avvenimenti che invece le riguardano molto, permette di localizzare il nemico all’esterno (l’arbitro) e di identificarsi con un singolo (Pautasso, sei tutti noi) o con un gruppo (daje Lupi!). Per la psicanalisi il goal potrebbe simboleggiare la scena originaria dell’amplesso dei genitori ed essere vissuto o con orgasmo (identificazione con il supposto aggressore) o con sofferenza (identificazione con la supposta vittima). Tale psicoterapia di massa fa in modo che, dopo la catarsi domenicale, tutti corrano a casa e aprano il televisore per rivedere la partita e rivivere ancora la scena originaria (al rallentatore).

Il futuro della psicoterapia è di estrema importanza per la nostra vita. Col passare del tempo, infatti, da un lato le malattie mentali saranno assolutamente proibite, dall’altro diventeremo tutti “matti” (v.) senza accorgercene. Il futuro compito della psicoterapia sarà quello di sostituire il lavoro umano con la “ergoterapia” (v.), il tempo libero con la ludoterapia e l’amore con una sana attività erotica senza inibizioni. (Michele Risso).

PSICOFARMACI.

Sotto questo nome vengono raggruppate tutte quelle sostanze ad azione psicotropa, che agiscono cioè sullo stato psichico e sul comportamento. L’era farmacologica comincia negli anni ‘50 grazie alla scoperta di alcuni farmaci che, con la loro azione sedativa, avviano per chi sa approfittarne la possibilità di un rapporto prima inesistente col malato. Ma se l’uso del farmaco si limita soltanto a garantire le tranquillità dei reparti, l’unico risultato è un nuovo totale annientamento dei ricoverati attraverso l’immissione massiccia dei farmaci come elemento gravemente istituzionalizzante (v.: “Istituzionalizzazione”). In definitiva si può dire che gli psicofarmaci hanno avuto e hanno tuttora un’azione terapeutica sia sui pazienti che sugli psichiatri, nel senso che costringono questi ultimi a mutare radicalmente il loro atteggiamento pessimistico nei confronti della malattia mentale, e ad assumerne un altro che implichi il riconoscimento del malato come persona ancora esistente, con esigenze personali che vanno oltre le regole dell’istituzione che lo segrega.

L’uso indiscriminato dei farmaci nelle istituzioni ha portato alcuni autori a parlare di una nuova forma di “contenzione” (v.) chimica, nel senso che i farmaci possono appunto essere usati con l’unica finalità, decisamente antiterapeutica, di mantenere la calma nei manicomi.

PSICOSI.

Sono sindromi cliniche che presentano una sintomatologia delirante da ricondurre a disturbi della coscienza o della personalità. Esse sono caratterizzate da un modificato rapporto con la realtà, quando questa realtà significhi non solo il mondo fisico che ci circonda ma anche il mondo psichico interiore del soggetto, il mondo nel quale e per il quale egli vive. Tale modificazione si rivela attraverso idee “sviate” (conseguenza dell’alterata assimilazione dei valori che legano l’Io al suo mondo) e idee “deliranti” (nelle quali il processo che assegna a tutti i fenomeni del mondo il loro significato e il loro grado di realtà viene sviato, sovvertito).

Una volta fatta la diagnosi, datale una veste clinica, applicata un’etichetta (schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, paranoia, eccetera), la definizione di “malato” diventa una realtà totalizzante che investe l’intera personalità dell’individuo. Ogni suo atto, gesto, pensiero rientrano in questa connotazione, come se il mondo in cui e di cui egli vive non continuasse a muoversi, a esistere e a interferire su di lui con la stessa forza ambigua e dissociante del suo pensiero dissociato.

PSICOTERAPIA.

Merita questo nome ogni metodo di trattamento di disturbi psichici o psicosomatici che si serva di mezzi psicologici e che abbia come base il rapporto tra medico e inalato. Alla psicoterapia appartengono quindi il colloquio in senso lato, la suggestione, l’ipnosi, il training autogeno, le terapie del comportamento, la rieducazione psicologica, eccetera. La “psicanalisi” (v.) fa parte della psicoterapia: e si può dire che ne è la componente più importante.

La società che determina i disagi, li traduce in bisogni e mette sul mercato i prodotti atti a soddisfarli, richiede sempre di più l’opera di psicoterapeuti. Tale opera è necessaria e insostituibile ma offre risultati modesti poiché le cause di disagio e di sofferenza rimangono immutate e tendono a intensificarsi. Dato l’aumento delle richieste, la psicoterapia è costretta a uscire dal rapporto duale medico-paziente e a interessarsi di dinamiche e cure familiari e di gruppo. Sembra che tali interventi diminuiscano gli attriti all’interno delle famiglie e dei gruppi e aumentino l’efficienza e la produttività dei soggetti che vi si sottopongono. Alcuni, dopo terapie di gruppo, si sposano; altri, dopo le terapie familiari, divorziano.

Si avvicinano i tempi delle grandi terapie di massa. La più moderna di queste è il gioco del calcio o, meglio, il tifo calcistico. Esso fa soffrire e godere le masse per avvenimenti che non le riguardano, fa dimenticare avvenimenti che invece le riguardano molto, permette di localizzare il nemico all’esterno (l’arbitro) e di identificarsi con un singolo (Pautasso, sei tutti noi) o con un gruppo (daje Lupi!). Per la psicanalisi il goal potrebbe simboleggiare la scena originaria dell’amplesso dei genitori ed essere vissuto o con orgasmo (identificazione con il supposto aggressore) o con sofferenza (identificazione con la supposta vittima). Tale psicoterapia di massa fa in modo che, dopo la catarsi domenicale, tutti corrano a casa e aprano il televisore per rivedere la partita e rivivere ancora la scena originaria (al rallentatore).

Il futuro della psicoterapia è di estrema importanza per la nostra vita. Col passare del tempo, infatti, da un lato le malattie mentali saranno assolutamente proibite, dall’altro diventeremo tutti “matti” (v.) senza accorgercene. Il futuro compito della psicoterapia sarà quello di sostituire il lavoro umano con la “ergoterapia” (v.), il tempo libero con la ludoterapia e l’amore con una sana attività erotica senza inibizioni. (Michele Risso).

PSICOFARMACI.

Sotto questo nome vengono raggruppate tutte quelle sostanze ad azione psicotropa, che agiscono cioè sullo stato psichico e sul comportamento. L’era farmacologica comincia negli anni ‘50 grazie alla scoperta di alcuni farmaci che, con la loro azione sedativa, avviano per chi sa approfittarne la possibilità di un rapporto prima inesistente col malato. Ma se l’uso del farmaco si limita soltanto a garantire le tranquillità dei reparti, l’unico risultato è un nuovo totale annientamento dei ricoverati attraverso l’immissione massiccia dei farmaci come elemento gravemente istituzionalizzante (v.: “Istituzionalizzazione”). In definitiva si può dire che gli psicofarmaci hanno avuto e hanno tuttora un’azione terapeutica sia sui pazienti che sugli psichiatri, nel senso che costringono questi ultimi a mutare radicalmente il loro atteggiamento pessimistico nei confronti della malattia mentale, e ad assumerne un altro che implichi il riconoscimento del malato come persona ancora esistente, con esigenze personali che vanno oltre le regole dell’istituzione che lo segrega.

L’uso indiscriminato dei farmaci nelle istituzioni ha portato alcuni autori a parlare di una nuova forma di “contenzione” (v.) chimica, nel senso che i farmaci possono appunto essere usati con l’unica finalità, decisamente antiterapeutica, di mantenere la calma nei manicomi.

PSICOSI.

Sono sindromi cliniche che presentano una sintomatologia delirante da ricondurre a disturbi della coscienza o della personalità. Esse sono caratterizzate da un modificato rapporto con la realtà, quando questa realtà significhi non solo il mondo fisico che ci circonda ma anche il mondo psichico interiore del soggetto, il mondo nel quale e per il quale egli vive. Tale modificazione si rivela attraverso idee “sviate” (conseguenza dell’alterata assimilazione dei valori che legano l’Io al suo mondo) e idee “deliranti” (nelle quali il processo che assegna a tutti i fenomeni del mondo il loro significato e il loro grado di realtà viene sviato, sovvertito).

Una volta fatta la diagnosi, datale una veste clinica, applicata un’etichetta (schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, paranoia, eccetera), la definizione di “malato” diventa una realtà totalizzante che investe l’intera personalità dell’individuo. Ogni suo atto, gesto, pensiero rientrano in questa connotazione, come se il mondo in cui e di cui egli vive non continuasse a muoversi, a esistere e a interferire su di lui con la stessa forza ambigua e dissociante del suo pensiero dissociato.

PSICOTERAPIA.

Merita questo nome ogni metodo di trattamento di disturbi psichici o psicosomatici che si serva di mezzi psicologici e che abbia come base il rapporto tra medico e inalato. Alla psicoterapia appartengono quindi il colloquio in senso lato, la suggestione, l’ipnosi, il training autogeno, le terapie del comportamento, la rieducazione psicologica, eccetera. La “psicanalisi” (v.) fa parte della psicoterapia: e si può dire che ne è la componente più importante.

La società che determina i disagi, li traduce in bisogni e mette sul mercato i prodotti atti a soddisfarli, richiede sempre di più l’opera di psicoterapeuti. Tale opera è necessaria e insostituibile ma offre risultati modesti poiché le cause di disagio e di sofferenza rimangono immutate e tendono a intensificarsi. Dato l’aumento delle richieste, la psicoterapia è costretta a uscire dal rapporto duale medico-paziente e a interessarsi di dinamiche e cure familiari e di gruppo. Sembra che tali interventi diminuiscano gli attriti all’interno delle famiglie e dei gruppi e aumentino l’efficienza e la produttività dei soggetti che vi si sottopongono. Alcuni, dopo terapie di gruppo, si sposano; altri, dopo le terapie familiari, divorziano.

Si avvicinano i tempi delle grandi terapie di massa. La più moderna di queste è il gioco del calcio o, meglio, il tifo calcistico. Esso fa soffrire e godere le masse per avvenimenti che non le riguardano, fa dimenticare avvenimenti che invece le riguardano molto, permette di localizzare il nemico all’esterno (l’arbitro) e di identificarsi con un singolo (Pautasso, sei tutti noi) o con un gruppo (daje Lupi!). Per la psicanalisi il goal potrebbe simboleggiare la scena originaria dell’amplesso dei genitori ed essere vissuto o con orgasmo (identificazione con il supposto aggressore) o con sofferenza (identificazione con la supposta vittima). Tale psicoterapia di massa fa in modo che, dopo la catarsi domenicale, tutti corrano a casa e aprano il televisore per rivedere la partita e rivivere ancora la scena originaria (al rallentatore).

Il futuro della psicoterapia è di estrema importanza per la nostra vita. Col passare del tempo, infatti, da un lato le malattie mentali saranno assolutamente proibite, dall’altro diventeremo tutti “matti” (v.) senza accorgercene. Il futuro compito della psicoterapia sarà quello di sostituire il lavoro umano con la “ergoterapia” (v.), il tempo libero con la ludoterapia e l’amore con una sana attività erotica senza inibizioni. (Michele Risso).

Non era mai entrato in un manicomio

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basagliaIl 29 Agosto 1980 moriva Franco Basaglia

«Non era mai entrato in un manicomio. Giovanni Belloni, direttore della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Padova lo aveva mandato a Gorizia, ai confini dell’impero… Tutti in clinica lo chiamano “il filosofo” per il suo essere sempre immerso nelle letture di testi che in un reparto neurologico non si erano mai visti. Era interessato insieme ad altri giovani alla ricerca sulla possibilità di comprendere gli “schizofrenici”. Cercavano una strada per riportare nel campo della malattia mentale, della psichiatria fredda e distante, qualcosa che avesse a che vedere con l’umano, con la persona, col soggetto.

Basaglia entra nel manicomio di Gorizia e non può non vedere un mondo sospeso, grigio, freddo. Un luogo di violenza, la violenza del manicomio che comincia a toccare con mano. Vede le porte blindate, vede i letti a rete, le “gabbie”, vede i camerini d’isolamento. Vede gli internati legati al letto, vede uomini e donne che si aggirano, nelle loro goffe divise grigie, nei cameroni, nel tempo servo e senza fine.  Vede gli internati distesi per terra sul selciato dei cortili circondati da alte reti. Vede le divise, i camici bianchi di medici e infermiere. Ride al ricordo delle cuffiette inamidate delle infermiere. Basaglia vede ancora qualcosa che altri non vedono, non possono vedere: l’assenza. Dirà che in quel luogo ci sono 600 corpi, «600 corpi infagottati in tela grigia e rapati. Ma non c’è più nessuno». E’ un impatto terribile. Vuole andare via. Sarà proprio quella filosofia che lo appassiona che spinge il suo sguardo a cercare un uomo, una donna, una presenza umana, e lo aiuta a restare. 600 internati…e non c’è più nessuno. Uomini e donne sono diventati invisibili. Cosa mai potrà fare?   “Da direttore – dice – non potrò che diventare complice di tanta violenza”. Diventa più forte il desiderio di fuggire. Non lo fa. Non lo fa, per nostra fortuna! Gli viene incontro quella filosofia che lo ha fatto mandare via da Padova. Mettendo tra parentesi la malattia, mettendo a lato le parole “pulite e distanti” della psichiatria, allontanando l’immagine dell’internato e dell’internamento, rimosse la diagnosi e la malattia, come sollevando una grossa pietra scopre segni di vita brulicante. Emergono così come da un terreno melmoso nomi, cognomi, persone. Persone, voci, storie. Basaglia dirà che da quel momento diventa ancora più terribile restare lì, la vergogna è ormai insopportabile.

Adesso, è arrivato a lavorare un giovane assistente, Antonio Slavich. Hanno in mano le chiavi che tengono chiuse le porte e davanti ai loro occhi, dietro quelle porte non ci sono più oggetti, povere cose, ma persone. Diventa di giorno in giorno più urgente fare qualcosa per togliersi di dosso la vergogna che sentono tutte le sere, più acuta, quando tornano a casa. Non possono restare fermi. Decide di aprire le porte dei reparti. È un gesto di rottura, naturalmente. Le persone cominciano a muoversi, a circolare, a incontrarsi timidamente gli uni con gli altri. È un inizio. Dietro quelle porte coprono cittadini privati della loro cittadinanza. Arriveranno a diventare cittadini anni dopo, con la legge 180, per strade tortuose e sempre in salita. Scopre finalmente le persone, persone che sono state ridotte all’indegnità, al niente del manicomio, a corpi, a divise. E allora toccherà con mano l’urgenza di riconoscere l’altro. È l’etica dell’incontro che lo accompagnerà per il resto della sua storia. E poi ancora i soggetti, gli individui, non più gli schizofrenici, i malati di mente, ma nomi e cognomi singolari, singolarissimi: amori, passioni, fallimenti, storie, dolori, ferite sanguinanti. Da questo momento non si potrà che ascoltare, incontrare, parlare.  Tutta questa storia cominci da qui»

Brano tratto dalla conversazione teatrale (tra parentesi). La vera storia di una impensabile liberazione di Massimo Cirri, Peppe Dell’Acqua, Erika Rossi.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [9]

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RAPTUS.

Termine con il quale, in gergo scientifico recuperato anche dal linguaggio comune, si intende designare un atto improvviso e imprevedibile che esce dalla “norma” (v.) in senso antisociale. Di solito il raptus ha un carattere incomprensibile se preso come fenomeno a sé, mentre spesso risulta accessibile se restituito al contesto in cui si è manifestato. Con la parola raptus le istituzioni preposte a conservare l’ordine costituito tendono a codificare in termini di malattia situazioni che altrimenti metterebbero in discussione le norme e i valori su cui quell’ordine si fonda.

REINSERIMENTO SOCIALE.

“Soluzione finale” della terapia psichiatrica che si prefigge di adattare l’irrecuperabile all’istituzione manicomiale (istituzionalizzazione interna), e il recuperabile alle istituzioni sociali (istituzionalizzazione esterna).

REPARTI APERTI.

Reparti pseudo-manicomiali non soggetti alla “legge” (v.) sugli alienati. Pur essendo inseriti nello stesso complesso ospedaliero, sono rigidamente divisi dai reparti manicomiali e non comportano la “stigmatizzazione” (v.) tipica dell’internamento in ospedale psichiatrico. Vi hanno accesso i malati paganti o che dispongono di mutue privilegiate. Come nelle “case di cura” (v.), quando finiscono i soldi o la mutua non paga più, i degenti passano dai reparti aperti a quelli manicomiali e diventano, da “volontari”, “coatti”. Così, da un giorno all’altro, e per ragioni estranee alla malattia, uomini liberi vengono dichiarati «pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo», restando prigionieri dell’istituzione manicomiale.

I reparti aperti consentono anche il percorso inverso: cioè internati manicomiali possono passare, sempre per gli stessi motivi (una mutua disposta a pagare o il rinvenimento di fondi da parte del ricoverato), dallo status di malati coatti a quello di pazienti liberi.

Se da un lato l’esistenza dei reparti aperti consente a molti malati di recente ingresso di evitare la stigmatizzazione del manicomio (ma sempre su basi discriminanti), dall’altro consente anche ai medici di usufruire delle quote capitarie.

S

SOCIALE, PSICHIATRIA.

Con il termine “psichiatria sociale” si intende ampliare il campo della psichiatria dal terreno strettamente medico-scientifico a quello sociologico. L’immissione del sociale in psichiatria segnerebbe l‘inizio di un nuovo tipo di interpretazione della malattia mentale, in cui viene messo l’accento sui fattori sociali presenti nella determinazione e nella cristallizzazione della malattia. In realtà la psichiatria è sempre stata sociale, nel senso che se teoricamente ci si occupava della malattia in quanto stato morboso, praticamente nelle istituzioni in cui si esercita la psichiatria se ne sono sempre presi in considerazione soltanto gli aspetti sociali, come ad esempio la “pericolosità” (v.), l’imprevedibilità e l’oscenità. La nuova ondata sociale della psichiatria non è dunque che il capovolgimento positivo di un’ideologia, vissuta prima in negativo. Ma a questo punto occorre conoscere la natura delle forze sociali che premono sul malato, reale e potenziale. Esse non si limitano all’influenza dell’ambiente familiare e sociale sul malato e sulla malattia ma includono i valori del gruppo sociale in cui la malattia si manifesta e soprattutto i limiti di “norma” (v.) definiti da quel gruppo. Non si può infatti tenere conto soltanto dell’aspetto psicodinamico del sociale (come sembrano intendere i fondatori di questa nuova disciplina), tralasciando il peso dei rapporti di produzione in cui il malato è incluso, dato che proprio questo insieme di rapporti stabilisce di volta in volta i limiti di norma in base ai quali si etichettano gli stati morbosi.

SOCIOTERAPIA.

Termine generico che comprende anche l’ergoterapia, la ludoterapia, eccetera. Teoricamente, un insieme di tecniche basate su interazioni di gruppo. Si tratterebbe cioè di terapie sociali miranti a risocializzare il malato mentale attraverso la sua partecipazione, più o meno sollecitata, a una serie di attività. Il paziente, abbandonato prima a se stesso come incurabile, viene coinvolto in attività lavorative o ricreative attraverso le quali si presume possa ricostruire la propria socialità. Praticamente, l’ergoterapia si traduce in uno sfruttamento dei malati che, con questo alibi, vengono chiamati a tenere in vita l’istituzione da cui sono segregati. Ciò avviene di solito facendoli lavorare ai vari servizi generali dell’istituto: il che significa per loro partecipare attivamente alla propria distruzione. In cambio ricevono compensi settimanali che non superano, nei migliori dei casi, qualche centinaio di lire.

Per quanto riguarda invece la ludoterapia, nel momento in cui essa viene rigidamente istituzionalizzata, anziché diventare uno stimolo all’interazione sociale si trasforma nella ripetizione stereotipata di un gioco cui i malati partecipano come fantocci nelle mani del terapeuta.

STIGMATIZZAZIONE.

«I greci, che sembra fossero molto versati nell’uso dei mezzi di comunicazione visiva, coniarono la parola “stigma” per indicare quei segni fisici che caratterizzano quel tanto di insolito e di criticabile della condizione morale di chi li possiede. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo, e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato specialmente nei luoghi pubblici». Così Erving Goffman definisce la parola.

Il concetto espresso dal termine stigma continua ancora a servire da strumento per la conferma di una diversità su cui si fondano le scienze umane. Continua cioè il processo di caratterizzazione di alcuni individui in base a segni distintivi particolari i quali, contemporaneamente, sanciscono l‘appartenenza a una categoria definita e il giudizio negativo sulla categoria stessa.

Mosto (il succo delle storie)

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mostoOgni storia è un piedistallo che ci permette di spostare più in alto il punto di vista e osservare il mondo oltre il confine delle cose a noi più prossime. Spingersi un po’ più in su per guardare un po’ più in là, raggiungere cime che non conoscevamo per allargare il nostro orizzonte. La terza edizione di Mosto, il succo delle storie, è dedicata alle Grandi Altezze, che ci permettono di sollevare cuori e sguardo.

In occasione di Mosto (il succo delle storie), rassegna che incrocia le arti e i mestieri della narrazione e che, attraverso l’esperienza e le professionalità di romanzieri, narratori, attori e registi, giornalisti e autori, racconta la forza e la semplicità dell’arte più antica e conosciuta di sempre, quella di raccontare storie, oggi, venerdì 6 settembre 2019, alle 20.30  andrà in scena (tra parentesi) la vera storia di un’impensabile liberazione, spettacolo teatrale di Massimo Cirri e Peppe Dell’Acqua. Gorizia, 16 novembre 1961. Un medico di 37 anni entra nel manicomio di Gorizia. Ci sono viali alberati, muri, reparti, e porte chiuse. Lui si chiama Franco Basaglia: sarà il nuovo Direttore. Quello che vede lo disorienta e lo sconcerta. Di fronte a tanta violenza vorrebbe scappare via. Per restare, non può che scommettere il suo potere di direttore per cambiare ogni cosa. Cirri e Dell’Acqua raccontano un po’ di questa Storia e dei suoi mille intrecci e delle tante storie minime di uomini e di donne che l’internamento hanno vissuto. Una storia che non è finita, che non potrà mai finire.

L’evento si inserisce in una tre giorni d’estate in una valle ai piedi dell’Appennino in cui il mestiere di raccontare, ascoltare e condividere le storie si mostra sia nelle sue componenti più conviviali come il racconto orale, la tavola e il buon bere, sia in quelle più raffinate: la messa in scena, la scrittura e la musica.

Tutti gli eventi della rassegna sono ad ingresso libero e su prenotazione.

Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti [10]

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TERAPIE PSICHIATRICHE.

Sono di due tipi: terapie biologiche e “psicoterapia” (v.); le prime direttamente legate all’ideologia medica e a un‘interpretazione organicistica della malattia, la seconda direttamente derivata dalle concezioni psicogenetiche. A queste si è aggiunta ora la terapia sociale (v. “Socioterapia”) come conseguenza di una interpretazione sociogenetica dei disturbi mentali. In tutti e tre i casi si tende a enfatizzare di volta in volta un fattore diverso come responsabile della malattia mentale: il corpo (soma), la psiche o la società. Come se si trattasse di tre virus diversi che devono essere debellati con tecniche e strumenti diversi. Ma se l’uomo è corpo, psiche ed essere sociale, nessuna di queste interpretazioni presa a sé può rispondere al problema della malattia mentale e ogni risposta settoriale non può che servire a tranquillizzare il tecnico di fronte a un problema che non sa risolvere. Ciascuno interpreta la malattia a suo modo e agisce in conformità, costruendo statistiche sempre più precise per confermare la validità delle sue ipotesi.

In realtà, nel caso della malattia mentale ogni metodo terapeutico che faciliti il rapporto col paziente può essere positivo nel senso che facilita la comprensione del malato e della sua malattia. Ma ogni strumento terapeutico può anche essere negativo. Nel momento in cui nasce come ipotesi e tenta di rispondere direttamente ai bisogni del malato tenendone presente la soggettività, la terapia riesce a conservare un minimo di reciprocità nel rapporto tra medico e paziente; ma quando codifica e cristallizza i propri metodi come adatti a ogni singolo caso, non è più la terapia ad adeguarsi al caso ma il caso alla terapia. L’antiterapeuticità della terapia nasce nel momento in cui essa, attraverso l’imposizione e la violenza, impedisce il rapporto medico-paziente: quando cioè serve al medico come l’unica risposta sicura e possibile; e non al malato.

TEST MENTALI.

Metodi di esplorazione della psiche il cui scopo è, secondo una definizione tecnica, quello di «differenziare gli individui fra di loro». I test si dividono in due grandi categorie: di efficienza intellettiva e proiettivi. I primi separano gli “intelligenti” dai “cretini” (v: “Imbecille”) e assolvono quindi la propria funzione discriminante in quella classificazione fra superdotati, normodotati e ipodotati che serve ad alimentare le classi scolastiche differenziali. I secondi, detti anche test della personalità, pretendono invece di rendere obiettivamente evidenti quei settori della psiche che sfuggono al colloquio clinico, facilitandone l’esteriorizzazione attraverso le interpretazioni che il soggetto dà degli stimoli ambigui dei test. Uno fra i più noti è quello delle macchie di Rorschach.

TRENTATRE’.

(v. “Diagnosi”).

V

VORTICE DEGLI INGANNI.

Espressione proposta da Erwing Goffman (“Asylums”, Einaudi l968) per riassumere l’insieme di contingenze che portano abitualmente al ricovero in “manicomio” (v.). Si tratta per lo più di “denunce”: i genitori che non tollerano le ribellioni di un figlio, il datore di lavoro che si lamenta per qualche stranezza del lavoratore, l’istituto che non può trattenere un minorenne per raggiunti limiti di età e che fornisce un’ambigua diagnosi psichiatrica onde facilitarne il passaggio a un’altra istituzione pronta a accoglierlo, una famiglia che non accetta la relazione di una ragazza con un uomo sposato. Simili denunce creano attorno a quello che si può definire il malato potenziale un clima di sospetto, inganno, insicurezza e ambiguità tale da indurlo a instaurare un rapporto dissociato con la realtà. Il vortice degli inganni inghiotte così il malato designato lo porta al ricovero in manicomio dove il suo comportamento, fino a quel momento contraddittorio e ancora suscettibile di mutamenti, sarà congelato nella defìnizione della malattia.

VIOLENZA ISTITUZIONILIZZATA.

Termine con cui si usa riferirsi a una violenza esercitata sul singolo o sul gruppo allo scopo di mantenere, attraverso l’adeguamento alle regole specifiche e uno specifico settore, l’ordine costituito generale. La violenza istituzionalizzata è quella che si esercita in un‘istituzione (scuola, caserma, carcere, manicomio eccetera) per mantenere, attraverso la serializzazione degli individui in essa contenuti, la funzionalità dell’istituzione al sistema generale di cui è espressione. Nella scuola, ad esempio, l’autoritarismo e la violenza hanno un doppio significato: sono il segno dell’impotenza del corpo insegnante a educare i giovani al la critica di una realtà chi i giovani stessi devono contribuire a modificare; e, insieme, la finalità dell‘istituzione scolastica che, all’interno del nostro sistema sociale tende proprio a vietare ai giovani la capacità di critica della realtà, perché essa resti immutata. Così il manicomio oltre a essere espressione dell’impotenza e del fallimento della psichiatria di fronte al problema del malato mentale, tende insieme ad assolvere, attraverso l’imposizione di regole violente, distruttive e antiterapeutiche, la sua funzione di luogo di segregazione e di eliminazione di ciò che contiene, in nome della tutela e della difesa di una norma che deve restare indiscussa specificità di ogni singola scienza servirebbe quindi ad avallare, sul piano tecnico, una violenza istituzionale che non troverebbe alcuna giustificazione sul piano morale e umano.

Che cosa è oggi la nostra psichiatria?

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contenzioneDi Donato Morena

Il lutto porta sempre con sé il bisogno di un’elaborazione, necessaria nella sua funzione di restituzione di senso, di un senso, per chi rimane. La morte delle persone che ci vengono affidate, nel proprio corpo e nella propria anima, apre inoltre ferite che lasciano dubbi profondi sulla direzione dei nostri passi.

Negli ultimi giorni tanti e significativi sono stati gli interventi che hanno dato voce al dolore che si prova di fronte alla morte di una ragazza ventenne. Di nuovo una morte che riempie d’angoscia.

Ne è nata una discussione (purtroppo a tratti condotta con venature di acredine poco rassicuranti per chi assiste con occhi di speranza al nostro operato), ultima di una serie, essendone occorse altre, in questi anni, all’indomani di altre tragedie (ogni morte di un paziente lo è – così come non possiamo dimenticare le morti di operatori di salute – squarci nel velo dell’esistenza improblematica).

Ad ogni evento si è cercato di dare un segno postumo, cercando cause, rimedi, riorganizzazioni, affinché ciò che è avvenuto non si ripetesse.

Alle persone decedute in conseguenza di assurde contenzioni meccaniche si è tentato di restituire la dignità strappata attraverso protocolli che ponessero limiti a tali pratiche. Dopo i colpi mortali di arma da fuoco contro pazienti agitati o in fuga, è stata valutata l’introduzione di pistole elettriche, i Taser, in uso da tempo negli Stati Uniti. Alle morti di due operatrici di salute mentale per mano di pazienti, si è discusso delle strategie per ottenere maggiore protezione nei luoghi di lavoro. Maggiore sorveglianza e un richiamo alla custodia di cui gli operatori sono ritenuti garanti sono stati invocati dopo le morti volontarie in luoghi di cura e riabilitazione. Successivamente a violenze compiute da pazienti in fase di scompenso psicopatologico, è stata ribadita la posizione di garanzia degli operatori, chiamati a controllare la continuità delle cure, soprattutto di tipo farmacologico.

Con questo breve riassunto delle vicende recenti, di eventi che si sono inscritti nelle vite di operatori e pazienti inestricabilmente legate, vorrei entrare nel merito non di ognuna delle soluzioni trovate quanto pensare all’insieme delle stesse e al futuro che si sta delineando per la nostra psichiatria.

Nelle discussioni sulle pratiche da attuare, nate dopo questi eventi, viene infatti spesso richiamata la strada che conduce ad azioni dalla comprovata efficacia scientifica, con la messa all’indice di soluzioni considerate ideologiche. È stata riaffermata con forza tale posizione dai vertici della psichiatria italiana: la psichiatria appartiene all’alveo delle scienza. Tale posizione, d’altra parte, è assolutamente legittima, ma allo stesso modo limitativa, se considerata in modo esclusivo ed ermetico.

Una visione d’insieme della storia della psichiatria, soprattutto di quella italiana, non può ignorare come i maggiori sviluppi positivi siano nati proprio allorché le teorie e le prassi si siano aperte ad altri mondi e ad altre discipline, psicologiche, antropologiche, sociali, filosofiche, artistiche.

È stato un merito decisivo, quello di aver saputo coltivare autocritica verso le proprie teorie e le proprie prassi, lasciando che queste ultime venissero arricchite da altre esperienze e altre visioni.

Dalla capacità di far buon uso della propria crisi, da intendere nella nobile apertura al dialogo e alla trasformazione, la psichiatria ha saputo trarre per prima quell’energia trasformativa che solo con molto ritardo è stata assimilata da altre branche della medicina.

Dalla fusione calda di diversi ambiti, la psichiatria, in particolare quella italiana (ancora), ha saputo generare un orizzonte più ampio: quell’idea di salute mentale che guarda a tutti, non solo a chi rientra nelle definizioni diagnostiche dei manuali psichiatrici.

Tanti sono stati i successi ottenuti nel nostro Paese nei decenni scorsi. Da anni tuttavia sembra che questi traguardi non siano più degni della valorizzazione che meriterebbero.

I movimenti di trasformazione hanno portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari negli anni recenti. Ma, nonostante lo straordinario impegno dei propri protagonisti, questi movimenti sembrano sempre meno accompagnati da nuove forze propulsive.

Forse, più forte appare l’attrazione di miraggi scientisti. Col rischio di un distacco dalla propria storia, e di una frattura, mi viene da dire, dal mondo reale.

Lo noto dagli sguardi stravolti di chi si trova di fronte a situazioni complesse che necessitano di risposte altrettanto complesse, a cui troppo spesso non si è abituati.

In questo contesto, parlare sic et simpliciter di “efficacia” nella ricerca di cambiamenti appiattisce e svuota di senso il metodo culturale e umano con cui i problemi della psichiatria andrebbero affrontati.

Mi viene in mente, ad esempio, l’abisso incolmabile (eppure da colmare) tra esperienze di stati di acuzie gestiti senza o con la contenzione meccanica; tra le ore trascorse a cercare un contatto che renda possibile una terapia, questa sì, efficace nel riportare la vita sui binari da cui è deragliata e i pochi attimi con cui con forza si ottiene una contenzione farmacologica. La sola scienza statistica non è capace di far emergere le profonde divergenze di tali prassi. Quali dati numerici nei nostri database elettronici potrebbero darne testimonianza? Ancora, quali differenze tra il valore numerico assegnato all’inizio di una terapia sotto minaccia di TSO rispetto a quello che si raggiunge dopo ore di dialogo? E tra la riduzione dei revolving door, delle ri-ospedalizzazioni dei pazienti, di un servizio attento solo alla continuità farmacologica, rispetto a quella raggiunta da un servizio che si prende cura di altri bisogni dei suoi utenti?

Certo, ci sono mille altre variabili con cui la psicometria permette di quantificare gli aspetti umani, la qualità di vita, il benessere, lo stato di salute fisica, l’empowerment, e altre categorie della recovery, della ripresa. Ma per quanto si possa disarticolare la vita e le relazioni, nessun dato può restituire l’infinito dispiegarsi dei rapporti, delle parole, dei gesti, degli sguardi, dei silenzi. Elementi spesso fragili e rarefatti, a volte solo intuitivi, ma straordinariamente salvifici.

Su questo terreno, su queste intuizioni, certamente non su preventive analisi statistiche (arrivate comunque a supporto in un secondo tempo, a testimoniare il valore dell’ottimismo della pratica) è nato il rivoluzionario progetto di chiusura degli Ospedali Psichiatrici, prima; ieri degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Dalla necessità etica di restituire il diritto di cittadinanza ai pazienti, anche autori di reato, è sorta la spinta per questi cambiamenti; non su aspetti medici, che d’altronde non sono i soli a caratterizzare la figura e l’operato dei medici e degli operatori.

Se così non fosse, le esperienze di trasformazione dei primi Ospedali Psichiatrici a dispetto dello status perdurante degli altri non avrebbe avuto alcuna significanza. Se non quella di dover rialzare mura, recinti e barriere.

Sono elementi, questi che caratterizzano la storia della psichiatria, della nostra psichiatria, nel suo rinnovarsi e saper rigettare le proprie componenti deteriori, che dovrebbero essere apprezzati, ricordati, continuamente insegnati nella formazione dei nuovi operatori, tenuti sempre a mente nelle prospettive future e, infine, valorizzati come tratti di merito rispetto ad altre discipline mediche. Sono, infatti, elementi degni di diffusione nel loro potenziale trasformativo.

Penso ai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, reparti ospedalieri che nelle speranze di Franco Basaglia avrebbero dovuto contaminare gli altri, diffondere il valore della tutela della salute al di là di quello della guarigione del corpo.

In questi ultimi anni assistiamo, invece, a un contagio di direzione inversa. Anche nei reparti di psichiatria i tempi e i linguaggi dell’ospedale si sono imposti sulle attese silenziose e sulle parole del cuore; i ritmi dell’azienda hanno velocizzato quelli fisiologici delle persone; il personale è sempre più precario nei numeri e nella capacità di accoglienza e sostegno; la collaborazione tra le varie discipline è sempre più caratterizzata da asperità e da rigidi interessi di protezione legalistica.

Tutto ciò, con quali risultati nella sanità? “È come essere in guerra”, ha dichiarato una chirurga aggredita nei giorni scorsi in un pronto soccorso della Campania. Ed è una sensazione che sempre più si sta facendo strada anche nella mente di chi lavora in psichiatria. Una psichiatria d’altra parte in posizione sempre più marginale e subalterna: di nuovo considerata porto franco in cui confinare la devianza. Ci si sente operatori di supporto, chiamati in causa per risolvere gli intoppi creati da agitati, intossicati, devianti, violenti, pericolosi a sé e agli altri: insomma dall’uomo da escludere. Sempre più esposti e con minor possibilità di dare risposta.

Questo per gli operatori, mentre tra i pazienti chi può permetterselo si tiene alla larga dai servizi pubblici.

Eppure, la psichiatria ha avuto l’occasione di diventare un faro per le altre discipline mediche, avendo dimostrato quanto sia importante rendere i luoghi di cura più vicini alle persone, addirittura entrando nelle case, seguendo i pazienti anche in modo proattivo, per dare risposta al disagio prima che si trasformi in urgenza.

Il filo che ha condotto a tali cambiamenti è nato, come detto, prima ancora che da sperimentazioni, da intuizioni umanistiche e pratiche. A cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare. Non è possibile infatti rispondere alle grandi questioni che ci troviamo di fronte col solo metodo dell’efficacia scientifica. Non sarebbe solo una soluzione consolatoria quanto parziale e inadatta?

Il teologo Karl Barth affermava che “quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli” e potremmo forse estendere questa riflessione all’idolatria verso il metodo scientifico che nei paesi dove è stata attuata non pare aver dato risultati positivi. A giudicare dagli Stati Uniti e dalla situazione della salute mentale e della sicurezza dei suoi cittadini.

Il cielo della nostra psichiatria è stato invece arricchito di ideali alti, e la storia dei cambiamenti ottenuti nel nostro Paese dovrebbe essere motivo di orgoglio.

Gli ideali di cura e di libertà andrebbero riportati al centro delle pratiche, delle risposte, delle proposte. Di nuovo, della formazione. Magari leggendo, tra una diagnosi del DSM e un articolo scientifico, qualche pagina di “Che cos’è la psichiatria?”, raccolta di testi a cura di Franco Basaglia.

Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery In Mental Health

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goodpracticeserviceSi terrà a Trieste, dal 23 al 26 settembre 2019, il convegno internazionale realizzato dalla Scuola Internazionale Franca e Franco Basaglia – The Practice of Freedom – dal titolo Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery in Mental Health.

L’OMS a Ginevra ha chiesto al Centro Collaboratore OMS per la Ricerca e la Formazione in Salute Mentale – Dipartimento di Salute Mentale, ASUI Trieste di collaborare alla realizzazione dell’evento, che includerà presentazioni nazionali e approfondimenti nell’ambito del programma OMS QualityRights, che nasce con l’obiettivo di migliorare l’accesso ai servizi di salute mentale e di promuovere i diritti umani delle persone con condizioni di salute mentale e disabilità psicosociali, intellettuali e cognitive.

I partecipanti provengono da 44 paesi e da tutti i continenti: tra di essi 128 relatori e delegati di governi nazionali, i vertici dell’OMS per la salute mentale e di grandi organizzazioni internazionali quali la WFMH (World Federation for Mental Health), Mental Health Europe, IMHCN (International Mental Health Collaborating Network), IIMHL (International Initiative for Mental Health Leadership), e dei diritti umani (Human Rights Watch). Tra gli esperti, i direttori del NICE della Gran Bretagna e del NIMH americano, della Fountain House International, leader di organizzazioni dell’utenza a molti altri.

Il convegno vuole contribuire ad identificare servizi e programmi nel mondo che si basino sui presupposti della centralità della persona, evitando la coercizione, e sulla risposta ai bisogni delle persone, sul sostegno alla recovery, sulla promozione dell’autonomia e dell’inclusione sociale, in linea con gli standard internazionali sui diritti umani. Nell’ambito del programma QualityRights l’OMS sta infatti completando un documento di orientamento sulle buone pratiche, che si propone di fare una mappatura, identificando e documentando servizi per la salute mentale territoriali, innovativi, promettenti ed emergenti.

Dimostrare che questi tipi di servizi esistono e sono efficaci è fondamentale per informare e ispirare i responsabili politici e altri attori-chiave ad agire e diffondere approcci nuovi e innovativi nell’assistenza in salute mentale in tutto il mondo. Nel convegno saranno quindi presentate pratiche di risposta alla crisi in alternativa al ricovero, di dialogo aperto, di abolizione della contenzione, di supporto reciproco tra persone con esperienza di malattia (peer support) e relativi servizi (recovery college, case per la guarigione), di intervento sugli homeless dall’India alla Francia all’America, di dipartimenti e reti complessive di Servizi (in Francia e Brasile, oltre a Trieste e regione FVG), di interventi sull’area riabilitativa e dell’inclusione sociale (casa, lavoro, etc.) in Nuova Zelanda, Israele e Italia, di progetti personalizzati con budget di cura, di esperienze alternative agli ospedali giudiziari, di pratiche di genere tra donne.

Verrà presentato soprattutto il cosiddetto modello Trieste, quale esempio riconosciuto di un completo cambio di sistema e di paradigma, dalle istituzioni alla comunità, dalla malattia alla persona, fondato su centri di salute mentale aperti sulle 24 ore che rispondono a territori definiti di piccole dimensioni, integrato da altri programmi per l’inserimento socio-lavorativo, per l’abitare supportato e l’inclusione sociale. Ciò ha comportato anche la completa abolizione delle pratiche di contenzione ed un uso dei trattamenti sanitari obbligatori che risulta essere il più basso in Italia (e nel mondo). Il modello del CSM 24 ore in particolare è stato adottato con successo in Svezia e in Brasile, sperimentato in altre regioni italiane, e recentemente in Galles, Repubblica Ceca, Polonia, e nel prossimo futuro a Hollywood come area pilota per la collaborazione con Los Angeles di cui si sono già occupati i media.

Il caso Italia più in generale, con la lotta alla contenzione e la riforma che ha abolito l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e sviluppato servizi alternativi (le Rems), sarà raccontato dai protagonisti. In una tavola rotonda, il già direttore dell’OMS per la Salute Mentale Benedetto Saraceno, formatosi a Trieste, metterà a confronto esperienze di riforma basate sui diritti che provengono da paesi altri, dal Sud del mondo (Africa) e dall’Est Europa. Inoltre si parlerà di esperienze e reti di empowerment, ossia di cosa si muove in Europa e nel mondo per rafforzare la voce e il peso decisionale di utenti e familiari in primo luogo.

Il convegno internazionale sarà anche dedicato ai programmi di cooperazione internazionale e di collaborazione basati sull’esperienza triestina e regionale e attivati dal Centro Collaboratore di Trieste e dalla Scuola Internazionale ad esso collegata, attraverso specifici accordi e convenzioni (tra cui quelle con California, Argentina, Regno Unito, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Polonia, Slovenia ed altri paesi).

Verranno presentate dal Centro Collaboratore di Trieste le Raccomandazioni per il superamento graduale degli ospedali psichiatrici, con un documento elaborato sulla base di una ricerca che ha interpellato i leader delle migliori esperienze mondiali. Inoltre vi sarò spazio per presentazioni di buone pratiche di impresa sociale e inserimento lavorativo, per programmi e servizi che tutelino i diritti, propri di ogni cittadino, al lavoro, alla salute, all’eguaglianza di fronte alla legge, alla vita indipendente e al protagonismo delle persone.

Sarà infine presentata la proposta per la Candidatura al Nobel per la Pace dell’esperienza nata dal lavoro di Franco Basaglia.

Il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e del Centro Collaboratore OMS – Ricerca e formazione in salute mentale, dottor Roberto Mezzina, presenterà infine gli esiti del lavoro degli ultimi anni a conclusione del suo mandato, rilanciando il lavoro della Scuola Interazionale intitolata ai Basaglia.

Il programma del convegno è disponibile qui.


Riflessioni attorno alla Legge 180

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180Di Angelo Venchiarutti e Peppe Dell’Acqua

[parte del contributo pubblicato nel fascicolo n. 2/2019 della Rivista Responsabilità medica - Diritto e pratica clinica]

Angelo Venchiarutti

Circa quaranta anni fa, il 13 maggio 1978, veniva approvata dal nostro Parlamento la legge 180, poi conosciuta come “Legge Basaglia”. Qualche mese dopo, la disciplina sarebbe confluita nella legge n. 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

Sono più d’una le innovazioni che la legge 180 ha introdotto nel nostro ordinamento: la cura delle malattie mentali è stata integrata finalmente nell’ambito del servizio sanitario nazionale, ponendo  fine alla competenza della Province in materia di assistenza psichiatrica; radicali sono state le modifiche nella cura delle persone con disturbo mentale. Prima di discutere più nel dettaglio del contenuto della legge 180, Ti chiederei, però, di ricordare le esperienze e i cambiamenti culturali che hanno preceduto l’approvazione di quella normativa.

Peppe Dell’Acqua

Le pratiche che sostennero il lavoro di apertura di Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico a Gorizia, di Carlo Manuali a Perugia, di Sergio Piro a Materdomini, in provincia di Salerno, e di altri in altre zone dell’Italia avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di cambiamenti negli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette da disturbi mentali.

Basaglia diventa direttore del manicomio di Gorizia nel novembre 1961. È un giovane medico, non ancora quarantenne. Proviene dall’Università di Padova, dove libero docente è il responsabile del repartino psichiatrico presso la clinica neurologica (Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Merano, 2018).

Prima di allora non ha mai visto un manicomio. A Gorizia, vede non solo la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell’assenza. È questa la dolorosa condizione che lo interroga e lo sconvolge. È questa la realtà dei manicomi italiani che è davanti agli occhi di tutti ma che nessuno riesce a vedere. Basaglia per vedere, deve fare ricorso proprio alle sue letture “ filosofiche”, che sono già state oggetto di una paterna attenzione di stima del suo direttore padovano. Con altri giovani colleghi si era interessato difatti al lavoro critico sulla persistenza del positivismo scientifico in medicina e in psichiatria e sull’evidenza di considerare la presenza del soggetto nel campo dello studio dei disturbi mentali e alla cura.

Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è la psichiatria, sui suoi presunti fondamenti scientifico/biologici, riconoscere la presenza immutata e devastante del paradigma medico, della prepotente cultura figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. Di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato: «Che cos’è la psichiatria?» (aa. vv., Che cos’è la psichiatria?, a cura di Basaglia, rist., Milano, 1997). Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”.

Era la malattia che nascondeva ogni cosa: i nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non potevano più abitare quel luogo. Così, messa tra parentesi la malattia, svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono come per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. Ora di fronte a Maria, a Gio- vanni, a Elia, a Romildo le porte chiuse non potevano più essere tollerate. La vergogna a restare in quel luogo divenne insopportabile. Cominciarono allora a venire aperte le porte; iniziarono a venire abolite tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare, di ascoltare, di esserci e riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, di vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare le storture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali.

Ho negli occhi qualche fotogramma de La favola del serpente, un bel documentario che una giovane giornalista  finlandese, Pirko Peltonen, gira a Gorizia nel 1968 per la televisione del suo Paese. Alcuni degenti sono contrari alle riprese, altri le approvano e pensano che sia utile proprio per loro far sapere a tutti che cosa stia accadendo in quel manicomio ai confini del mondo. L’assemblea di quel giorno ne discute sotto l’occhio della sedici millimetri. Alla fine si vota. Il presidente dell’assemblea invita ad alzare la mano per il sì, e conta. Poi per il no e conta. Vinceranno i sì, le riprese si faranno. Il fotogramma che ho negli occhi sono le mani alzate. Uomini e donne che votano. Alludono all’immane cammino che li aspetta (aa. vv., L’istituzione inventata. Almanacco, Trieste 1971-2010, a cura di Rotelli, Merano, 2018).

I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa ora in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile (Minkonsky, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, 2004).

Angelo Venchiarutti

Torniamo sul piano delle riforme legislative. Credo vada ricordato come la consapevolezza sullo stato di arretratezza e inadeguatezza più che drammatico degli istituti psichiatrici esistente non soltanto in Italia divenne, in quegli stessi anni, via via più diffusa: mi riferisco tra l’altro, alle tante inchieste giornalistiche, alle indagini condotte anche per iniziativa del Ministero della Salute. Lo stesso ministro della Sanità Luigi Mariotti giungeva a paragonare gli ospedali psichiatrici a lager (che costituiva, in quegli anni, un’immagine, oltre che drammatica, molto attuale). Anche a seguito di queste denunce, si giunse ad una parziale mu- tamento di tendenza con legge n. 431 del 18 marzo 1968. Ricordo che, pur costituendo solo uno stralcio del più ambizioso testo di riforma messo a punto in quegli anni dallo stesso ministro Mariotti, la nuova legge cercava di eliminare le tracce della funzione repressiva dall’ospedale psichiatrico e di portare in primo piano il fine terapeutico dell’assistenza psichiatrica. A fianco degli ospe- dali psichiatrici, venne prevista la presenza dei centri di igiene mentale, e affermato il principio dell’assistenza psichiatrica proiettata sul “territorio”. Era il primo, pur se parziale, superamento, della centralità del manicomio. La legge poi introdusse, pur senza abolire la normativa precedente sui ricoveri d’autorità, la facoltà per il malato, di chiedere volontariamente la sua ammissione in ospedale psichiatrico, per accertamento diagnostico e cura. Cominciava ad affermarsi un diritto alla salute prevalente su ogni interesse di ordine pubblico. Una lettura dell’art. 32 della Costituzione – ove il diritto alla salute viene configurato come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” – in termini non meramente programmatici bensì nel segno dell’immediata percettività comincia ad affermarsi del resto anche tra gli studiosi del diritto proprio nel corso degli anni ’60 del secolo scorso.

Per giungere ad una complessiva riformulazione della materia, ci vorrà ancora del tempo. Il nostro Parlamento, che da anni discuteva intorno a vari progetti di riforma sanitaria, giunse a varare la legge n. 180 il 13 maggio 1978, pur in una fase drammatica della vita del nostro Paese: pochi giorni prima era stato ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. La legge, dal titolo emblematico Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, costituisce l’approvazione anticipata di alcune disposizioni della normativa istitutiva del Servizio sanitario nazionale: approvazione volta ad evitare la celebrazione del referendum abrogativo della vecchia legge manicomiale del 1904.

La legge 180 rimarrà in vigore pochi mesi. Il suo testo verrà poi trasfuso in alcuni articoli della legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva appunto del Servizio sanitario nazionale. La portata innovativa della legge è ben nota nel suo complesso. In questa sede basta ricordare che il manicomio riceve una condanna senza appello. Il legislatore supera la concezione custodialistica nell’approc- cio alla malattia mentale, abbandona ogni motivo funzionale alla difesa della società, cancella del tutto la presunzione di pericolosità sociale del malato di mente, mette in evidenza il tema del diritto alla salute.

Sul piano degli interventi sanitari, viene accolto senza riserve il principio della volontarietà, come regola, e della eccezionalità dell’intervento pubblico d’autorità, specie in regime di ricovero ospedaliero. Principio che trova la sua forza ispiratrice nel 2° comma dell’art. 32 della Costituzione (alla cui redazione aveva contribuito lo stesso Aldo Moro in sede di Assemblea Costituente: Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, Merano, 2014) secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge e secondo cui la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Il legislatore del 1978 mostra di riservare un’attenzione particolare proprio al testo della Costituzione, nel momento in cui stabilisce che gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, previsti dalla legge, possano essere disposti dall’autorità sanitaria nel rispetto della dignità e dei diritti civili e politici garantiti della persona, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura, e ritiene che la collaborazione personale dell’interessato vada sempre ricercata in ordine ad ogni aspetto della cura da effettuare.

Va poi evidenziato come, nelle previsioni della legge, oltre alla progressiva soppressione degli ospedali psichiatrici (cfr. art. 7, comma 5°, l. 180/78), si contempla l’indicazione circa l’apertura di una pluralità di centri e servizi di assistenza, distribuiti in tutto il territorio: da quel momento in poi attraverso questi nuovi dispositivi organizzativi e mezzi di cura dovranno svilupparsi, di norma, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nei confronti delle persone affette da disturbi mentali.

Peppe Dell’Acqua

In effetti, con la legge 180 non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non vi è più il malato di mente pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo, ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale: quello della salute.

Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire.

Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato. Esistono oggi associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, raccontano le loro singolari rimonte, vogliono vivere malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli (Dell’Acqua, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, Milano, 2010). Si pensi alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale: si scoprono così le molteplici opportunità di cui dispongono oggi le persone con disturbo mentale. La cooperativa sociale come luogo per formarsi, per entrare nel mondo del lavoro, per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia. Qui si incontrano uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno  figli, che vivono con serenità nella loro famiglia, che si scommettono quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni.

La legge, malgrado resistenze ostinate e un percorso in molte regioni lento e faticoso, ha dimostrato che è possibile cambiare e in tanti luoghi si sono realizzate profonde trasformazioni e radicate le buone pratiche. Ma non a tutti i cittadini del nostro paese e non dovunque è garantita una tale possibilità.

[Dopo il convegno] L’International Community Panel Franco Basaglia per la Candidatura al Premio Nobel per la Pace

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nobelA sostenere in prima persona la proposta di candidatura al Nobel per la Pace del gruppo di Franco Basaglia e della psichiatria triestina è Gianni Peteani, non uno psichiatra ma il figlio di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, Deportata Auschwitz 81672. Il metodo con cui Basaglia e la sua Scuola affrontavano la cura di pazienti rompeva lo schema della segregazione e liberava il malato e con lui tutta la società. Gianni ha visto i benefici che questo approccio ha avuto su una donna che aveva vissuto l’inferno di Auschwitz e del lager femminile di Ravensbruck. Da qui un ragionamento lucido ed appassionato per sostenere una proposta che davvero potrebbe ridare lustro e prestigio ad un premio che spesso non ha valorizzato personalità ed esperienze così straordinarie come quelle varate da Franco Basaglia.

Franco Basaglia ed il suo pool hanno agito sullo sviluppo dell’autocoscienza. Hanno elaborato la svolta e la fine del sordo massacro chiamato segregazione manicomiale, antiscienza di fatto, consona alle pratiche di annientamento perpetrate nei lager di sterminio nazisti. Nella loro grande intuizione hanno compreso quanto fosse importante l’interazione della Società, la consapevolezza collettiva dell’inclusione e del supporto.

Abbiamo avuto modo di testare in succedutesi occasioni il consenso all’iniziativa, guadagnando risposte sempre unanimi: al Convegno Internazionale Democrazia e salute mentale di comunità / Democracy and community mental health – Trieste, Parco di San Giovanni, 22 giugno 2018; al Convegno Istituzionale dell’Università di Trieste Convivere con Auschwitz – 22 gennaio 2019; alla conferenza Le prospettive dell’OMS per il futuro della Salute Mentale Globale – Stazione Marittima di Trieste, 14 febbraio 2019, alla presenza della neo Direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Dévora Kestel.

Sta entrando nel vivo la costituzione del Comitato d’indirizzo della Candidatura nonché la fase di elaborazione delle pratiche formali di accesso alla commissione dell’Accademia delle Scienze di Svezia.

L’iniziativa della Candidatura è occasione di universale riconoscimento dell’opera basagliana, del suo pool e della Città di Trieste, al tempo come oggi Città dell’accoglienza e dell’inclusione, nei principi inalienabili di convivenza civile della vita democratica, fondamento della Carta dei Diritti dell’Uomo, in Italia e in Europa come nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

[Dopo il convegno] In corpore vivi. Tre dispositivi di controllo sociale

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maggioranzadevianteDi Mauro Barberis

[intervento letto in occasione del convegno Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery in Mental Health]

Perché candidare al Nobel per la pace l’esperienza di Franco Basaglia? A questa domanda si possono dare due risposte, una semplice e una complessa. La risposta semplice è: Basaglia e il suo gruppo sono stati all’avanguardia nella critica delle istituzioni totali, dai manicomi all’esercito, che hanno contribuito in modo decisivo alle guerre novecentesche. C’è una linea diretta che porta dal manicomio al lager: la soluzione finale, la Shoah, fu prima sperimentata in corpore vivi tramite l’Olocausto di disabili, pazzi, devianti.

Qui di seguito, però, m’interessa la risposta complessa. Nella storia dell’Occidente contemporaneo, mi sembra, sono stati usati tre dispositivi di controllo sociale. Li chiamerò bio-politica, socio-politica e psico-politica: rispettivamente, il controllo dei corpi, dei gruppi, e delle anime. Basaglia, per quanto ne so, rifiutò la bio-politica, aprendo i manicomi, criticò la socio-politica, che ai suoi tempi si presentava come suo sostituto, e intravvide i rischi della psicopolitica, che riguarda direttamente noi.

La bio-politica è stata complementare al progetto politico moderno: l’auto-controllo della società da parte di se stessa, coniugando liberalismo politico e liberismo economico. Condizione per realizzare tale progetto era il disciplinamento dei corpi: disciplinamento al quale, però, si sottraevano i poveri, i malati, i pazzi, che quindi andavano esclusi e reclusi. Quando Basaglia arrivò a Gorizia, ancora sotto l’ombra lunga di Auschwitz, la contenzione, l’elettrochoc, la lobotomia, apparvero improvvisamente strumenti di controllo, non di cura[1].

Questa stessa percezione era diffusa allora, più che fra gli psichiatri, ancora accecati dall’ideologia medica della cura, fra gli scienziati sociali come Michel Foucault o Erving Goffman. Ma Basaglia non si fece illusioni neppure su costoro. Nel 1971 criticò il secondo dispositivo, la socio-politica, come un’estensione del controllo dai devianti all’intera società, includendo, come controllori, gli stessi sociologi, e come controllati tutti i cittadini, esposti a quello che egli chiama controllo sociale totale[2].

Poi sono venute la crisi dello Stato sociale e la rivoluzione digitale e s’è trovato un modo più economico per controllare l’intera società: la psico-politica, l’auto-controllo delle anime di ognuno da parte di tutti, tramite un apposito braccialetto elettronico chiamato smartphone. Così i pazzi, esclusi dalla bio-politica, inclusi dalla socio-politica, sono andati al potere. In effetti, quante pulsioni che una volta avremmo detto d’interesse psichiatrico si esprimono oggi, liberamente, sui social e in politica…

Basaglia ha forse intravvisto i contorni di questo terzo dispositivo di controllo nella sua postfazione, pubblicata nel 1968, alla traduzione italiana di Asylums (1961), di Goffman. Vi si legge: «Basterebbe assorbire – e ce ne sono già le indicazioni – nella sfera delle devianze ogni disadattamento [per] farl[o] cadere sotto la giurisdizione psichiatrica, per costruire scientificamente un nuovo alibi, che converta in patologia ciò che è aperto segno di dissenso verso una vita invivibile, che può ancora essere diversa»[3].

«Una vita invibile potrebbe ancora essere diversa». Questa è, in sintesi, la ragione per cui proporre il Nobel per la pace all’esperienza di Franco Basaglia.


[1] Cfr. lo straordinario A. Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Alpha Beta Verlag, Meran, 2018.

[2] Cfr. F. Basaglia, F. Ongaro, La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale (1971), Baldini, Castoldi, Nave di Teseo, Milano, 2018, specie p. 28: «Se nella società affluente si tende a rompere il rigido legame fra l’ideologia medica e la legge, per creare un nuovo tipo di interdisciplinarietà con altre scienze umane, la finalità di questo spostamento non è il miglioramento della vita e delle condizioni dell’uomo, ma la scoperta di un nuovo tipo di produttività e di efficienza che riesce a sfruttare anche l’inefficiente e l’improduttivo o a trovargli un nuovo ruolo».

[3] Così F. Basaglia, F. Ongaro, Postfazione a E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione della violenza (1961), trad. it., Einaudi, Torino, 2010, p. 415 (corsivo nel testo).

[Dopo il convegno] A supporto della candidatura al Nobel Peace Prize

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lalibertaterapeuticaDi Gianni Peteani

[intervento letto dall'attore radiofonico Marco Puntin in occasione del convegno Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery in Mental Health]

Quest’area non era affatto quella che voleva sembrare. Un’apparenza ordinata, delimitata e circoscritta. Un nucleo urbano isolato ai margini della Trieste Emporio e Porto dell’Impero asburgico, cinto da un alto e invalicabile muro perimetrale con due soli accessi, chiusi la notte e sorvegliati a vista dai guardiani durante le ore di apertura. Al suo interno la sofferenza veniva sistematicamente repressa, legata e sedata.

Per antonomasia, realtà, quanto luogo comune l’Austria era un Paese ordinato. Ordinato da rigore autoritario. Uno Stato sì multiculturale e plurilingue ma governato con il pugno di ferro, in cui le menti disordinate venivano celate alla Società. Al crollo dell’Impero Vienna diverrà altresì culla e laboratorio della Psicanalisi da cui Freud riparerà a Londra all’introduzione delle leggi razziali, fantomatico ordinamento tessuto sull’odio che sempre a Trieste venne preannunciato da Mussolini nell’infausto 18 settembre 1938, leggi razziste, come giustamente sottolinea Liliana Segre, che condussero ad Auschwitz; condussero alla Risiera di San Sabba di questa Città, unico Lager di sterminio nazista munito di forno crematorio realizzato in Italia e nell’Europa meridionale dall’occupatore; portarono alla lunga teoria di Campi di stermino della lucida follia del III Reich.

Per la definizione organica di quell’Ordine così perfetto che ebbe ultimo Patriarca un Franz Joseph già intriso della decadenza che lo porterà al collasso, venne progettato e realizzato il Grande Ospedale Psichiatrico di Trieste, con le sue antropomorfe simmetrie rassicuranti, fatte di padiglioni speculari, viali e vialetti, in cui orientarsi senza sorprese. Un sostanziale inganno: questo è stato il Comprensorio di San Giovanni, simulacro di amena serenità, in verità terra di nessuno, senza leggi, tutele e salvaguardia in cui brutalità senza requie e violenza inusitata hanno versato sangue innocente.

Franco Basaglia e il suo Pool hanno sviluppato l’autocoscienza dell’Uomo. Hanno elaborato la svolta e la fine di quel sordo massacro. Nella loro grande intuizione hanno compreso quanto fosse importante l’interazione della Società, la consapevolezza collettiva dell’inclusione e del supporto. Quell’esterno complice di omertà e negazione che la Storia ha palesato nella Germania nazista che taceva sulla Shoah che esercitava il macello di milioni di vite fuori dai propri confini ma lo organizzava pedissequamente al suo interno. Qui, proprio il borgo di San Giovanni divenne Laboratorio di Libertà e condivisione.

Alla Memoria di Franco Basaglia è imprescindibile giungere alla Candidatura al Nobel Prize per la Pace assieme al suo staff e alle Istituzioni e Associazioni che rappresentano quel meraviglioso percorso di Liberazione al fine di assicurare alla Storia e alla Memoria quell’immenso passo in avanti per l’Umanità, infinitamente più importante e concreto del molto più famoso Amstrong sulla Luna.

Riguardo a Franco Basaglia nessuno più di lui avrebbe meritato essere consacrato Santo subito! Chissà che Papa Bergoglio non ci pensi…!

Ancor’oggi non riesco a trovare bello il convertito e liberato Manicomio di San Giovanni. Vivo questo posto come il Lager di Terezin, spettrale messa in scena atta a dissimulare le atrocità ivi perpetrate. La sua vistosa bellezza, gli ampi spazi giocati tra il verde dei giardini e la confortante apparenza delle sue simmetrie prospettiche trattengono ancora le grida dei tanti che qui vennero istituzionalmente privati di dignità, libertà e vita.

Protocolli di segregazione e annientamento si avvalsero lungo tante generazioni di raccapriccianti sadismi inferti nell’indifferenza della routine del male a donne e uomini, senza differenziazioni, nell’azzeramento e cancellazione identitaria della persona fisica e giuridica.

La tortura assurta a sistema persuasivo: terrore, paura e angoscia perpetrate per silenziare la sofferenza. Il paziente catatonico era il risultato perfetto. La lobotomia alias psicochirurgia progredì negli anni guadagnando nel 1936 il Premio Nobel in Medicina al portoghese Egas Moniz.

In seguito lo statunitense Walter Freeman (…uomo libero) applicò una versione che raggiungeva il tessuto del lobo frontale attraverso i dotti lacrimali.

In questa lobotomia, detta transorbitale, veniva martellato l’orbitoclasto, acuminato chiodo chirurgico atto a perforare lo strato osseo sopra la palpebra. Roteato energicamente lo strumento separava (o meglio, dilaniava con terrificante approssimazione) il lobi frontali. Questa tecnica veniva eseguita ambulatorialmente anziché in sala operatoria, richiedeva pochi minuti e nessuna degenza. Freeman raccomandava la procedura anche ai pazienti con lievi sintomi. Praticò indiscriminatamente l’annientativa mutilazione irreversibile a migliaia di persone.

L’incolmabile baratro di questo abominio non sarà mai risarcibile ma a Basaglia e al suo Gruppo, Eroi della Libertà, va la Medaglia al Valore per aver enucleato e contrastato fino alla demolizione quel meccanismo perverso di violenza assoluta.

Nell’ambito del Manicomio convenzionale vessazioni, bastonate, camicie di forza, sedazioni farmacologiche massive costituivano una parte soltanto dello schema complessivo, nell’ultimo stadio gerarchico garantito dal personale di sorveglianza, a freddi esecutori strutturali di deprivazione, Kapò allenati a colpire e massacrare di botte senza uccidere. La cancellazione delle fasi della Storia attraverso la conversione globale dei manufatti rasenta la rimozione.

Qui a San Giovanni con un pur giusto criterio di superamento del passato sono stati eliminati gli stilemi della repressione, edulcorando quella realtà che doveva essere conservata, esposta e divulgata propriamente a officio e museo di quell’intrinseca malvagità. Sono state recentemente cancellate anche le opere dell’Artista Ugo Guarino che trasversalmente siglavano la Libertà su quelle lugubri pareti di contenzione. Oggi tutto risulta nuovamente idilliaco e incantevole.

Senza dubbio bellissimo il radioso Parco delle Rose ma al contempo affidabile ad esempio a Peter Eisenman, architetto del Memoriale a ridosso della Porta di Brandeburgo a Berlino, l’ideazione di un Monumento alle vittime della macchina di annientamento rappresentata dal Manicomio svelato e interrotto da Basaglia e i suoi collaboratori. È importante istituire un’area di specifica caratterizzazione museale, con tutti gli strumenti di coercizione, dall’apparecchiatura per l’elettroshock alle gabbie di contenimento, dalle vasche per immersione alle celle imbottite, dai forcipi per i parti coatti a tutti gli arnesi del terrore manovrati impietosamente nell’Olocausto della disabilità mentale protrattosi impunemente, qui fino agli anni ’70 e ancora praticato nel Mondo.

La fusione tra scienza, lavoro di squadra, traguardi e conquiste fondamentali per il Progresso della Società Umana ha portato al disegno e all’approvazione dell’apparato legislativo riconosciuto nella rivoluzionaria Legge 180 che compie quarant’anni. Trieste e il Modello Basaglia sono esportati in tutto il mondo. Trieste capofila nell’affermazione di Protocolli di Libertà e strumento internazionale di rinnovamento sociale e crescita morale.

Incoraggia e concretizza un margine di manovra di reale fattibilità il dato che dall’istituzione del Nobel Prize, tra le 128 assegnazioni di Nobel per la Pace da 1901, 24 volte siano state insignite Associazioni. Nella fattispecie, l’assegnazione ad Amnesty International del ’77 conforta per consonanza di obiettivi, nonostante le pur ovvie distanze e differenze del caso. Nel 1977 il Nobel per la Pace è stato assegnato ad Amnesty International (UK) per la Campagna contro la tortura, l’Organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani e il cui scopo è quello di promuovere in maniera indipendente e imparziale il rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani e quello di prevenirne specifiche violazioni. Profilo tangente ai dettami della 180.

Il Nobel Prize consiste nel lascito testamentario di Alfred Bernhard Nobel istituente Premi annuali a scienziati distintisi in cinque discipline scientifiche: Fisica, Chimica, Medicina, Letteratura, Economia e uno per la Pace.

Nobel, inventore della dinamite, scelse questo palliativo assolutorio come parziale risarcimento morale all’incommensurabile devastazione moltiplicatasi nei conflitti bellici che hanno flagellato l’Umanità e continuano a proliferare all’insegna della sua propria invenzione.

A noi il compito di contribuire nel nome di un fantastico Uomo di Pace, Franco Basaglia, e del suo storico gruppo di collaboratori e assistenti alla consacrazione del primato della Libertà tramite la candidatura di Nobel Prize per Pace, per un futuro migliore a ogni latitudine, vicino e lontano da questo posto che primo vide abbattere cancelli, reti e barriere, come il 27 gennaio 1945 vennero spalancati quelli di Auschwitz.

Chi salva un “matto”è un Giusto. Riconoscimento importante a Basaglia

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basaglia[articolo uscito su Festival dei Diritti Umani, foto di Claudio Ernè]

Chi salva un matto è un giusto. Se volete metteteci le virgolette, ma la sostanza è questa. Gariwo, benemerita associazione che si occupa di far scoprire la biografia di persone che hanno cercato di impedire il crimine di genocidio, di difendere i diritti dell’uomo nelle situazioni estreme, ha deciso di inserire tra loro anche Franco Basaglia. Il medico dei matti, lo psichiatra che è riuscito a convincere la comunità scientifica e la politica degli anni ‘70 a chiudere i manicomi, sarà ricordato nel Giardino virtuale dei Giusti. Il riconoscimento è arrivato poche ore fa.

Il nome di Basaglia si leggerà vicino, ad esempio, a quello di Francesco Quaianni, un funzionario della Questura di Milano che nel ‘43 aiutava i partigiani, o a quello di Reinhold Chrystman, una sorta di Schindler polacco che riuscì a salvare quasi 700 ebrei che lavoravano nella sua vetreria, in Polonia.

Che c’azzecca Basaglia? C’azzecca, eccome. Innanzitutto, come spiega lo statuto di Gariwo, può essere considerato un  giusto chi difende i diritti dell’uomo nelle situazioni estreme, e non c’è molto di più estremo di un manicomio. Persone segregate, spogliate – anche fisicamente, a volte – di una parvenza umana, sottoposte a contenzione fisica o sedazione chimica. Se è vero, come c’è scritto nella Bibbia, che chi salva una vita salva il mondo intero, allora il medico veneziano si merita quel posto, per ogni recluso nei manicomi che è riuscito a liberare, o perlomeno a restituirgli quell’esistenza dignitosa che ciascuno ha (dovrebbe) come diritto inalienabile.

Non è l’unico giusto inserito da Gariwo nel Giardino senza aver salvato esplicitamente vite umane: c’è, per fare qualche esempio, Felicia, la mamma di Peppino Impastato, c’è la filosofa marxista-critica Agnes Heller, la mezzofondista algerina Hassiba Boulmerka, minacciata dai fondamentalisti perché correva coi pantaloncini corti. Persone che hanno scritto e agito per rendere davvero universali i diritti, per abbattere le barriere (anche) di genere, che hanno sfidato convenzioni e stereotipi, che hanno lottato per rendere libere uomini e donne.

Siamo particolarmente orgogliosi della scelta di Gariwo, perché la proposta di includere Franco Basaglia nel Giardino dei Giusti è proprio del Festival dei Diritti Umani: siamo fermamente convinti che sia un riconoscimento dovuto a chi ha ridato diritti e dignità a migliaia di persone. Ci sarà modo di parlarne ancora. Stay tuned.

Altre info sul sito di Gariwo.

Da vicino nessuno è normale al Paolo Pini di Milano

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paolopiniDi Luca Cereda

[articolo pubblicato su LifeGate]

La legge Basaglia ha cambiato il modo di pensare al concetto di salute mentale. Un viaggio dentro e fuori gli ex manicomi lombardi di ieri, oggi riaperti per la cittadinanza

«Perché non andiamo più alla mutua?»

«Non esiste più la mutua. C’è il Servizio sanitario nazionale!»

«E che vuol dire?»

«Vuol dire che siamo tutti uguali!»

Questa è una frase comune che sarebbe potuta uscire dalle labbra di un bambino poco più di quarant’anni fa, quando la salute è diventata finalmente un diritto definito per legge.

La salute a livello normativo

C’era la Costituzione del 1948 che con l’articolo 32 dice che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, ma non c’era una legge che dicesse esattamente come. Quella legge è arrivata nel dicembre del 1978. Lo scambio di battute ipotizzato accoglie e lascia germogliare lentamente questo termine: uguaglianza. La legge n. 833 del 1978 ha istituito il Servizio sanitario nazionale per cui si è tutti uguali quando ci si ammala. Un riconoscimento che ha avuto la forza di trasmettere un senso di rassicurazione: da lì in avanti lo Stato aveva il dovere di occuparsi della salute di ogni individuo.

Da oggetto a soggetto

Quella legge di fine 1978 ha esteso e dato solidarietà universale anche alla norma promulgata qualche mese prima, precisamente il 13 maggio: la legge n. 180. Quell’anno memorabile, grazie alle leggi n. 833 e n. 180, l’Italia è stata capace di dare dignità a tutti, anche ai malati mentali. Alla base del cambio radicale di paradigma con cui si guardava ai matti, ci fu un singolo concetto, all’epoca rivoluzionario, spiegato in una domanda e in una risposta nel documentario della Rai, I giardini di Abele, del 1968. Il giornalista Sergio Zavoli chiede: «È interessato più al malato o alla malattia?». Lo psichiatra Franco Basaglia risponde: «Decisamente al malato».

La legge 180 – nota come legge Basaglia – ha fatto proprio questo, ha dato dignità e diritti a chi soffre di gravi disturbi psichiatrici. Da oggetto incurabile, da rinchiudere in luoghi lontani dalla vista della collettività normale, nei manicomi, a soggetto attore della propria vita con i diritti di cittadinanza, compreso il diritto alla cura, con le quali si possono lenire le ferite della mente.

Il risultato più eclatante della legge è rappresentato dall’abolizione del manicomio, istituzione totale che annullava la persona e si rendeva un non-luogo, un deposito di stoccaggio di esseri difettosi agli occhi della collettività sana. Realtà segregante che arrivavano ad ospitare migliaia di internati, numeri, non persone.

Da manicomi invisibile a spazi collettivi

I manicomi sono l’epicentro del racconto, ieri come luogo di esilio e confino dei matti, dei diversi a qualunque titolo, oggi come luogo dove incontrarsi e scoprire se stessi e gli altri da vicino.

L’entrata è costeggiata da un muro di cinta in mattoni rossi lungo un centinaio di metri. Poi un cancello, oggi sempre aperto. L’ingresso è sormontato da una grande insegna che incornicia in un modo unico l’entrata: Da vicino nessuno è normale, è quello che c’è scritto sul portale dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, il manicomio cittadino.

Varcata la soglia oggi troviamo Olinda: un progetto collettivo che affonda le radici nel 1994, anche se nasce ufficialmente nel 1996, con l’obiettivo di de-istituzionalizzare la psichiatria dei manicomi, in quegli anni ancora in attività nonostante la legge 180. «Il punto di partenza» – spiega Thomas Emmenegger, psichiatra, fondatore e presidente di Olinda – «è stato quello di ricostruire contemporaneamente biografia delle persone che vivevano all’interno del Pini e riconvertire gli spazi chiusi in luoghi aperti. C’erano molte persone, entrate in manicomio anche durante gli anni 1990, e tanto spazio, ma sia le relazioni che lo spazio erano configurati in forma di distanza: reparti, corridoi, camerate, muri».

La realtà della cooperativa Olinda

Olinda oggi collabora con i vari servizi dei dipartimenti di salute mentale, con l’azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda e con il comune di Milano, dopo che il manicomio milanese ha chiuso alla soglia degli anni Duemila.

«Abbiamo cominciato con delle cose semplici della vita quotidiana: mangiare, bere, trattarsi bene». È da queste piccole cose che è partita la trasformazione, il riutilizzo degli spazi sulla base della rivoluzione copernicana delineata tanti anni prima da Franco Basaglia: i matti non sono più gli oggetti della cura, ma diventano i soggetti della loro vita, gli abitanti dello spazio in cui vivono. «C’era un problema: nel Pini restavamo sempre tra di noi. Le paure di attraversare il portone del manicomio erano distribuite in forma uguale tra chi stava fuori e chi stava dentro. Rischiavamo di riprodurre il ghetto».

Come superare i pregiudizi sulla malattia mentale

Per infrangere i pregiudizi sulla malattia mentale, i cittadini di Milano devono entrare in manicomio, riappropriarsi anche loro di quello spazio. Olinda allora prova a dare appuntamento alla città, un motivo vero per venire a vedere il cambiamento. Ecco il primo progetto pubblico. «Fu un’invasione pacifica di quasi 20mila persone terminata con un Gran ballo, dove le persone che ballavano consideravano finalmente quella festa la loro festa: non eravamo più soli. Da allora il nostro bar Jodok è diventato un bar della città».

Olinda ha provato a confrontarsi anche con un altro tema, quello di creare i servizi necessari per accogliere i cittadini in questo luogo di doppia esclusione: manicomio e periferia. Quella a nord di Milano, del quartiere di Affori. «Chiudere l’ospedale psichiatrico per noi non ha significato solo ricostruire le biografie delle persone internate, ma capire come le persone con problemi di salute mentale potessero diventare protagonisti della riconversione del quartiere», spiega Thomas Emmenegger.

La natura e la cultura salveranno il mondo. Il caso del San Martino di Como

Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si legge che tutti gli uomini nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Ma gli uguali sono diversi, per definizione. La diversità di cultura, di carattere, di gusti, di attitudini e di ingegno sono l’espressione evidente della nostra uguaglianza. Sono il segno che l’uguaglianza vive nella diversità. La malattia mentale è difficile da concepire come diversità nell’uguaglianza. Fa parte di quei vocaboli che spaventano perché, nonostante gli anni e le leggi, costringono a rivedere i più consolidati paradigmi cognitivi ed etici.

«Prendersi cura delle persone significa anche prendersi cura degli spazi, dei nostri spazi. Spazio inteso come una configurazione ricca di risorse che permette di applicare le proprie capacità». Queste sono parole di Mauro Fogliaresi, poeta comasco che – come si definisce lui – è da vent’anni in esilio al San Martino di Como, l’ex ospedale psichiatrico. All’interno di questo luogo di confino, che ha chiuso nel 1999 dimettendo da un giorno con l’altro quasi quattrocento persone, Mauro Fogliaresi ha creato un luogo libero. Di fatto e nel nome: la Libera università del tempo ritrovato. Un’iniziativa, messa a punto sotto l’egida del dipartimento di Salute mentale del Sant’Anna e del centro diurno assegnato al disagio mentale che ha sede in alcuni spazi dell’ex ospedale psichiatrico, ma aperta anche alla cittadinanza, che è giunta al suo quinto anno accademico. Quest’anno il tema di fondo è dedicato all’ambiente e alla salute mentale. «Sarà un anno rivolto a lezioni di felicità, ma anche all’elogio della lentezza e alla pedagogia della lumaca. Siamo partiti a metà ottobre con le lezioni proprio sull’effetto terapeutico degli alberi».

Oltre il giardino

Ancora prima che il progetto della Libera università avesse la funzione di cannocchiale attraverso il quale guardare al proprio futuro, Mauro Fogliaresi, insieme al fotografo Gin Angri, intuisce che la maggiore sofferenza delle persone fuoriuscite dall’ex manicomio sembra essere legata alla difficoltà di dare forma a una narrazione orientata alla propria vita, di definire una storia, di riconoscere una sorta di trama nelle cose che fanno.

Nasce nel 2008 la rivista Oltre il giardino. «È un periodico senza periodicità che esce quando stiamo bene». Così definisce la rivista Fogliaresi. La redazione si trova in fondo al viale centrale dell’ex ospedale psichiatrico, dopo una ripida salita, e si riunisce negli spazi del San Martino ogni mercoledì. «Oltre il giardino è una rivista coraggiosa, e stravagante, si trova in un posto magico dove bellezza e creatività riconciliano con il dolore in leggerezza. I redattori della rivista sommano disagio loro a disagio degli utenti, si liberano da pesantezze e insieme, alleggeriti, s’inventano una rivista ariosa».

Per poter affrontare la malattia mentale bisogna incontrarla fuori dalle istituzioni

Il San Martino di Como, così come il Paolo Pini di Milano, non è solo un’immensa dote di spazi da riutilizzare. Gli ex manicomi sono segni che si fanno simboli, sono documentazione vivente della storia clinica di un’Italia che è stata all’avanguardia nel 1978 a dichiarare che siamo tutti uguali, anche se poi ci sta volendo molto tempo ad eliminare pregiudizi e a far concepire la malattia mentale come diversità nell’uguaglianza. Il matto resta l’altro per eccellenza.

E se quello che si sta facendo negli ex manicomi è l’epicentro della rivoluzione culturale, Franco Basaglia riteneva che «per poter veramente affrontare la malattia mentale, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, e non solo quelle psichiatriche, ma fuori da ogni istituzione la cui funzione è quella di etichettare e fissare ruoli congelati».

Clarabella e la voglia di ridare dignità alle persone

Abilitare e fare riabilitazione di persone con problemi di salute mentale significa allora dar loro credito e investire nelle loro capacità: questa è stata la sfida che dal 2002 affronta la cooperativa sociale bresciana Clarabella agricola onlus. «La nostra filosofia storicamente è questa: dare dignità alla persona. E lo facciamo attraverso il lavoro che conferisce socialità e riconoscimento economico per le persone con disagi psichici». In questo modo Ramona Tocchella, responsabile del B&B e dell’inserimento lavorativo, presenta lo scopo e la missione della cooperativa.

La cooperativa fa parte del consorzio cascina Clarabella che mette in rete diverse cooperative che danno spazio e lavoro a chi soffre di disagi mentali. È un ente privato che collabora con l’azienda sociosanitaria territoriale, l’Asst Franciacorta, per i percorsi di cura. Clarabella lavora anche in sinergia con le istituzioni locali sia per superare gli stereotipi verso chi soffre di malattie mentali, considerate non-persone destinate al confino sociale e lavorativo, sia per riqualificare luoghi non più in uso restituendo loro produttività. «Un esempio è quello che abbiamo realizzato sulle pendici del monte Orfano. Abbiamo ridato vita ad un vigneto ma anche a una casa abbandonata dello storico Cesare Cantù. Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione con le istituzioni locali». Ora, all’interno di questo edificio, la cooperativa ha realizzato un progetto che da un lato prevede la residenzialità leggera per le persone seguite da Clarabella e anche dal Dipartimento di salute mentale, mentre dall’altro, ci abitano persone in difficoltà individuate dalle realtà dei servizi locali.

«La cooperativa Clarabella» – spiega Ramona Tocchella – «gestisce un B&B che pratica il turismo sostenibile il quale è connesso con un agri-ristorante. Inoltre, abbiamo una fattoria didattica per scuole e gruppi, una cantina di vini con produzione di 70mila bottiglie all’anno Franciacorta biologici docg dai nostri undici ettari di vigneti. Produciamo olio d’oliva attraverso la gestione dei nostri oliveti e del frantoio Sapor d’olio a Rodengo Saiano, e miele grazie a circa venti arnie. Infine, abbiamo creato un orto sociale con verdure e piante aromatiche». Recentemente Clarabella ha anche aperto una bottega dov’è possibile gustare questi prodotti: i vini tra cui – non poteva che chiamarsi così – il 180, ma anche i prodotti di tutte le cooperative che fanno parte del consorzio, dal pesce alla pasta, dalle salse alle confetture.

«I nostri lavoratori sono ventidue, di cui undici con fragilità psichiche. Inoltre, ci sono i vari tirocini che offriamo, per avvicinare al lavoro, uomini e donne, ragazze e ragazzi con problemi mentali. In Clarabella non ci sono ruoli, ognuno è fondamentale. Noi però non vogliamo che le persone vengano al nostro B&B o acquistino i nostri prodotti solo perché vedono del buono nel progetto. Vogliamo che lo facciano perché sono buoni i vini e il cibo e intensa l’esperienza di turismo sostenibile che offriamo. E questo lo otteniamo essendo solidali, nel senso profondo del termine tra di noi: ciascuno si prende un pezzo del lavoro e del disagio dell’altro e ognuno ha un ruolo fluido. Tra malato e curante si è colleghi. Persone con fragilità collaborano gomito a gomito con professionisti dei settori della ristorazione, del turismo dell’enogastronomia».

Questa è la forza di Clarabella. Questa è la cura.

Da vicino nessuno è normale

Si può allora sostenere la tesi che il bar Jodok e i progetti di Olinda all’interno dell’ex manicomio Paolo Pini di Milano, la rivista Oltre il giardino e la Libera università del tempo ritrovato del San Martino di Como, ma anche il lavoro tra i vigneti e nel campo del turismo sostenibile di Clarabella, migliorano le condizioni di salute delle persone con malattie mentali. E lo fanno perché offrono loro l’opportunità di aspirare. Aspirare ad essere persone in grado di dare forma a una narrazione positiva rispetto alla propria esistenza. Donne e uomini in grado di definire la loro storia, di riconoscere una trama nelle cose che fanno, di superare i confini, di cambiare il quotidiano. Di essere diversamente uguali.

Psicoanalisi e Deistituzionalizzazione

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tinamodottiL’Associazione culturale Tina Modotti di Trieste e l’Association Piotr Tchaadaev di Versailles organizzano giovedì 19 dicembre 2019 presso la Casa del popolo di Ponziana (via Ponziana, 14 – Trieste) il 4° Colloquio internazionale L’eredità di Basaglia: verrà affrontato il tema della compatibilità fra psicoanalisi e deistituzionalizzazione. Agli inizi della chiusura del manicomio di Trieste (1971) si comprese con chiarezza che la psicanalisi non era compatibile con il lavoro per la chiusura del manicomio, in quanto si trattava di dare la priorità agli ultimi, i pazienti più gravi e regrediti. A distanza di quasi cinquant’anni forse si può ipotizzare che il lavoro territoriale non sia più così incompatibile con una visione anche psicoanalitica della materia e delle pratiche.

Programma

9.30 presso l’ex O.P.P.: visita guidata a cura di Lorenzo Toresini

11.30: filmati Calcio & vita sociale (15′, a cura dell’Associazione Samarcanda) e Omaggio a Claudio Misculin (50′, a cura dell’Accademia della follia – Claudio Misculin)

15.00: convegno presso la Casa del popolo di via Ponziana, 14 (interventi di Daniele Zullino e Monika Muller, Ginevra; Jean-Yves Feberey, Pierrefeu-du-Var; Claudia Dominguez, Ettore Jogan, Gianluca Paciucci, Cecilia Randich e Lorenzo Toresini, Trieste; Antonio Luchetti – Merano)

19.00: musica con la Grande Orchestra Club Zyp

Ingresso libero


La realtà non è per tutti. Voci dalla legge Basaglia quarant’anni dopo

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antonellodeliaNel 1978 la legge Basaglia prevedeva la chiusura dei manicomi. Quarant’anni dopo, la riforma è realmente compiuta? Antonello D’Elia, psichiatra, prova a darci una risposta, partendo dalla propria esperienza: da laureando viveva con fastidio l’atteggiamento di disprezzo e indifferenza del suo primario ospedaliero nei confronti dei pazienti. Tutto il contrario di ciò che avrebbe voluto dire Basaglia, morto troppo presto per vedere i risultati della propria Rivoluzione, non del tutto attuata e non da tutti accettata e assimilata. L’autore mette insieme quelli che stanno con Basaglia e quelli che invece vorrebbero i matti legati e sedati. Aldo lavora al bar, racconta la storia d’amore cinematografica di due matti e dice che anche lui vuole essere un matto, se i matti sono così. Ignazio ha vissuto per anni con una donna il cui figlio era pazzo: per lui bisogna finirla con questi matti in libertà. Giovanna stava legata e le facevano l’elettroshock, ricorda ancora il puzzo di piscio del manicomio. Abdul è arrivato a Lampedusa su un gommone. Racconta anni di guerra e di dolore, derubato, torturato, venduto come schiavo.

In questo libro ci sono tutti: dai matti di prima, quelli rinchiusi nei manicomi e sottoposti alla tortura del disprezzo, a quelli di poi, fuori dai manicomi ma non ancora liberi né accettati dalla società.

Pratiche psichiatriche, forme della cura e psicologia analitica

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aipamilanoIl 18 gennaio 2020 si terrà a Milano il convegno Pratiche psichiatriche, forme della cura e psicologia analitica, giornata che si propone come una introduzione e una prospettiva per il ciclo di seminari ECM di quest’anno.

La psicologia analitica comincia a nascere durante il lavoro di C.G. Jung al Burghölzli di Zurigo, in anni in cui nello stesso ospedale, intorno alla figura di E. Bleuler, si raccolsero, oltre a Jung, studiosi quali L. Binswanger, H. Rorschach, K. Abraham. Su proposta di Bleuler Jung prese contatti con Freud. Il Burghölzli, manicomio per malati curabili, voleva rappresentare un esempio di ospedale in cui si praticava il trattamento morale, sugli esempi di Pinel e soprattutto S. Tuke.

Il film documentario L’Orizzonte del Mare di Maurizio Salvetti mostra bene il lato oscuro e le contraddizioni in cui degenerò quella psichiatria, alla quale, in Italia, si oppose l’opera di radicale revisione avviata da F. Basaglia e dai suoi collaboratori con l’introduzione nel 1978 della legge 180.

Durante la mattinata verranno discussi alcuni dei punti critici messi a fuoco dal documentario, in modo da offrire un’introduzione ai successivi seminari ECM, che si occuperanno di alcuni temi chiave della psichiatria di oggi, nel suo continuare a muoversi, nel labile confine tra normalità e follia, all’interno delle stesse – forse ineliminabili – contraddizioni, tra malattia e devianza, esclusione e partecipazione, cura e controllo, buone e cattive prassi.

Guidati dalla massima junghiana Ars requirit totum hominem, si intende riflettere criticamente sui contributi che la psicologia analitica può fornire alla forma delle cure psichiatriche – nonché, viceversa, sull’arricchimento che può derivare alla psicologia analitica dal confrontarsi con i problemi della salute mentale e del trattamento delle patologie mentali più gravi.

Le regole e i bisogni

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sandersNel mese di maggio ‘95 i seminari del Centro studi salute mentale videro un affollato e appassionato pubblico attento alla discussione su aspetti peculiari del pensiero di Franco Basaglia. Pier Aldo Rovatti e un gruppo di giovani filosofi presentarono saggi e analisi sui testi ricchi di suggestioni. Riproponiamo qui un breve scritto di Franco Rotelli che presentò nel corso di quei seminari: l’attualità di Basaglia in ordine a questioni concrete dell’oggi.

Sono passati 40 anni dalla sua morte. L’anno che è appena cominciato vedrà dovunque eventi e memoriali basagliani.

La cosa non può che alimentare orgoglio del vasto mondo di donne e uomini cui apparteniamo. Cominciamo qui con la riflessione di Rotelli del ’95 a ospitare testi, saggi e testimonianze.


Le regole e i bisogni

di Franco Rotelli (1995)

A poche settimane di distanza dall’approvazione della Legge 180, che sanciva la fine dei manicomi, Basaglia, angosciato dalla consapevolezza delle reali conseguenze di quella legge, intervistava i politici dell’epoca. La domanda era: ma vi rendete conto di quello che avete fatto? E cosa intendete fare ora per realizzare una legge così radicale (creare i servizi necessari)? Le risposte sono tutte da riascoltare. Imbarazzo, stolidità, vacuità, parole a vuoto, incompetenze.

Da allora in poi la 180 fu chiamata legge Basaglia e a lui fu affidato dai media il carico derivante dalla totale irresponsabilità dei politici e degli amministratori, che seguirono negli anni. Ministri di grande prestigio, amministratori di USL interessati solo ad approfittare dei denari risparmiati dalla psichiatria, funzionari regionali interessati a riciclare questi soldi per inutili ospedali (e per l’allestimento di reparti di psichiatria negli ospedali generali). Tutto il ciarpame che ha amministrato lo sfascio della riforma sanitaria in Italia in questi vent’anni.

Morendo Basaglia ci ha lasciato in eredità il compito di agire nonostante tutto, di mantenere alto il concetto di responsabilità del tecnico nonostante tutto. Io credo che l’abbiamo fatto. Almeno qui a Trieste.

Ma è proprio perché l’abbiamo fatto e perché si sa che l’abbiamo fatto che oggi a fronte di una nuova riforma sanitaria vorremmo ripetere le domande che Basaglia fece ai politici del tempo. Con quali uomini, con quali regole, con quali mezzi intendete realizzare questa nuova riforma? Chiudere ospedali, territorializzare assistenza, imprenditorializzare la Sanità? Ben venga. Ma con chi, con quali priorità, con quali funzionari, con quali medici, con quali risorse? Con i medesimi apparati che non hanno funzionato in questi anni? Con il medesimo burocratismo che ha distrutto risorse umane infinite in questi anni? Con gli stessi dirigenti? Con aziende sanitarie che per ogni minima scelta chiedono parere alla Regione? Salvo poi non realizzare gli obiettivi prioritari generali. Con una Regione che impiega due anni a scrivere un regolamento? Con funzionari terrorizzati dalla sindrome Di Pietro? Ci si rende conto dello smisurato uso reazionario che si sta facendo di mani pulite? Con magistrati che perdono tempo a far inquisizioni sulle ore straordinarie o su quel che la gente si è detta a cena? Con sindacati corporativi che svolgono poco più che un ruolo di delazione? Con ventimila miliardi in meno? Le riforme sono trappole mortali in Italia. Da anni sono lo strumento per distruggere energie e risorse in una forbice affilata tra idee e zelo da un lato e macchina burocratica dall’altro. E così si tagliano per sempre speranze, fiducia, ottimismo, voglia di fare e vivere in una società civile distrutta da amare esperienze.

Scetticismo, cinismo, morte della cultura dell’innovazione e del cambiamento, carriere, opportunismo, isolamento, ottusità, falsi progetti.

La sanità regionale (e italiana) è a un bivio: o troverà tecnici che accetteranno il rischio amministrando, scegliendo, decidendo, agendo in tempo reale tutto ciò che è possibile agire in tempo reale, deistituzionalizzando oppure finirà la sanità pubblica in Italia. Il problema sono le risorse umane. Il problema non è la pianificazione dei numeri ma la valorizzazione delle esperienze innovative, qui e ora.

La questione è: le istituzioni servono a valorizzare la gente o a distruggerla? Le regole servono a innovare o a impedire? Lo stato animatore (di energie, risorse, opportunità) è un sogno o qualcosa che tutti possiamo costruire? Finalmente costruire? Che cos’è (cosa è stata) la deistituzionalizzazione (vera) se non rovesciare il rapporto perverso tra regole e bisogni? Che cos’è il dovere del tecnico se non il suo schierarsi sempre, costi quel che costi, dalla parte dei bisogni? Cos’è stato Basaglia se non un uomo che tra regole e bisogni ha avuto il coraggio di scegliere sempre i secondi? Ma quanti sono disposti a piegare le regole ai bisogni, e quanti invece non fanno nel loro tempo che piegare i bisogni alle regole?

L’evidenza della pratica

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evidenzaI Servizi di salute mentale, che nella migliore delle ipotesi si sono sviluppati nella comunità, nelle relazioni, nei contesti, e hanno fondato il lavoro di cura e di riabilitazione sulla socialità, sull’incontro, sull’esserci tutti, vivono oggi una profondissima crisi: sovrastati dalla necessaria attenzione all’epidemia, sono ridotti a poco più che ambulatori e i luoghi dell’abitare o della cura in ospedale rischiano di essere dimenticati e abbandonati. Tanto di più di quanto non accada già senza la complicità del virus. Ma di questo parleremo ancora.

Di Peppe Dell’Acqua, 2005/2020

Era il mese di aprile del 1975 quando cominciò la sua attività il primo Centro di salute mentale in Italia. L’ospedale psichiatrico era ormai aperto e, con i Centri di salute mentale funzionanti ventiquattr’ore al giorno, avrebbe visto la sua definitiva chiusura di lì a pochi anni. Che tutto questo potesse accadere era impensabile. Da allora l’attenzione (e l’occhio incredulo e scettico) del mondo, non solo e non sempre delle psichiatrie, non ci ha mai abbandonati. Le psichiatrie, gli accademici, gli opinionisti di ogni ordine e grado, senza mai rendersi conto di quanto stava accadendo sul campo, negavano il valore di quella esperienza (e della più ampia e radicale trasformazione in corso nel Paese), chiamavano a sostegno tutte le ideologie oscurantiste del più arcaico positivismo scientifico: la natura somatica della malattia mentale, la impenetrabile certezza della diagnosi, la pericolosità, l’abbandono, il suicidio. Il cinismo e il pessimismo più devastante della radice biologica della psichiatria del ‘900 dominavano il campo dell’indifferenza delle politiche e della presupponenza delle lobbies.

I cambiamenti avvenuti nel corso di ormai mezzo secolo sono davanti agli occhi di tutti. Riconosciuti e apprezzati da istituzioni e governi di tutto il mondo (dall’Oms alla California e tanto altro) continuano tuttavia a essere negati da una cospicua parte del mondo così detto scientifico. Non ci sono evidenze dicono, e dicevano allora, o meglio si trova poco in letteratura; tutto ciò che si trova su Trieste (e sul Paese in generale) è soltanto aneddotica, dicono. Narrazione, anche ricca ed emozionante.

In questi giorni molti colleghi, amici e compagni della straordinaria avventura che ho avuto la fortuna di vivere nel corso di più di mezzo secolo mi hanno segnalato l’articolo di Mauro Carta, Matthias Angermeyer e Anita Holzinger, Salute mentale in Italia: le ceneri di Basaglia nel vento della crisi dell’ultimo decennio su International Journal of
 Social Psychiatry. Dalle conclusioni: «Trieste è forse il servizio sanitario più famoso al mondo, ma dov’è questa esperienza in letteratura? Uno degli autori ha trascorso due periodi a Trieste nel 1985 e nel 2005, il secondo di 6 mesi. Il clima lavorativo è stato fantastico: l’energia che è emersa dal personale è andata al benessere delle persone che necessitavano di cure. Ma non restano che aneddoti. Questa nostra breve recensione, sebbene sistematica, non può mostrare un quadro esaustivo di tutto ciò che è stato prodotto su Trieste. Tuttavia, è ciò che accade se si cerca qualcosa in letteratura su Trieste». Mi accingo a dare ancora una volta una risposta, sicuro che non basterà, e in premessa devo ricordare agli autori che la trasformazione a Trieste (e in Italia) ha a che vedere con un radicale cambiamento di sistema, di paradigma, di culture. La malattia messa tra parentesi favorisce l’irruzione sulla scena di presenze (cittadini, individui, persone) fino ad allora negate proprio dalla psichiatria.

Basaglia avrebbe detto «venite a vedere» e io non posso che continuare a narrare.

Franco Basaglia aveva cominciato il suo lavoro a Trieste nell’agosto 1971 e per quattro anni l’Ospedale Psichiatrico di San Giovanni si era trasformato in un grande cantiere. Tutto quello che accadrà nei 10 anni successivi accadde in quegli anni: dalla prima cooperativa, che solo dopo si chiamerà sociale, ai gruppi di convivenza che diventeranno i luoghi dell’abitare insieme, al lavoro esterno (fuori dalle mura) che allude ai Centri di salute mentale che di lì a poco verranno. Per la prima volta un manicomio si dotava di automobili e gli infermieri uscivano per accompagnare a casa le persone.

I reparti fino a quel momento organizzati per diagnosi omogenee, o meglio per gradi e definizioni di comportamenti, vennero rimescolati. I tranquilli, gli agitati, i violenti, gli infermi, i sudici, gli osservandi vengono aggregati per territorio di provenienza e cominciano a diventare cittadini. La città, 300 mila abitanti allora, 230 mila oggi, venne suddivisa in 5 grandi zone di 60 mila abitanti; e così l’ospedale psichiatrico.

Cinque gruppi di lavoro cominciano a esplorare quelle zone della città, cercando legami, brandelli di storie da ricomporre, relazioni possibili. Si disse allora che gli operatori uscivano e attraversavano la città portando il matto sulle spalle.

Un esercizio questo, e una metafora, che qualificherà non poco il lavoro dei Centri di salute mentale che verranno. L’urgenza di vedere allontanarsi l’ombra del manicomio e di rompere irreversibilmente con quella storia attraversa ogni azione, ogni gesto.

Non c’è ancora la legge 180 e tuttavia una prima incerta cittadinanza comincia a costruirsi. Con fatica naturalmente. Anche le pratiche, le strategie e le politiche per sostenere quella cittadinanza, ora meno incerta e tuttavia a rischio delle persone con disturbo mentale, fonderanno il Centro di salute mentale. In molti ospedali psichiatrici, dove si sta sperimentando il cambiamento, andare fuori, mettere radici nel territorio sono imperativi assoluti. E impensabili sono le difficoltà, i conflitti da affrontare, le spaccature da sanare per sostenere i matti che ora possono abitare la città e che pongono l’urgenza e la radicalità dei loro bisogni, della loro singolarità finalmente ritrovata.

Nell’aprile del 1975 è Franco Rotelli ad aprire il primo Centro di salute mentale ad Aurisina, piccolo comune nella piccola provincia di Trieste. Una casa, una vecchia caserma dei carabinieri, poco distante dal confine jugoslavo, ospita 10 persone, uomini e donne, dimesse dall’ospedale. Per loro il Centro è un tramite per riprendere posto nel paese. Il Centro comincia a essere anche il luogo dove le persone possono andare per far sentire il proprio male, chiedere di essere accudite, ascoltate, comprese. È il luogo da dove gli operatori si muovono per andare là dove le persone vivono. Dopo pochi mesi, a Trieste, verrà il Centro di Barcola, e poi Muggia e via Gambini. E intanto c’è stata Nocera Superiore/Materdomini, Perugia, Gorizia, Città di Castello, Arezzo e di lì a poco verrà Ferrara, Reggio Emilia, Torino, Settimo Torinese, Caltagirone e tante altre piccole grandi esperienze che segnano quel passaggio: abbandonare l’ospedale, costruire possibilità nella comunità. La scommessa è agire concretamente il lavoro terapeutico nelle relazioni e nei luoghi di vita delle persone.

Per gli operatori che agiscono quel cambiamento la rotta è ben segnata dalla necessità di chiudere il manicomio, di interrogarsi su cos’è la psichiatria e sulla natura della follia. Tuttavia sono ancora poche e deboli le pratiche territoriali, non ci sono modelli e ancora meno esperienze radicate che possano aiutare e indicare una rotta certa.

Le scarne esperienze comunitarie inglesi e americane sono distanti non solo geograficamente. Per altro nascono sempre a valle di corposi manicomi. Anche il settore francese sembra confermare, se non rafforzare paradossalmente, la necessità del manicomio.

La radicalità della scelta di abbandonare il manicomio è comunque appassionante, porta a vedere lontano ma provoca inevitabilmente solitudine, alimenta distanze, rende incerto il cammino. Bisogna esplorare terreni sconosciuti, ridisegnare complesse cartografie, verificare rotte, rischiare sconfinamenti, avanzamenti, stallo, disorientamenti. Le accademie si muovono con ostentata ostilità, la Società italiana di psichiatria espelle Basaglia, timide (e interessate) politiche regionali si assoggettano alla prepotenza dei cattedratici. I Tribunali, le Magistrature non possono non condannare azioni che criticano nella pratica la legge vigente del 1904, il paventato disordine pubblico dei matti in libertà. Più di una volta Basaglia e tutti noi dobbiamo sopportare incriminazioni e processi. Il manicomio, in realtà, non è ancora definitivamente sparito. La legge è stata appena approvata, i progetti obiettivi arriveranno. Non ci sono regolamenti, non ci sono procedure scritte e condivise, non sono disegnate le strutture, si dispone di conoscenze epidemiologiche meno che frammentarie.

La parola guarigione è fuori dal lessico di quelle psichiatrie che stiamo cercando di abbandonare.

Roberto Mezzina comincia a essere impegnato nel lavoro di ricerca di strumenti e relazioni sul piano nazionale e internazionale, convinto assieme agli altri colleghi che bisogna disegnare una rappresentazione meno incerta. La scommessa ora è inventare e dare radici alle nuove istituzioni della salute mentale. Sarà il Centro di salute mentale, o qualcosa che a questa struttura, funzione, dispositivo rimanda, il luogo delle prime esperienze di ricerca e l’entusiasmo, gli interrogativi e la curiosità di quelle esplorazioni si riverserà in un numero cospicuo di lavori valutativi, descrittivi e di approfondimento epistemologico.

C’è già stato nel ’94, atteso da tutti, un primo Progetto Obiettivo che rende più concrete le indicazioni della riforma. Le Regioni hanno avuto il tempo di varare proprie leggi per la salute mentale. Il secondo Progetto Obiettivo (1999/2000) ha precisato finalità, modalità di funzionamento, procedure e organizzazione del Dipartimento di salute mentale. Più di una Regione ritarderà molto a varare una propria legge o peggio sotto l’influenza delle peggiori psichiatrie accademiche e di inconfessabili interessi di imprenditori privati matureranno progetti regionali di compromesso. Tra le altre, solo per esempio, la Sardegna nel 2007 non aveva ancora pensato a una sua legge regionale!

A differenza della maggior parte degli studi italiani che assumono servizi e modelli operativi di altri paesi, in genere anglosassoni e americani, come confronto i lavori prodotti a Trieste hanno dovuto riconoscere i passaggi del cambiamento (spesso assolutamente originali e innovativi) per connettere i risultati alla realtà italiana, alle dinamiche di sviluppo in atto, al processo di crescita non lineare dei servizi di salute mentale nella comunità e alla progressiva presenza dei soggetti sulla scena. Anche gli strumenti di valutazione adottati sono originali e non presi malamente a prestito da altri modelli, da altre culture.

Lo scopo dei lavori di ricerca e valutazione che si sono sviluppati negli anni è stato sempre quello di descrivere e confrontare modalità di accoglienza, percorsi di cura e di riabilitazione, programmi alla dimissione, di inserimento lavorativo, di organizzazione di vita autonoma, di sostegno al carico familiare. Di recente grande rilievo hanno assunto i programmi di ricerca intervenendo sulle forme di associazionismo, di protagonismo e di partecipazione delle persone che vivono l’esperienza. Le forme di risposta alla crisi, le strategie di abolizione della contenzione (a Trieste sono state abbandonate tutte le pratiche coercitive fin dai primissimi anni ’70), l’attenzione all’esordio nei giovani sono i temi che oggi maggiormente tengono il campo.

Il lavoro non avrebbe potuto procedere per tutti questi anni se non si fossero verificate ipotesi di nuove organizzazioni, si fossero messe a punto e descritte pratiche sensate tanto visibili nella loro banalità quanto purtroppo distanti da quanto accade oggi nella maggior parte dei Servizi di salute mentale in Italia e in Europa.

Queste alla fine le evidenze: più il territorio è popolato di servizi che costituiscono reti e sistemi coerenti, più i servizi dispongono di risorse differenti e talvolta inusuali, più sono in grado di utilizzare il posto letto territoriale nel Centro di salute mentale (come ultima risorsa), per esempio, più si propongono di evitare il ricorso passivo al ricovero nel Servizio ospedaliero di diagnosi e cura o, peggio, in cliniche private fuori dal circuito e fuori dalla rete, più sostengono la bassa soglia di accesso, più spostano l’asse dell’intervento verso il contesto dove le persone vivono, più invogliano gli operatori a lavorare in gruppo, più valorizzano tutte le persone presenti nel servizio, più il servizio si orienta alla recovery e con convinzione verso la comunità, maggiori sono i vantaggi per le persone con disturbo mentale, i familiari, gli operatori, i cittadini, le amministrazioni.

Si sono ridotti i tempi del trattamento nella fase acuta, i familiari vengono coinvolti, le persone accedono più facilmente a percorsi abilitativi e di ripresa, restano utilmente in contatto, diminuisce il numero e l’intensità delle ricadute, si usano meno farmaci, si alimentano le reti e le relazioni, cresce il numero delle persone che trovano posto in programmi di formazione lavoro, si è ridotto il rischio di stigmatizzazione e di esclusione.

Le persone con esperienza hanno assunto consapevolezza e hanno cominciato a prendere in mano le loro vite.

Eppure in conclusione non posso non condividere alcune riflessioni che gli autori de Le ceneri di Basaglia fanno sulle ultime decadi delle politiche di salute mentale in Italia (e aggiungerei nel resto dell’intera Europa).

Il declino oggi dell’attenzione alle politiche di salute mentale è una realtà amarissima. È davanti agli occhi di tutti lo smarrimento del necessario orientamento etico, l’approssimazione se non l’assenza di indirizzi governativi e di politiche regionali. La trascuratezza, se non peggio l’insensatezza, delle aziende sanitarie soltanto prese in manovre di rientro, ad accorpamenti di aree territoriali col miraggio di ridurre costi e risorse umane è sostegno delle mai abbandonate cattive pratiche. Tanto che in Italia, come in tutti i paesi europei «…gli psichiatri – scrive Saraceno nella prefazione al bel libro di D’Autilia, Dopo la 180. Critica della ragione Psichiatrica – continuano ad accettare ancora che i pazienti gravi e cronici non abbiano alternative decenti alle istituzioni e che siano seppelliti in residenze protette sempre più simili a manicomi oppure negli istituti privati e religiosi; gli psichiatri accettano che i servizi di diagnosi e cura pratichino normalmente la contenzione fisica, che i servizi territoriali riproducano logiche asfittiche e ambulatoriali, che le case farmaceutiche occultino i dati sfavorevoli ai farmaci che vendono, che, infine, il rigore delle evidenze scientifiche sia invocato sì, ma a giorni alterni, ossia quando conviene».

E anche Trieste, e la regione FVG, è mai come ora minacciata dalla grevità e dalla cecità delle politiche del governo regionale.

Questo testo è buona parte della prefazione a Crisi della psichiatria e sistemi sanitari. Una ricerca a cura di Roberto Mezzina con Daniela Vidoni, Maurizio Miceli, Corrado Crusiz, Annamaria Accetta, Gaetano Interlandi.

13 maggio. E se non ci fosse stato Basaglia…

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abbeylossing[Illustration by Abbey Lossing]

di Isabella Borghese

[autrice di Dalla sua parte, Edizioni Ensemble, 2013]

La mia adolescenza racconta gli anni in cui ho iniziato a confrontarmi con la malattia mentale. Gli anni in cui ho iniziato a conoscere mio padre prima di tutto come un individuo a sé, un essere umano. Mi sono scontrata con la mia incapacità di accettare il suo bipolarismo, con quella forza, anche, che mi ha portata per anni a odiarlo, a combattere contro i suoi mostri, contro tutto quello che di male accadeva alla sua vita e inevitabilmente al modo in cui noi in famiglia subivamo ogni suo comportamento, figlio di eccessi – fasi up e fasi down – difficili da affrontare. Scappare da e tornare a casa era la mia abitudine. Nell’anno più complicato della mia vita personale, rispetto al mio rapporto con lui, un evento specifico mi mise davanti a una scelta: o mi faccio del male o cerco aiuto. O cerco di salvaguardarmi o mi distruggo. Il contesto sociale in cui vivevo mi aiutò molto; le mie amiche del cuore di allora e i miei amici, sono i miei congiunti di oggi. Così, grazie anche a loro, cercai e parlai con uno degli psichiatri che seguiva mio papà e fui affidata a una psicologa – affidare è il verbo per me più adatto – e intrapresi così il mio percorso terapeutico più importante, di certo il più incisivo nella mia vita. Quello che oggi, direi, mi indicò la direzione migliore, quella della cura. Prima della mia, poi di quella che io potevo avere per lui in una condizione di consapevolezza e accettazione della sua malattia. Ho avuto la fortuna di interfacciarmi ed essere accolta dai medici che negli anni lo hanno curato ogni volta che un dubbio o una paura mi assalivano con forza. A volte, mi rendo conto, di avere avuto quasi la pretesa di essere aiutata, e solo perché volevo e dovevo stare bene. Ma stare bene non è sempre facile. È spesso frutto di una profonda volontà, di un percorso che si sceglie di intraprendere con metodo, rigore, e guidati dalla ragione, perché se essa la si abbandona è più facile che l’istinto ci porti a crollare, a perdere la lucidità. Se non ci fosse stato Franco Basaglia mio padre sarebbe finito in un manicomio e non avremmo potuto lottare, ciascuno da solo, e anche insieme per la sua vita e quella di noi tutti familiari. Non avrei potuto confrontarmi con gli psichiatri che lo seguivano e con cui avevo spesso colloqui, non avrei familiarizzato con la sensibilità e la fragilità diversa con cui ciascuno è chiamato a vivere. Quando è morto Guido Martinotti, uno degli psichiatri che lo ha avuto in cura e in clinica per molti anni, a periodi alternati, ho sentito di aver perso un altro padre, perché chiunque si prende cura dei nostri cari e di noi con la dedizione che sapeva metterci Martinotti, è una guida. Un riferimento. Ma tutto questo senza Franco Basaglia non ci sarebbe potuto essere. Dobbiamo a lui il grande merito di riconoscere il valore di ogni essere umano. Anche per questo, grazie a Franco Basaglia, a 42 anni dalla Legge che porta il suo nome, i suoi ideali, la sua umanità.

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